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Panchina lunga e squadra corta. Perché le squadre di calcio hanno molti infortunati, e perché questo interessa chi si occupa di management

di Francesco Varanini 21 Maggio 2013

Allenatori e presidenti finiscono spesso per giustificare gli scarsi risultati della propria squadra con l’alto numero di infortunati.
Ma ha senso questa giustificazione? Ha senso distinguere gli infortuni da stress, o da cattivo allenamento, dai traumi durante le partite? Non insegna forse qualcosa il fatto che spesso si infortunino contemporaneamente giocatori che competono per ricoprire lo stesso ruolo? Non insegna forse qualcosa il fatto che si contino molti infortuni in squadre in crisi di risultati?
Gli infortuni sono causa di problemi o conseguenze di un problema?

Osserviamo una squadra di calcio. Poniamo attenzione a come in anni recenti l’organico si sia ampliato, e a come sia scomparsa la tradizionale e scontata distinzione dei giocatori in due sottogruppi tra di loro ben distinti: titolari e riserve. Il mutamento risponde a diverse esigenze, tutte ragionevoli, ed ampiamente condivise dagli addetti ai lavori.
I ritmi di gioco si sono intensi, è quindi sempre più difficile per un giocatore mantenere un elevato livello di prestazioni lungo l’arco di una intera partita. La frequenza degli impegni, più di uno alla settimana, causa accumulazione di fatica, ed impone quindi una rotazione tra i membri della rosa. L’attenzione alle strategie ed alle tattiche di gioco si è notevolmente elevata; si impone per l’allenatore l’esigenza di mettere in campo, a seconda dell’avversario, e a seconda dell’evoluzione del singolo incontro, giocatori diversi, scelti in funzione delle loro specifiche caratteristiche tecniche ed atletiche.
Tutte le squadre, in particolare le grandi squadre, dispongono dunque di più di venti giocatori di valore quasi analogo, tutti in grado di ambire al posto in prima squadra. E gli allenatori tendono, in modo più o meno esplicito, a sostenere la fungibilità, la sostituibilità tra un giocatore e l’altro.
Si sostiene infatti che alla base di tutto sta l”organizzazione del gioco’, rispetto alla quale la singola risorsa è mero elemento costitutivo, mero strumento. Si sostiene che ciò che conta non è la qualità assoluta delle singole risorse, e che piuttosto conta la rispondenza dei singoli a standard di comportamento atteso. Si sostiene che la competizione interna è fonte di stimolo, e quindi giova al rendimento.
Tutto ciò, a un certo sguardo, appare vero. Ora però, cosa accade? Accade -le statistiche lo confermano- che quali che siano le dimensioni della rosa, l’allenatore ha a disposizione sempre lo stesso numero di giocatori, numero che è notevolmente inferiore alle dimensioni della rosa. Ovvero: l’allenatore ha a disposizione sempre un lo stesso numero di elementi che aveva a disposizione quando la rosa era più ristretta. Ovvero: più è ampia la rosa, più numerosi sono i giocatori indisponibili.
Questa circostanza offre giustificazione in caso di scarsi risultati: facile dire che ciò è dovuto all’alto numero di giocatori indisponibili. Qualsiasi allenatore e qualsiasi presidente si attacca a questo alibi, e non importa se l’alibi contraddice precedenti affermazioni in merito all’alto livello di tutti i membri della rosa.

Restano aperta le domande. Servono davvero venticinque giocatori di uguale livello? A differenza di quanto accadeva un tempo, è possibile sostituire un numero sempre più alto di giocatori durante la partita, ma dopotutto si gioca sempre con non più di undici giocatori in campo. E se servono venticinque giocatori, perché non ci sono mai? E servivano davvero, se poi con l’organico ridotto dalle indisponibilità, si riesce ad essere competitivi?
La situazione, ampiamente prevedibile, si ripete stagione dopo stagione.
I giocatori più capaci giocano nelle rispettive squadre nazionali, e quindi sono indisponibili spesso per lunghi periodi. E intanto il giocatore disponibile, ma fuori squadra, quale che sia il suo potenziale, ha di fronte due possibilità: o esce dalla gara per un posto in prima squadra limitandosi a godersi lo stipendio, o tenterà di fare la voce grossa, alimentando conflitti interni. Si allenerà più duramente, rischiando infortuni. Più è alto il numero di giocatori competitivi che non potranno trovare il posto in squadra, più aumenta lo stress, più peggiora il clima. Ai giocatori indisponibili perché impegnati altrove o perché infortunati si aggiungono i giocatori puniti per comportamenti scorretti, in rotta con i compagni di squadra o con l’allenatore. Altri giocatori sono alle prese con questioni contrattuali: sia il giocatore che sceglie di non giocare, sia la dirigenza a non far giocare, il calciatore è indisponibile. Ancora, si aggiungono i giocatori indisponibili per conflitti interni al management: allenatore, direttore generale e presidente spesso hanno opinioni e visioni che non coincidono, per via di queste divergenze giocatori importanti finiscono fuori rosa.
Il risultato è sempre lo stesso: si sopportano i costi di una panchina lunga, e si ha a disposizione una panchina corta.
Quando chi dirige la squadra si rende conto di come la panchina sia nonostante tutto corta, la allunga con nuovi acquisti, ma il meccanismo perverso agisce comunque: ogni azione tesa ad un allungamento della panchina provoca un suo accorciamento.

Ritroviamo qui atteggiamenti tipici del management: accumulare previamente risorse nella convinzione di poter prevedere i bisogni e le situazioni future; dedicarsi all’accampare giustificazioni più che al trovare soluzioni; rispondere a esigenze emergenti con soluzioni costruite nel passato.
Se so sopportare l’ansia legata a una rosa non assolutamente completa, mi concedo la possibilità di inserire la risorsa che serve quando serve. Se so che finirò per comprare qualche calciatore durante la stagione, inutile la panchina lunga. Accettare la lezione della panchina comunque corta, significa rinunciare ad investire oltremisura nell’allungamento della panchina.
Ogni manager sa che nessuno scongiuro, nessuna previa azione mi eviterà di trovarmi di fronte a emergenze, situazioni nuove ed impreviste. Ma, per timore o per comodo, fa finta di non saperlo.
Eppure, le risorse già impegnate a fronte di eventuali rischi futuri sono troppo spesso sprecate. Le risorse non allocate si bruciano producendo fumo, ma non arrosto. Se limito lo stock di risorse già allocate, risparmio ora e mi concedo la possibilità mettere in campo risorse adeguate, quando ce ne sarà bisogno, e quando avrà scoperto di che risorse ho bisogno.

(Questo testo è la rielaborazione di un paragrafo di: Francesco Varanini, Contro il management. La vanità del controllo, gli inganni della finanza e la speranza di una costruzione comune, Guerini e Associati, 2010).

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