Contributi

Forze economiche aziendali e cultura della responsabilità: dal conflitto all’equilibrio di interessi

di Luigi Adamuccio 26 Aprile 2013

“Un’impresa che fa null’altro che soldi è un’impresa veramente modesta” (Henry Ford)

“La leadership personale è il processo che tiene la tua visione e i tuoi valori davanti a te e allinea la tua vita in modo compatibile con essi”’ (Stephen Covey)

L’attuale congiuntura sta alimentando seri dubbi sulla bontà delle politiche finora adottate in nome della globalizzazione. Quello che stiamo attraversando non è solo un periodo di crisi economica e finanziaria: è qualcosa di più complesso che ci costringerà a cambiare la struttura e la velocità del mondo, a rimettere in discussione molti dei modelli finora dati per scontati. La crisi in atto sembra rappresentare il fallimento delle politiche economiche neoliberiste intraprese negli ultimi trent’anni a livello mondiale, che si sono scaricate  sulle condizioni (di lavoro e di vita) di larghe masse di popolazione. Conseguenza di tutto questo è stata l’espansione dell’attività finanziaria e speculativa a spese dell’economia reale, con un enorme aumento della disuguaglianza dei redditi e della ricchezza. Come se non bastasse, in un contesto di accentuato individualismo ed in un mercato sempre più globalizzato, assistiamo alla rottura irreparabile del binomio progresso socio-economico/moralità dei comportamenti. Ma c’è un modo per coniugare obiettivi di efficienza e redditività con profili sociali di responsabilità e sostenibilità dello sviluppo? Esistono modelli di business e, quindi, modelli organizzativi, modalità operative differenti dal solito, abusato cliché? E’ il caso di quelle aziende che contribuiscono a creare valore e sono attente al profitto, ma con orizzonti temporali medio lunghi e soprattutto proiettati a rispettare le esigenze degli stakeholder, in primo luogo i soci membri ed il territorio di riferimento, oltre ai dipendenti.

Finanza, globalizzazione ed etica

L’ebbrezza del potere, la lusinga del profitto, la sfrenata ricerca del massimo vantaggio economico  a tutti i costi, portano spesso, a causa della debolezza umana, ad una progressiva perdita di tensione morale, allontanando chi in azienda decide e gestisce risorse (umane, tecniche o finanziarie) dalla sua unica, vera, alta missione: diffondere quanto più possibile gli effetti benefici del progresso.

I recenti eventi legati alla crisi finanziaria mondiale sono la conferma di una strategia d’impresa irresponsabile, di solo profitto, in molti casi tollerata persino dalle Autorità preposte alla vigilanza e dalle Istituzioni; un sistema di regole sbagliato, da alcuni speculatori ed uomini di vertice aziendale di pochi scrupoli indicato come l’unico da emulare, perché in grado di garantire guadagni nell’immediato; un sistema lontano anni luce da quell’etica manageriale che con grande fatica si sforza di tenere insieme il “fare impresa”, il  “senso della misura nei comportamenti” ed un “codice di principi morali e di valori”.

I casi ILVA, ENRON, PARMALAT, LEHMAN BROTHERS, MONTE PASCHI sono lì a ricordarci l’esistenza di pratiche irresponsabili in grado di produrre effetti negativi a catena, così come scenari sempre più inquietanti si profilano all’orizzonte con una finanza globale nelle mani di un migliaio di gruppi che, attraverso uno spaventoso intreccio azionario, controllano la metà circa di tutte le multinazionali.

E la globalizzazione, presentata come la soluzione a tutti i mali del mondo, soprattutto per la lotta alla povertà, è ora accusata di:

–        aver portato pochi benefici, molto limitati, alle popolazioni dei paesi meno sviluppati;

–        lasciare nelle mani delle grandi multinazionali le sorti del mondo e di limitare il ruolo degli stati a quello di semplici esecutori dei voleri del mercato.

