Contributi

Ballando sul Titanic, un secolo (e un anno) dopo, tra finzione e realtà

di Sergio Di Giorgi 30 Agosto 2013

Ho deciso di aggiornare per ‘Bloom’ alcune mie note, scritte giusto un anno fa, sul tema ‘Cinema & Finanza (e dintorni) 1. In quell’occasione ricordavo il centenario del naufragio del Titanic, ma agiva forte anche il richiamo di quello – assai meno epico e tragico eppure altrettanto drammaticamente simbolico per noi italiani – della Costa Concordia. Nel riprendere il filo di quel discorso, ho posto alcune mie constatazioni e considerazioni, tanto sul versante cinematografico che della cronaca, come premessa al testo originario2. A loro volta, queste hanno fatto scaturire altre riflessioni, all’incrocio con visioni e letture più recenti ma pure con le inquiete e spesso inquietanti cronache estive dell’attualità politico-giudiziaria-finanziaria italiana.

Money never sleeps. A Hollywood, ma anche in Europa

In quelle mie note di un anno fa citavo, tra gli altri (vedi filmografia in coda al presente articolo), sette titoli recenti, apparsi tra il 2008 e il 2011 (un elenco certo assai parziale, che riguardava solo produzioni statunitensi e italiane). Erano opere legate all’ultima ondata – quella della crisi finanziaria del 2008 – di quello che negli Usa da Wall Street (1987) in poi, e con declinazioni proprie in altre cinematografie nazionali, ha finito per dar vita a un vero sotto-genere cinematografico (i ‘film sul mondo della finanza’). I generi di riferimento sono ovviamente altri, non di rado compresenti nelle singole opere: massimamente il thriller e l’action-movie, ma anche il dramma o la commedia sentimentale e familiare. Le forme narrative privilegiano la fiction ma anche e sempre più (e qui a maggior ragione) il documentario o la docu-fiction (proprio un documentario sull’origine e conseguenze della crisi del 2008, Inside Job, avrebbe persino vinto l’Oscar 2011 nella categoria).

Nel corso del 2012 e nel primo semestre 2013, la vena era sembrata affievolirsi. In realtà questo filone, al pari del denaro che scorre nelle sue trame narrative, ‘non dorme mai’. A Hollywood, dopo le major, vi si cimentano anche le produzioni indipendenti, con registi più giovani e con minori pretese di un Oliver Stone. Ma anche con minori fortune al box office, come dimostrato dal flop di incassi (nonostante alcune critiche abbastanza buone) nel primo weekend di uscita negli USA (da noi arriva in sala il 12 settembre) de Il potere dei soldi (titolo un po’ prevedibile ma sicuramente più esplicativo dell’originale Paranoia): una storia di spionaggio industriale e finanziario nel mondo delle mega corporation high-tech, con Gary Oldman ed Harrison Ford nel ruolo di due magnati rivali del settore. Lo dirige Robert Luketic, classe 1973 3.

Dalla vecchia Europa, in particolare dallo storico e prestigioso Festival di Locarno (dunque, e significativamente, dalla Svizzera) è invece giunta dopo Ferragosto la notizia che a vincere il Premio della Settimana della Critica, è stato Master of the Universe, un documentario del regista tedesco Marc Bauder4. Il film – che si spera di recuperare in Italia quanto prima – è una lunga intervista-confessione tra il regista e Rainer Voss, un ex banchiere d’affari. Bauder crea per l’occasione un setting assai straniante, situando la scena in un enorme e deserto ufficio, tutto vetro e acciaio, nel distretto finanziario di Francoforte5. Ne emerge una testimonianza cruda e diretta, assai esplicativa sui meccanismi ma anche sui valori e rituali – “religiosi”, quasi mistici – di un mondo parallelo, ossessionato unicamente dal lavoro e dai guadagni, quelli della banca e quelli personali.

