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Di che colore è la pelle

di Simonetta Pugnaghi 13 Maggio 2013

Gli insulti al ministro Kyenge, modenese come me, fanno notizia.

Intorno a questa figura, più che altro simbolica in un governo un po’ precario, si è creato un certo scarmazzo. Ovviamente ritengo esecrabili le ingiurie, ma trovo altrettanto sintomatico l’atteggiamento artificiosamente bendisposto di giornalisti e intervistatori, così banali, mi risulta che le abbiano chiesto se si porta dentro la magia, visto che viene dall’Africa. A un ministro della Repubblica. Forse la conduttrice intendeva fare un po’ di colore … ignara o meno della caduta di tono del doppio senso. Per me sono sintomi di un timoroso e gretto provincialismo, di chiusura mentale e spesso di razzismo implicito, alla fine non così diverso da quello gridato. Chiusura, sia dei “cattivi” che dei “buoni”.

Di che colore è la pelle di Dio, cantavamo da bambini. Bianca? ho pensato io la prima volta che ho sentito la canzone, alzando gli occhi al grande crocifisso ligneo. Quel Gesù era biondo o al massimo castano chiaro, me lo ricordo ancora, quell’attimo di smarrimento. Lui (Dio) ci vede uguali, cantavamo così, ma pensavamo a quelli dalla pelle diversa come popoli lontani, e l’uguaglianza che ci veniva propinata era in realtà superiorità, gli altri gialli, neri e rossi, vanno trattati con bontà-pietà perche sono più sfortunati dei bianchi, mangia che i bambini africani muoiono di fame. Anche se per l’Italia di allora poteva essere un inizio, non si trattava di rispetto vero, mi pare. E mi pare che tutt’ora, quarantanni dopo, rispetto e uguaglianza non trovino molto spazio, nemmeno in prima pagina, in tv, o sul web.

Quello che non fa notizia più di tanto è che in molti luoghi, soprattutto di lavoro, è da tempo che si sta insieme tra italiani e persone di svariate nazionalità. Sono diversi anni che si fa pratica. Non è che sia facile, non è che vada sempre tutto bene. Ma si fa.

Ho visto e vissuto direttamente parecchie di queste convivenze. Ho visto situazioni in cui non si è mai raggiunta una vera uguaglianza, enclaves piuttosto chiuse si fronteggiavano senza apprezzarsi e collaborare mai. Ho visto conflitti veri e propri, pregiudizi e gelosa competizione (che ho visto anche dove c’erano solo italiani, eh). Nei luoghi di lavoro a volte il gruppo di italiani si sente superiore, magari quando è in maggioranza e gli altri, neri o diversamente colorati fino al bianco pallidissimo, sono pochi, parlano male la lingua, sono gli ultimi arrivati. Ma a volte è il gruppo degli italiani che è disprezzato da statunitensi, tedeschi, francesi, o cinesi …, e sono loro, cioè noi, che parlano male l’inglese lingua franca, che scontano il pregiudizio del meridionale disorganizzato e inaffidabile, che risultano grezzi e maleducati perché non rispettano usi e costumi. Come ho detto, non è facile.

Ho visto e vissuto direttamente però anche l’impegno a costruire sintonia, stima professionale, collaborazione. Mi viene in mente Andrea, che lavora con soddisfazione in un team fatto da un indiano, un belga, uno di Boston, e lui. Herion, che è diventato responsabile di produzione e dirige più di sessanta persone, lui albanese partito di certo in svantaggio, che ha saputo conquistarsi stima e posizione e ha trovato chi ha visto le sue capacità, invece di giudicarlo per la sua nazionalità. Rossella e tutto il suo gruppo, che operano in una multinazionale dove sono svalorizzati in quanto italiani, ma stupiscono la direzione americana per la loro efficienza e flessibilità. Karim, algerino, che è diventato un mago nel riparare macchine utensili ed è considerato e ricercato da clienti e colleghi. Eccetera eccetera eccetera.

Quando l’integrazione non è una cosa da fare, non è un obiettivo o un progetto, ma avviene attraverso le cose fatte insieme, i progetti costruiti insieme e gli obiettivi raggiunti insieme, allora è vera, non è una verniciata di buonismo sopra un animo ancora timorosamente chiuso, e fa sbiadire il pregiudizio, fors’anche il razzismo.

Quando le nazionalità diventano individui, il loro colore, lingua, ruolo professionale, titolo di studio, quellochevolete, passano in secondo piano.

Quando conosciamo qualcuno personalmente, smettiamo di pensarlo come una categoria, o uno stereotipo. Diventa un nome, una faccia, una storia vissuta insieme. Questo accade anche ai più rigidi, ai più o meno razzisti. Ah, ma Xavier è un gran lavoratore, non diresti mai che è sudamericano, è diverso da tutti i suoi compaesani. Così mi disse un imprenditore che in fatto di pregiudizi non scherzava, sudamericano … alla faccia del fare di ogni erba un fascio, ci ha messo mezzo continente di quelli grandi, nel fascio. Però persino lui apprezzava la singola persona, che oltrepassava le sue rigide categorie mentali, anche se per dargli questo riconoscimento doveva dire è diverso, ossia non è il pregiudizio che è sbagliato, è Xavier che fa eccezione. Eh.

Se in Italia non ci fossero stereotipi e barriere così radicati, a nessuno verrebbe in mente di nominare un apposito ministro. Se gli Stati Uniti fossero davvero capaci di integrazione nel loro plurisecolare meltingpot, non avrebbe fatto scalpore l’elezione di Obama, semmai sarebbe avvenuta qualche decennio fa. Se …. Un mondo dove il colore della pelle non conta è un sogno, per ora. Allora vorrei che facessero notizia i micromondi dove questo già avviene, dove contano le persone, se sei stimato e bravo o se non lo sei, è questo ciò che differenzia, per il resto siamo uguali.

 

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Lavoro da venticinque anni nel settore organizzazione e risorse umane, sono consulente, formatore e counselor. Il mio interesse per le persone viene da più lontano, è maturato nella adolescenza e nel periodo universitario, prima facendo parte degli scout e poi come capo scout.

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