Ma la riflessione che vorrei qui condividere non è tanto sulla grave crisi di sistema e sulla globalizzazione in sé per sé, quanto quella:

–        su un mercato che vede crescere le concentrazioni di potere e che rischia di far fallire ogni tentativo teso alla costruzione di una sana competitività, con il rafforzamento di gigantesche compagini multinazionali che, impegnate solo ad accaparrarsi profitti, credono persino di non dover rispondere all’opinione pubblica e ad alcuna autorità;

–        sul rapporto esistente tra taluni manager avidi, profittatori, e le aziende affidate alla loro guida, manager che come locuste distruggono, sottraggono valore da realtà organizzative e, conseguentemente, da interi territori.

Due questioni apparentemente slegate, ma che in realtà presentano strette correlazioni se è vero, come sostiene Serge Latouche, che “la globalizzazione è stata per il capitalismo una tappa decisiva sulla strada della scomparsa di ogni limite. Infatti permette di investire e disinvestire dove si vuole e quando si vuole, in spregio degli uomini e della biosfera. E’ la trasgressione ufficializzata di tutte le norme sociali, morali e ambientali. Il mondo della finanza fornisce ogni giorno una massa di testimonianze del delirio e della perdita dei limiti. Sui 3.200 miliardi di dollari che venivano scambiati quotidianamente nel 2008 sui mercati finanziari, solo 2,7 corrispondevano a beni e servizi”[1].   

In buona sostanza non ci sono più confini geografici, non ci sono più i confini dei vecchi stati come li conoscevamo. Ci sono solo realtà economiche senza un riferimento nazionale le quali, governate con pure ed aride logiche di “costi e ricavi”, “profitti e perdite”, spingono solo verso le esternalizzazioni, le delocalizzazioni, i ridimensionamenti degli organici. Ed in queste aziende, non è un caso, troviamo manager impegnati a generare ritorni unicamente per gli azionisti.

Vengono, peraltro, valutati e pagati solo per quello e non si vedono i motivi per i quali dovrebbero seguire approcci di gran lunga meno opportunistici e predatori, ma più difficili: quelli tesi a  generare valore nei prodotti e nei servizi offerti e, come conseguenza, nell’azienda stessa, affidata alla loro gestione e cura.   

Dice giustamente Francesco Varanini, direttore del comitato scientifico di Assoetica (www.assoetica.it): “Solo se tutti gli attori sociali collaborano per uno scopo comune, si costruisce ricchezza; perché il lavoro è una cosa ben diversa dalla rendita speculativa”.

Aggiunge John Weeks, professore emerito della London University e senior researcher alla School of Oriental & African Studies della stessa università: “Quella che molti analisti chiamano la “finanziarizzazione” dell’economia e delle relazioni sociali, crea e incrementa meccanismi che redistribuiscono il reddito a danno delle attività produttive e a vantaggio della finanza improduttiva.” [2].

A sostegno della mia riflessione, come sopra accennata, vorrei utilizzare, nell’ordine, un’indagine condotta dall’Eth, l’istituto svizzero di tecnologia con sede a Zurigo, ed il romanzo “The picture of Dorian Gray” (“Il ritratto di Dorian Gray”) di Oscar Wilde.

Obiettivo: giungere ad individuare uno o più modelli di business capaci di trovare un giusto compromesso tra gli interessi della proprietà di un’azienda, quelli di chi in essa vi lavora e quelli di terzi.

Oligarchia finanziaria e rischio sistemico

L’Eth, una delle migliori università al mondo, più di un anno fa ha realizzato uno studio scientifico, organico che, attraverso complicate mappature, dati e modelli, dimostra l’esistenza di un ristretto gruppo di super-capitalisti che hanno il dominio della finanza mondiale. Lo studio è intitolato “The network of global corporate control”.

La conclusione alla quale detto studio è arrivato può essere così riassunta: all’interno di milioni e milioni di società a livello mondiale, esiste un nucleo di circa 1.300 società che controlla circa la metà delle multinazionali; 147 entità multinazionali, inoltre, tra intrecci azionari, partecipazioni dirette ed indirette, sono in grado di controllare il 40% di tutta la finanza mondiale.

