Contributi

Il contromercato dell’arte contemporanea

di Piero Trupia 28 Febbraio 2013

Nelle ore piccole della TV, va in scena il venditore di opere d’arte. Dipinti e piccole sculture di arte contemporanea, la più difficile da decifrare e la più facile da piazzare a determinate condizioni, prima tra tutte la soggezione di un pubblico di amatori, ma non competenti conoscitori.

Sullo schermo non un banditore, ma un esperto. Dice un prezzo e attende le telefonate degli interessati, illustrando e lodando l’opera con elegante sicurezza e non misurata iattanza commerciale.

Su un punto insiste: l’acquisto è un investimento; le opere dell’autore proposto si sono già rivalutate di almeno il 50% nell’ultimo decennio. En passant, accenna a un volume dedicato che sarà consegnato in omaggio all’acquirente dell’opera proposta. I prezzi vanno da 10 a 50.000 euro, pagabili anche in comode rate.

Il venditore guarda l’obiettivo e ignora il quadro dietro le sue spalle.

Sarebbe difficile, anche per un grande esperto, illustrare a memoria la ventina di opere della serata. Ma l’illustrazione televisiva notturna è un pezzo di bravura del discorso elevato e assolutamente generico. Come l’etichetta dei vini che resta valida con qualsiasi vino e che sfiora la concretezza soltanto quando assicura che l’odore è vinoso.

Qualcuno compra, convinto di un valore artistico che non ha compreso e di un investimento sostenuto da un trend che non ha verificato.

Siamo il paese del più cospicuo patrimonio artistico con un analfabetismo in materia nella media mondiale. L’insegnamento scolastico anche universitario non aiuta, se non per altro per il fatto che non s’insegna l’arte ma la storia dell’arte. Come se un medico volesse curare con la storia della medicina. I critici hanno questa formazione di base, ultimamente integrata da una semiotica che confonde ancor più le idee, in quanto esclude la possibilità di individuare un significato. Soltanto segni che si corrispondono e si integrano come nel dècor di un tovagliato.

Ecco cosa scrive il grande storico dell’arte e didatta Giulio Carlo Argan, in una sua lettura della limpida tela di Carlo Carrà Le figlie di Lot (1919).

“Il fatto stesso che la forma abbia dentro di sé […] la propria condizione di spazio e che pertanto la composizione assuma il valore di un’articolazione interna di forma o, analogamente, di un’estensione, non solo del modulo ma della sostanza formale a tutta la realtà, spiega il senso non impressionistico, della simultaneità costruttiva, e non soltanto visiva, dello spazio nella pittura di Carrà.” (Appunti su Carrà, in Le Arti, 1939).

Achille Bonito Oliva è curatore di mostre ed estensore dei pannelli illustrativi delle opere esposte. Ecco il tenore dei suoi commenti in questo brano tratto da un pannello della mostra Arte e Natura in De Chirico, Roma, Palazzo delle Esposizioni, maggio-giugno 2010.

“La Natura trasfigurata in chiave mitica […] Scenari di archetipi universali. […] Le figure trasformate in simboli della cultura, intesa come grande forza civilizzatrice, vittoriosa sul disordine apparente della natura.”

È una prosa, rappresentativa di quell’ermeneutica dell’arte che non parla di quel che si vede sulla tela; usa paroloni per comporre un testo generico applicabile a qualsivoglia opera. Un gioco che non regge nemmeno a livello formale, quando insorgono problemi di coerenza logico–testuale al livello della semplice scrittura. Mi soffermo soltanto su quest’ultimo punto che può sfuggire a una lettura distratta.

Intanto che la cultura sia una grande forza civilizzatrice è un fatto noto. Che però ingaggi una lotta contro il disordine della natura è del tutto superfluo, se, come dichiarato, un tale disordine è “apparente”.

Vittorio Sgarbi è persona acuta e di vivace intelligenza. Fa molte cose e soffre di disattenzione quant’altri mai, sempre con riferimento al contenuto delle opere che commenta.

Ne do un saggio in un suo commento alla Vocazione di San Matteo in San Luigi dei Francesi in Roma.1

Un primo esempio di mancata attenzione del Nostro si coglie là dove dice, con riferimento alla messa in scena della Vocazione, “Ci troviamo in un interno, forse una gabella”. Ma nel Vangelo secondo Matteo si legge “Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco della gabella” (Matt., 8, 9). Una disattenzione marginale, seguita, nelle poche righe del commento, da altre ben più sostanziali.

Vediamole.