Lo scorso marzo invece, sempre proveniente da Hollywood, avevamo visto anche in Italia il thriller statunitense La frode (titolo originale Arbitrage, 2012), diretto da Nicholas Jarecki (classe 1979). Un film ‘di genere’ come si usa dire, ma che, essendo anche un esordio, meritava forse un maggior riscontro di critica e pubblico, se non altro per la solidità dell’impianto e il cast sontuoso dove spiccava l’ottima interpretazione di Richard Gere nei panni a lui molto congeniali di Robert Miller, tycoon fascinoso e calcolatore. Le frodi e gli scandali in cui Miller è impelagato sono numerosi e riguardano tanto l’ambito penale che il civilistico (il personaggio si ispira un po’ alle gesta di Bernard Madoff). Miller ha naturalmente una figlia bellisima (Leatitia Casta) che è il direttore finanziario del suo impero, alla quale non manca di ribadire un concetto chiaro ed efficace: “Tu lavori per me, tutti lavorano per me”.

Cose di famiglia, cose nostre

Una battuta come questa ci richiama alla nostra cruda realtà e alle sue cronache recenti. Si sa, il capitalismo italiano è storicamente ‘a conduzione familiare’, assai poco aperto tanto al management esterno realmente indipendente che all’azionariato pubblico e/o diffuso. A differenza del mondo anglosassone cui appartengono le famiglie cinematografiche dei Miller o dei Gordon Gekko, la nostra cultura (mediterranea, latina, del sud del mondo e del sud-Europa o come volete chiamarla) si fonda o comunque contempla il concetto di ‘famiglia allargata’: di conseguenza, il capitalismo, oltre che familiare è anche ‘familistico’ prevedendo l’apporto, a vario titolo, ma spesso cruciale, di “famigli” e portaborse, sensali e faccendieri, consulenti e “consigliori”, di norma con competenze giuridiche e tributarie, ma anche nel campo della sicurezza personale, a volte persino stallieri (absit iniuria verbo, ovvero con tutto il rispetto per quel mestiere, quando esercitato in via esclusiva). Se nel caso più eclatante degli ultimi venti anni sembra profilarsi addirittura una successione dinastica – una vera e propria “Berlusconeide” – le gesta della ‘razza padrona’ italica sono (più o meno) di pubblico dominio da 40 anni: è del 1974 il famoso libro-inchiesta di Scalfari e Turani (poi aggiornato nel 1998); lo stesso Turani aveva scritto nel 2004 “La nuova razza padrona”; ma la pubblicistica in materia è notoriamente sterminata.

Lungi da noi voler ripercorrere qui tali annose e contorte vicende, i cui protagonisti sono del resto quasi tutti morti (da Calvi a Sindona a Marcinkus, da Enrico Cuccia a Cefis a Giovanni e Umberto Agnelli). Preferiamo semmai parlare dei vivi, e le cronache recenti ne offrono spunto. La mattina del 17 luglio 2013 -a conclusioni di lunghe e complesse indagini condotte da diverse Procure italiane e da ultimo da quella di Torino- sono stati arrestati Salvatore Ligresti e le sue figlie Giulia e Jonella (per il figlio Paolo che risulta a tutt’oggi ricercato sono state avanzate istanze di rogatoria internazionale; egli risiede infatti da anni in Svizzera ma solo pochi giorni prima del blitz aveva, con buon tempismo, preso la cittadinanza elvetica). La dinastia dei Ligresti – la cui success story da Paternò a Milano si spiega solo in piccola parte con le mitologie dell’emigrazione interna del dopoguerra e molto di più con i suoi stretti legami con svariati “poteri forti”…- è anch’essa assai rappresentativa di quello che per decenni è stato (e in parte è ancora) il capitalismo italiano. Capitalismo che per diversi e noti fattori6 è da sempre fortemente influenzato da “uomini-cerniera” che aumentavano la propria forza personale in maniera proporzionale alla debolezza del sistema. Ma, come ricordava di recente Alberto Statera, il dubbio (“Quale banca di sistema, se non c’è sistema?…”) ha iniziato infine a serpeggiare anche in quelli che una volta erano, tra i cosidetti “salotti buoni”, le anticamere dei banchieri di riferimento. Invero, dopo Cuccia “il banchiere di sistema, di cui Cesare Geronzi ha rivendicato per anni il presunto (da lui) stemma nobiliare, altro non è che un gestore di poteri opachi e quasi sempre inconfessabili” 7.