Barclays, Jp Morgan, Axa, Goldman Sache, Bank of America, Morgan Stanley: sono soprattutto  società inglesi ed americane ad occupare i primi posti nella graduatoria[3].

“The network of global corporate control” è una sorta di mappa del controllo finanziario esercitato da pochi gruppi che fanno pressioni, che decidono le sorti delle monete e delle economie e che, approfittando dell’autorità limitata delle istituzioni di controllo e vigilanza, perseguono quasi indisturbati i propri interessi, i quali  non hanno confini geografici.  

Un controllo in poche mani è pericoloso per la concorrenza, ce lo insegnava già Adam Smith due secoli e mezzo fa, e per la stabilità dei mercati!

In situazioni pericolose di concentrazione, oltre ogni misura, di potere, il collasso di una compagnia può avere ripercussioni disastrose sul resto dell’economia a livello globale.

Lo ha dimostrato la crisi dei mutui subprime, in cui le difficoltà di alcune società hanno contagiato tutto il sistema, con un effetto domino che ha messo in ginocchio l’economia mondiale.

L’esperienza e la storia insegnano?

Scriveva  Oscar Wilde: “Esperienza è il nome che noi uomini diamo ai nostri errori. L’esperienza è il tipo di insegnante più difficile: prima ti fa l’esame e poi ti spiega la lezione”.

Vero, ma una domanda nasce quasi spontanea: “La lezione di questi ultimi 4-5 anni è stata capita?”.

Io avrei più di un dubbio, alla luce del fatto che ancora oggi si rincorre qua e là il mito del guadagno facile, della speculazione in borsa, delle cartolarizzazioni selvagge, della finanza creativa, dei derivati e dei prodotti strutturati. E per non cadere nell’errore di non apprendere alcuna lezione dai fatti che sono tutt’oggi sotto i nostri occhi, dovremmo ripudiare, ripensare i comportamenti, le prassi manageriali seguite, che, per il conseguimento di maggiori profitti,  mettono in atto la più spregiudicata violazione di ogni regola o norma etica.

Non condivido, invece, il pensiero del predetto scrittore inglese quando afferma, sempre nel romanzo  “Il ritratto di Dorian Gray”, che l’esperienza non ha alcun valore etico.

L’esperienza può essere positiva o negativa, come nel caso in cui si commettano degli errori, e può avere anche valore etico se serve per ripensare il modo di agire, per migliorare noi stessi ed il rapporto con gli altri: molto dipende dal soggetto, dal contesto in cui si opera e dall’uso che se ne fa.

Immagino che Oscar Wilde,  con quell’ affermazione, intendesse dire che l’esperienza di per sé non ha valore etico perché è neutra, come nel caso di un uomo con pochi scrupoli o abituato a delinquere che usa la propria spregiudicatezza per continuare a operare male e fare del male alla collettività. E non importa se detta collettività sia quella dei risparmiatori, persone comunque influenzate dalle attività di un’impresa (fino a giungere alle generazioni future), o più ampiamente quella dei cittadini.

E basterebbe ripercorrere la vita di Oscar Wilde, popolare per le sue tante stravaganze, per capire quanto il suo giudizio possa esserne stato influenzato.

“Il ritratto di Dorian Gray” è lo specchio di tutto quanto si è agitato nella ricca esperienza del suo autore[4]. In quel romanzo, ricapitatomi tra le mani di recente, intravedo una significativa metafora della vita di molti manager, di molti vertici aziendali stranieri ma anche italiani (i nostri “Dorian Gray”): messi, grazie alla frequentazione di circoli potenti e dei salotti delle finanza che conta (i nostri cinici “lord Wotton”), alla guida di aziende pubbliche e private per meri interessi economici, se non per ragioni clientelari e di lottizzazione, essi, buoni per tutte le stagioni e per tutte le compagini nonostante tante scelte discutibili e tanti errori strategici commessi nel tempo,    cercano di scaricare il peso  dei loro fallimenti sull’anello più debole della catena (il cittadino, il risparmiatore, il lavoratore).