“Accade qualcosa, qualcosa che è annunciato da una luce completamente artificiale che taglia il quadro e riduce in penombra le due figure sulla destra, Gesù e San Pietro. Gesù indica uno dei gabellieri, Matteo: lo chiama; ma il gesto […] non è retorico […] e la sua naturalezza estrema nasce proprio dall’artificio con cui Caravaggio fa vibrare nella penombra, rasentata dal fascio di luce, la mano di Cristo: un effetto luminoso assolutamente straordinario […]per cui a Matteo questo gesto giunge come un segnale, inducendolo […] a puntare il dito contro se stesso, come a dire <Parli con me?> […] la teatralità è resa ancora più tangibile dall’eliminazione di ogni tipo di luminosità diffusa: pur di poter manovrare liberamente queste lame di luce sui propri caratteri, Caravaggio arriva a oscurare […] l’unica finestra visibile, impedendole così di contaminare di luce naturale quel fascio luminoso che, essendo luce di Cristo […] è innegabilmente sovrannaturale, è innegabilmente luce della verità divina”.

In questo esercizio di ermeneutica dell’arte la disattenzione rispetto alla concreta realtà dell’opera diventa un prototipo del discorso critico italiano.

Il dubbio iniziale se quell’ufficio fosse una gabella, viene contraddetto dallo stesso Sgarbi, quando, poche righe dopo, dice che Gesù si rivolge a uno dei gabellieri. Disattenzione su una disattenzione, quella del testo evangelico.

C’è poi la descrizione dell’opera che è del tutto estranea alla realtà della medesima.

Sgarbi parla di fasci di luce uno dei quali rasenta la mano di Cristo e la fa vibrare. Ma nel quadro l’intera figura di Cristo è immersa precisamente in un fascio di buio. È questa la grande invenzione della Vocazione caravaggesca. Non casuale o semplicemente teatrale ma tematica e filologica. È la perentoria affermazione del Vangelo secondo Giovanni “: E la luce splende fra le tenebre e le tenebre non l’hanno accolta” (Giov., 1, 5). In più, quella mano di Cristo non vibra; è ferma, perché perentoria come quella della creazione di Adamo nella Cappella Sistina che Caravaggio cita. Matteo, il gabelliere, rasenta la non accoglienza. Il suo dito indice puntato contro il petto dice, “Proprio a me?”. Ma è un istante. Subito dopo lascia la Gabella e segue il Maestro.

Invito il lettore a riscontrare sul testo evangelico questa descrizione di Sgarbi, per cogliere altre disattenzioni dello stesso tipo.

Emerge dalle citazioni riportate di Argan, Bonito Oliva, Sgarbi il primo effetto fuorviante di un certo tipo di critica d’arte sull’amatore non specialista che vorrebbe essere aiutato a comprendere e diventare conoscitore. Questa critica vuota o disattenta si aggiunge a quella che tratta l’arte in chiave prevalentemente storica e non semantica, oppure, in altri, in una malintesa chiave semiotica, intesa come una segnica chiusa in se stessa e non indicante un significato oltre i segni.

Nelle gallerie, nelle mostre, nelle biennali, triennali e quadriennali non va meglio. Ci sono opere valide e molte cose strane che i pannelli esplicativi esaltano senza spiegare e che visitatori intimiditi ammirano senza comprendere.

È difficile che su questa base gli italiani possano essere custodi e valorizzatori del loro strabiliante giacimento del bello. Coltivare il gusto e la capacità di giudizio sul bello è una condizione per aggiungere due “A”, arte e accoglienza, alle quattro del made in Italy: abbigliamento, agroalimentare, arredamento, automazione.

Educare il gusto e proporre l’acquisto di opere valide a un prezzo ragionevole sono due strade percorribili. Lo fanno già alcune fiere, mentre in senso contrario opera il grande mercato organizzato dell’arte contemporanea, opaco e manovrato da un ristretto gruppo non di intenditori, ma di specialisti del marketing artistico.

Vediamo intanto alcune cifre, quelle disponibili sull’arte contemporanea, che oggi alimenta gli scambi.

Il fatturato 2012 delle maggiori case d’asta va dai quasi 2 milioni di euro di Meetingart ai 1.200.000 di Paleschi. Il totale delle dodici maggiori case d’asta nel mondo è 103.280.605.

Il bacino di riferimento di questo mercato è assolutamente apicale. Un interessamento non manovrato della massa degli amatori lo moltiplicherebbe per dieci in pochi anni. Ma questa popolazione è oggi respinta dalla qualità media dell’arte contemporanea, dominata dalla logica commerciale del prodotto nuovo, il quale più che incantare deve stupire nel senso di sbalordire e disorientare.

Il mercato dell’arte contemporanea è costruito, attivando un meccanismo di portata mondiale che è stato ricostruito da Francesco Poli, docente all’Accademia di Brera e all’università Paris 8, nel volume Il sistema dell’ arte contemporanea (2011).