Il risultato catastrofico lo leggiamo sui giornali e ne sentiamo parlare ogni giorno in TV. 

Ecco, questo è quello che manca nella realtà economica, e non solo, odierna: uno stretto legame tra l’agire e le proprie responsabilità, un recupero della capacità di giudizio, della capacità  di  riconoscere i propri errori e di emendarsi! Tutte qualità che difettano attualmente a gran parte della dirigenza, nazionale e purtroppo mondiale, più incline all’autoreferenzialità, alla ricerca di una propria legittimazione passante solo attraverso un aumento, magari drogato, delle quotazioni in borsa delle azioni societarie; una dirigenza poco  o per nulla impegnata nella ricerca di soluzioni innovative di prodotto o di servizio in grado di garantire una società meno basata sulla finanza, più giusta, più produttiva, più equilibrata.

A dimostrazione di come sia possibile coniugare obiettivi di efficienza e redditività con profili di responsabilità sociale e sostenibilità dello sviluppo, le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2012 anno internazionale delle cooperative, una delle poche forme societarie in grado di creare occupazione dignitosa, di coniugare efficienza ed equità, di generare coesione economica e sociale. Ma esse non costituiscono le uniche esperienze che, senza trascurare il lato economico e finanziario, mettono le persone e la qualità di ciò che si produce al centro del fare impresa!

Un’occasione storica da non perdere per nuovi modelli organizzativi e di business

Altre esperienze producono e gestiscono l’utile aziendale seguendo una logica, una linea di condotta più ispirata alla “cultura del dare” ed alla condivisione, diametralmente opposta a quella propria dell’economia capitalista, tutta sbilanciata sul guadagno per pochi, sulla “cultura dell’avere” e sul profitto ad ogni costo.

Come a giugno del 2009, nella sua lettera enciclica “Caritas in veritate”, ci ricordava Papa Benedetto XVI, “le attuali dinamiche economiche internazionali, caratterizzate da gravi distorsioni e disfunzioni, richiedono profondi cambiamenti anche nel modo di intendere l’impresa. Vecchie modalità delle vita imprenditoriale vengono meno, ma altre promettenti si profilano all’orizzonte”.

Se è indubbio che l’economia è uno dei principali settori del fare umano e che fine di ogni attività economica organizzata per la produzione non può che essere, prioritariamente, il profitto, non va, però, dimenticato che l’impresa deve essere intesa come centro di convergenza di interessi tra loro diversificati. Non esiste solo l’azionista ed il profitto!

E’  vero, infatti, che:

–          l’impresa deve essere un soggetto produttore di reddito, il quale si sostanzia nel profitto per il capitale e nel reddito per coloro i quali vi lavorano;

–          un’attività economica che non è in grado di produrre un valore aggiuntivo non ha una vera e propria valenza sociale, perché non realizza o non contribuisce alla soddisfazione di un interesse collettivo.

E’ altrettanto vero, però, che l’attività d’impresa deve essere centrata su quella che è la risorsa più preziosa: l’attività umana, sia quella dell’imprenditore che quella dei collaboratori.

Essere imprenditore significa assumersi la responsabilità di reperire le risorse, avere la capacità di organizzarle nel modo più efficiente, nel modo più produttivo, essere in grado di valorizzarle al meglio. Ma essere imprenditore in un momento come quello attuale, in cui sta cambiando il sistema mondiale e quindi va ripensato anche quello locale, significa ragionare in modo nuovo e, da persona capace di confrontarsi con il rischio, capire che il futuro va affrontato con approcci concorrenziali un po’ più solidaristici, sviluppando all’interno dei meccanismi di produzione  un’azione sociale più attenta a creare ricchezza e condivisione per la comunità di riferimento.

Un vecchio professore di ragioneria, uno dei più grandi in Italia, il compianto Paolo Emilio Cassandro, sosteneva: “L’azienda è il centro motore dell’economia, poiché non vi può essere sviluppo armonico della collettività senza sviluppo e progresso delle singole unità che la costituiscono, non potendo crescere il tutto senza che crescano le parti” [5].

Uno dei rischi più concreti, invece, è che l’impresa continui a rispondere quasi esclusivamente a chi in essa investe denaro e apporta beni.

Occorre, perciò, dare quanta più forza possibile, facendo sentire la propria vicinanza, a chi sperimenta modelli di business alternativi, perché le aziende accrescano la loro valenza sociale.

Papa Benedetto XVI, nell’enciclica già citata, sostiene: “sempre meno le imprese, grazie alla crescita di dimensione ed al bisogno di sempre maggiori capitali, fanno capo ad un imprenditore stabile che si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve della vita e dei risultati della sua impresa, e sempre meno dipendono da un unico territorio”.  E poi ancora:  “E’ un fatto che si va sempre di più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento” .             

Se, ovviamente, tutto ciò che in azienda è inanimato non può che condizionarne i risultati in modo limitato, occorre essere sempre più consapevoli che i dipendenti e tutti gli altri “stakeholders” si sentono legati ad essa tanto quanto questa crede in loro, li motiva, li coinvolge e li ricambia.

La più recente nozione di “Responsabilità sociale d’impresa” o “Corporate social responsability” si riferisce al dovere, da parte del management, di fare scelte e intraprendere iniziative che facciano sì che l’organizzazione o, ciò che è lo stesso, l’azienda contribuisca al benessere ed all’interesse della collettività, oltre che ai propri.

La RSI o CSR si esplica, infatti, nell’ambito delle politiche aziendali e della gestione delle risorse umane, ma anche e soprattutto in quello:

–          dei rapporti con i clienti, i fornitori, i consumatori e la comunità di riferimento;

–          delle relazioni con le altre aziende e con i concorrenti.

I cittadini, peraltro, cominciano a richiedere alle imprese di assumere comportamenti maggiormente responsabili verso la società nel suo complesso e stanno sempre più sviluppando una maggiore attenzione nel valutarle in base a parametri che non siano le sole performance economiche.

Le maggiori responsabilità richieste alle aziende sono: il trattamento equo dei dipendenti attraverso la riduzione del loro sfruttamento; le comunicazioni veritiere dei bilanci; il pagamento delle tasse; la messa al bando di quelle produzioni industriali che danneggiano l’ambiente.

Le aziende, quindi, pur non trascurando la loro sana vocazione al profitto, devono in futuro  ritagliarsi un ruolo sociale sempre più importante nei confronti del mondo di riferimento.

Ma, sia ben chiaro, la vera RSI o CSR non si limita, come purtroppo spesso si registra, a “tattici” interventi pubblicitari ed a “tattiche” campagne di marketing, ma porta verso modelli comportamentali e gestionali che la considerino come un orientamento strategico di lungo periodo che permei e qualifichi l’intera organizzazione aziendale, allineandola alle attese della società nel suo complesso in tema di etica, responsabilità e sostenibilità dei modelli di business aziendali.

Esperienze e modelli di business aziendale in grado di creare valore nel lungo termine

Tutti gli sforzi, per quanto lodevoli, sono destinati a non incidere significativamente se non accompagnati, da parte degli operatori, da una forte e convinta revisione dei processi decisionali, dei principi e delle modalità di gestione del loro business.

Svolge un ruolo sociale solo quell’azienda che accompagna le dichiarazioni di rispetto dei principi etici con atti concreti, quali l’adozione di modelli di business nuovi in grado di creare valore nel lungo termine.

La teoria economica tradizionale, che fa molto affidamento sulle nuove tecnologie e sul taglio dei costi, non ha saputo finora elaborare un modello di gestione strategica del business capace di contemperare l’interesse degli azionisti con quello degli altri interlocutori.