“Sistema” sta per mercato, gestito da un paio di migliaia di critici, un paio di centinaia di galleristi, qualche decina di direttori di museo e di fiere e altrettanti collezionisti importanti.

Si comincia con il puntare su un giovane talento e con il lanciarlo nel mercato.

Una mostra in una galleria che conta, la recensione di un critico autorevole, un’eco sulla stampa specializzata con analisi apparentemente approfondite e commenti all’insegna dello stupore per l’originalità dell’opera, l’ardire del linguaggio, la novità dello stile. Infine, un passaggio in TV, l’interessamento da parte di un collezionista e, se l’opera si presta, l’acquisto da parte di un museo. Scatta così la quotazione di 400.000 $.

Il grosso pubblico può essere perplesso, osservando la riproduzione dell’opera sui media. Non importa. Fa testo il prezzo che, si dice, qualcuno ha pagato per assicurarsela.

Il grosso pubblico ha nel “sistema” la funzione del coro nella tragedia greca: commenta e amplifica o tace.

Il più influente collezionista di arte contemporanea a livello mondiale è Charles Saatchi. Dichiara che compra un’opera soltanto perché gli piace. Sì, è vero, poi la rivende, e con un buon profitto, ma solo perché lui non si affeziona alle cose. Se valide, è bene che circolino.

La verità è che i collezionisti del “sistema” sono soltanto abili mercanti organici al mercato dell’arte contemporanea.

Guido Rossi, che di mercato s’intende e che è un collezionista vero, dice che quello dell’arte contemporanea è un “contromercato”, dove latita il libero scambio e la consapevole valutazione di un libero acquirente.

Questo è il punto: chi è in grado di decidere se la Fontana di Duchamp (1917) è un’opera d’arte o un orinatoio da parete? Quale valore attribuirgli, considerato che si può acquistare, senza la firma, in un qualsiasi negozio di termoidraulica? Si può allora dire, forse, che il contromercato dell’arte contemporanea commercia in totem, in oggetti magici, resi tali a seguito della valorizzazione operata da uno sciamano o esperto che sia. Duchamp del resto lo aveva dichiarato: basta l’istituzionalizzazione dell’oggetto e lo Scolabottiglie diventa un’opera d’arte.

Decisiva, per il funzionamento del “sistema”, è l’incapacità di giudizio o la timidezza del grande pubblico.

Flora Steel è una gallerista romana con una laurea in storia dell’arte dell’università East Anglia a Norwich (U:K.). A proposito dell’arte contemporanea dice che “è difficile commuoversi, se per capirla occorre una lunga e concettosa spiegazione”. Circa la semplice scritta al neon di Joseph Kosuth, consacrata da Filiberto Menna, si limita a osservare “Neon per neon, preferisco Piccadilly Circus. Più coinvolgente”. Conclude: “Ho chiesto a un amica gallerista a Londra che commercia in installazioni che fine facciano. In cantina dopo una breve permanenza in salotto, la risposta”

Del resto c’è chi sostiene, tra gli autori, che l’arte contemporanea non è roba da museo. Va vissuta per il tempo di una mostra e poi disfatta. Come la scenografia di un evento che ogni spettatore crea e vive nella sua mente.

Resta l’effetto devastante su coloro che nel grosso pubblico spendono fino a 50.000 € per uno sgorbio su una tela o per un mucchio di detriti da ricomporre in un angolo del salotto. Resta la diseducazione istituzionalizzata di massa come quella di quei giovani writer che imbrattano con le loro firme un edificio appena rinnovato, un monumento o anneriscono gli incisivi centrali di un bel sorriso su un manifesto. Hanno sentito dire che la bellezza non esiste, che importante è esprimersi nel modo in cui si è capaci e tanto basta per lasciare un segno del loro passaggio

1 Vittorio Sgarbi, La passione della realtà, in Caravaggio, Skira Editore, Milano 2003, pp. 7-13

Autore

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Piero Trupia. Linguista, cognitivista, filosofo del linguaggio. Studi di matematica, economia, scienza della politica. Dirigente industriale fino al 1996. S’interessa di arte figurativa che studia e colleziona. Il suo approccio critico si avvale delle forme più avanzate di semiotica e semantica della figura. In materia ha pubblicato saggi nella collana Analecta Husserliana, Kluwer, Dordrecht, Nederland. Appena uscito, Piero Trupia, Perché è bello ciò che è bello. La nuova semantica dell’arte figurativa. Con un saluto di Santo Versace e una riflessione di Renzo Piano, Franco Angeli 2012. Blog La Chimera: http://pierotrupia.blogspot.com

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