E ciò anche a causa del fatto che la sola gestione contabile finanziaria e le relative sintesi di bilancio si sono dimostrate insufficienti a dare un quadro della capacità intrinseca di un’azienda di gestire tutti i fattori che producono reddito. L’azienda, infatti, non è solo ciò che emerge dal suo stato patrimoniale, ma un sistema di energie organizzate, di attività tangibili ed anche intangibili.

Per il momento, le aziende, anche al fine di restare sul mercato, continuano ad agire prevalentemente sulle due leve tradizionali di cui dispongono (prezzo e costi), ma non è escluso che in futuro, stravolgendo i paradigmi che attualmente sono alla base dell’economia aziendale, della teoria organizzativa e della prassi manageriale, siano costrette a rivedere:

–        la loro “corporate governance”;

–        la loro pianificazione strategica e operativa;

–        le modalità di definizione dei loro budgeting di unità;

–        tutti gli  strumenti di controllo direzionale,

al fine di assecondare in pieno le aspettative di consumatori sempre più critici, esigenti e decisi a premiare con la domanda di prodotti/servizi le sole imprese che dimostrino di:

–        essere attente ed interessate anche alle vicende degli altri “stakeholders”,  dell’ambiente e del mondo in cui operano;

–        creare valore aggiunto sopratutto nel lungo termine.

Dopo la grande enfasi data ai valori individuali, quali la competitività, il profitto, la managerialità, si amplia l’ambito di creatività in cui:

–        gruppi di persone diversamente organizzati, animati da spirito di solidarietà, esprimono passione vitale e prossimità umana;

–        le aziende assumo per il territorio il rango di veri e propri luoghi di riferimento, all’interno dei quali la qualità della vita viene difesa ed il tradizionale impegno per il bene della collettività, in risposta ai bisogni emergenti o insoddisfatti, viene fatto rivivere.

In questo contesto, un ruolo fondamentale può essere assunto da alcuni specifici modelli di business in grado di trovare un giusto compromesso tra gli interessi della proprietà di un’azienda, quelli di chi in essa vi lavora e quelli di terzi.

Al mondo delle imprese cooperative abbiamo già fatto cenno in apertura: organizzazioni di rilievo in tutti i paesi e settori, esse favoriscono una più equilibrata redistribuzione della ricchezza.

Lo si legge, tra l’altro, nel documento che riassume i principali risultati della conferenza “Promoting the understanding of cooperatives  for a better word” (Promuovere la conoscenza delle cooperative per un mondo migliore), organizzata da Euricse e dall’ICA – Alleanza Cooperativa Internazionale – a marzo dello scorso anno a Venezia.

Vi si legge ancora: “Operano in tutti i campi dell’attività economica e hanno dimostrato una longevità maggiore delle imprese di capitali. Il modello cooperativo ha mostrato un’elevata capacità di adattamento alle mutevoli condizioni economiche e sociali e nel corso del tempo sono emerse nuove forme di cooperazione in grado di soddisfare bisogni economici e sociali emergenti. Le cooperative si sono sviluppate in paesi caratterizzati da condizioni politiche, livello di sviluppo economico, contesti storici e culturali molto diversi”.

Un esempio concreto per tutti. Non vorrei sembrasse, in qualche modo, un discorso fatto da “Cicero pro domo sua”, ma mi pare più che giusto citare, come azienda di natura cooperativa, responsabile ed efficiente, una realtà a me molto vicina e cara, la Banca Popolare Pugliese, dei cui quadri direttivi mi onoro di far parte.

In uno scenario socio-economico che non è certo quello dell’Italia più sviluppata, è finora riuscita a restare autonoma, ha creato ricchezza per la comunità di riferimento ed ha saputo valorizzare al meglio le potenzialità di sviluppo dell’imprenditoria locale.

La sua dimensione e la sua gestione, inoltre, hanno permesso a molti dei suoi dipendenti una  crescita professionale esente dallo scotto di quelle rinunce nel campo degli affetti familiari che essa solitamente comporta.

La Banca Popolare Pugliese, con il suo gruppo societario, è risultata terza nella classifica dei bilanci delle banche italiane, piccole, più equilibrate, solide e redditizie, che la rivista BancaFinanza ha pubblicato in collaborazione con la società Rating sulla base dei dati più recenti al momento disponibili, quelli relativi all’esercizio 2011. Ed è grazie a questi prestigiosi risultati che, in occasione della decima edizione dei “Milano Finanza Global Awards”,  la sera del 7 maggio 2012,  le è stato conferito dalla rivista Milano Finanza il riconoscimento “Creatori di valore”, come banca che, nell’ambito dell’intero territorio pugliese, ha realizzato le migliori performance patrimoniali e di efficienza.

E come non citare, accanto al modello delle imprese cooperative, quello delle imprese ispirate all’ ”Economia di Comunione”? Una scuola di pensiero economico, questa, nata da un’ispirazione originale della trentina Chiara Lubich, la quale, nel 1991, attraversando la città di San Paolo in Brasile, avvertì l’ingiustizia di un mondo dominato da un’abnorme distribuzione della ricchezza. Grazie a quell’esperienza ebbe un’intuizione: dare vita a delle imprese che, pur restando tali, ossia efficienti e competitive, fossero capaci di produrre non solo profitti per imprenditori e azionisti, ma anche ricchezza da condividere. Cardine dell’approccio dell’”Economia di Comunione” è, infatti, la gestione degli utili, di cui 1/3 va destinato all’autofinanziamento, alla crescita dell’azienda e di chi vi lavora, 1/3 alla formazione nella cultura del “Dare” finalizzata allo sviluppo di questo particolare paradigma, 1/3 ai bisognosi.

Sono tante le aziende che in tutto il mondo seguono questo originale paradigma.

E, per ritornare in Puglia, come non citare l’esperienza dell’”Accademia del Rinascimento Mediterraneo”,  con una serie di sedi che si vanno costituendo in tutta Italia?

Una bellissima esperienza alla quale ho dato piena adesione, dopo le iniziali perplessità,  poi fugate definitivamente, circa un anno fa.

L’”Accademia del Rinascimento Mediterraneo” è una comunità  di  persone, dalle più svariate  estrazioni e storie personali (imprenditori, artigiani, agricoltori, formatori, musicisti, scrittori, filosofi, liberi professionisti, dirigenti, gente comune, ecc.) la quale, su Lecce, per idea ed impulso del vulcanico curatore, l’amico Stefano Petrucci, si è messa alla ricerca di un rinascimento interiore e collettivo che, attraverso la strada della riscoperta dei valori, dell’autenticità delle relazioni umane, del rapporto con la natura, i luoghi, l’economia, le arti e i mestieri, porti fuori dalla crisi in atto (http://www.accademierinascimentomediterraneo.net).

Sostanzialmente, un movimento vitale di uomini e donne accomunati dal comune bisogno di contribuire a mettere a punto una trasformazione virtuosa e a diffondere uno stile di vita ed imprenditoriale nuovo, sostenibile, collaborativo.

In questo contesto, il permanere delle difficoltà legate alla situazione economica negativa mi ha spinto, con Stefano Petrucci ed il resto di un gruppo di lavoro appositamente costituito all’interno dell’Accademia, a ricercare una nuova idea imprenditoriale, fino a giungere all’ipotesi di costruire, nell’ambito del territorio pugliese e lucano, un circuito di compensazione di beni e servizi, sul modello di quello, ormai collaudato, avviato in  Sardegna un quinquennio fa e che ha molte affinità con il progetto della Moneta di Nantes (Francia), una possibile e “complementare” soluzione per sopperire all’euro laddove è più manchevole: l’accesso al credito per le piccole e medie imprese.

Si tratterebbe di una camera di compensazione di beni e servizi, all’interno della quale le aziende, a prescindere dal possesso di una sufficiente liquidità, comprerebbero ciò di cui hanno bisogno, ripagandolo attraverso la vendita del proprio prodotto (o servizio) alla comunità.

L’opportunità offerta alle aziende locali dal circuito di credito commerciale, basato su di un innovativo mezzo di pagamento, ossia un moneta complementare locale virtuale, sarebbe: riuscire a superare la crisi economica; fare acquisti senza euro, ampliando la propria quota di mercato; ottenere crediti a tasso zero.

Sostanzialmente, un sistema “business to business”, che permetterebbe alle imprese di comprare e vendere senza spendere euro. Un circuito in grado di rilanciare gli affari, di ridare impulso, attraverso la catena “fornitore – cliente – fornitore”, ad una economia reale in forte difficoltà, in un paese, l’Italia, soffocato da un enorme debito pubblico, ed in un contesto più ampio, quello europeo, con la Germania rigorosa ed  inflessibile nel dettare la via d’uscita dalla crisi finanziaria e dai debiti sovrani.

Coloro i quali dovessero decidere di associarsi al circuito, avrebbero la possibilità di scambiare prodotti che il mercato non riuscirebbe ad assorbire. I pagamenti verrebbero effettuati in crediti espressi in una moneta virtuale, da denominare appositamente.

Un sistema che può affiancarsi a quello tradizionale dando ossigeno a chi non ha liquidità in cassa. In questo modo si eviterebbero anche i costi che derivano dall’invenduto. Altri vantaggi: le aziende sarebbero incentivate a fare affari tra loro incrementando il mercato locale ed attenuando, in tal modo, gli effetti perversi di un’economia globalizzata.


[1]           LATOUCHE SERGE, Limite, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.

[2]             LOMBARDO MARIO, “John Weeks: La deregulation favorisce la concentrazione di ricchezza”, in BancaFinanza, n. 2, febbraio 2013.

[3]           Luciano Fumagalli, “Il potere si concentra”, in BancaFinanza, n. 2, aprile 2012.     

[4]           Dorian Gray è un giovanetto bello e puro, della cui bellezza si innamorano due uomini: il pittore che gli sta facendo il ritratto ed il cinico lord Wotton che inizia quella corruzione che porterà alla rovina il giovanetto. Ma la chiave della vicenda, che in sé per sé non avrebbe nulla di interessante per il nostro ragionamento che si muove alla ricerca di nuove strade, nuove rotte per il management, l’organizzazione aziendale e lo sviluppo organizzativo, è il fatto che alla fine Dorian Gray decida di distruggere il suo ritratto, che magicamente, ed al contrario del suo volto sempre giovane, invecchia e porta i segni del tempo trascorso in modo ignobile e scellerato. Distruggendo il diabolico ritratto, il corpo di Dorian Gray subisce la metamorfosi naturale ed inizia a portare i segni della colpa e del dolore.

[5]              Paolo Emilio Cassandro, “L’equilibrio dell’impresa e la politica dei redditi”, in Rivista di Politica Economica, n. 1, 1967.

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In Banca Popolare Pugliese, per più di venti anni, si è occupato di organizzazione aziendale e di processi operativi e gestionali. E’ autore di due libri e di articoli dal contenuto tecnico per riviste specialistiche. Ha organizzato e preso parte, anche come relatore, ad una serie di incontri-convegno su argomenti sempre legati a problematiche organizzative. All’attività in azienda associa la docenza di organizzazione aziendale presso AFORISMA, dove è anche componente del relativo Comitato Tecnico Scientifico. Da giugno 2012 è "Ethics Officer onorario" e "Referente regionale" per la Puglia di Assoetica. Dal 2015 è membro del Consiglio Direttivo di AIF – Associazione Italiana Formatori - Delegazione di Puglia e Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione delle due società facenti parte del Gruppo Banca Popolare Pugliese. Dal 2017 è Formatore manageriale specialista qualificato APAFORM - Livello EQF 6.

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