Tutti gli imprenditori e capitalisti, anche quelli non di rado privi di reali capitali se non di tipo ‘relazionale’, sono comunque prima di tutto persone e dunque, come sappiamo dai sociologi, possiedono multiple identità. Ognuno con il suo tratto, s’intende, sono capaci di mostrarsi, proprio come il personaggio di Robert Miller-Richard Gere in un modo che (più o meno segretamente) può affascinare, ovvero “amabilmente ambiguo, capace di grande efferatezza quando capo della sua impresa e di qualche sentimentalismo quando amante e padre. Il ritratto è inquietantemente verosimile”.8 A tal punto verosimile che è notorio come Ligresti padre stravedesse (per carità, legittimamente come tutti i padri) per le due (belle) figlie delle quali ha infatti assecondato per anni le più strambe passioni, dal maneggio (nel senso dei cavalli) alla moda, ovviamente nel segno della diversificazione del business di gruppo. Dalla parte del core business assicurativo -come le inchieste della magistratura inquirente hanno accertato (e che ovviamente dovranno essere asseverate da quella giudicante)- veniva invece occultato un “buco” di 600 milioni  (attraverso la corrispondente sottostima dei valori della riserva sinistri), trasformando per anni magicamente le perdite in utili da dirottare verso le casse “di famiglia” 9; il tutto con l’acquiescenza dei top manager (anch’essi arrestati) e, supponiamo, di prestigiose società di certificazione bilanci. Né dunque può stupire – sempre con riguardo al rapporto genitori-figli da un punto di vista specificamente culturale – come durante l’arresto operato dalla Guardia di Finanza, la prima dichiarazione del capostipite Salvatore sia stata: “I miei figli non c’entrano” 10.

A quella efferatezza dimostrata da Miller-Gere nel mondo degli affari, il carattere italico (che a dispetto delle differenze interne, pur rilevanti, accomuna la Sicilia, la Brianza, e i castelli romani) aggiunge – o sostituisce, fate voi – un ‘talento’ speciale, naturale o acquisito: quello della spregiudicatezza. Spregiudicatezza che a nostro avviso è una competenza complessa. Essa consiste infatti di know-how e capacità tecnico-pratiche (ad esempio in materia di falso in bilancio, insider trading, false comunicazioni sociali, ecc.), ma anche di precise attitudini, quali un certo intuito e gusto del rischio, e soprattutto cinismo, assenza di remore e scrupoli, in sintesi mancanza di vergogna o, secondo un’espressione più colorita, ‘avere la faccia come il c…”. Spregiudicatezza che è dunque competenza necessaria in varie circostanze, ad esempio quando si agisce con ‘i soldi degli altri’ (piccoli azionisti e piccoli obbligazionisti, dipendenti, ecc.), depredando i loro risparmi, con bilanci truccati o clausole leonine, o risparmiando sulla sicurezza sul posto di lavoro – o sui posti di lavoro tout court. L’elenco dei casi nostrani -anche solo recenti- sarebbe molto lungo e molto triste (e tra questi, pur nella diversità delle fattispecie, vi comprendiamo pure gli episodi che nel mese di agosto hanno visto padroni e manager – italiani o stranieri – di alcune imprese di media dimensione tentare di portar via in piena notte, ma forse traditi dal plenilunio, i macchinari aziendali in vista di programmate delocalizzazioni, non propriamente comunicate agli stakeholders interni secondo procedure…).

P.S. I soldi degli altri (anche nell’originale, Other’s People Money) è un film del 1991 di Norman Jewison (l’eclettico ma abile regista, tra gli altri, di Jesus Christ Superstar, F.I.S.T., Agnese di Dio, Stregata dalla luna) che fu la risposta comica e “bassa” – come direbbero i cinefili snob – a Wall Street di Oliver Stone. In effetti, il personaggio protagonista – un ras della finanza interpretato come sempre magistralmente da Danny De Vito – richiama più da vicino, per statura, portamento e modi di fare, certi modelli nostrani.

Il testo originario (agosto 2012)

Poche ma autorevoli voci, come è noto, avevano lanciato, prima della crisi del 2008, allarmi inascoltati sulle derive del capitalismo globale contemporaneo e sugli effetti perversi della finanza sull’economia reale, ovvero sulla vita quotidiana dei cittadini. Oggi – ma è esercizio ben più agevole – molti e ancor più autorevoli economisti ci spiegano quasi giornalmente che scandali bancari e finanziari non sono errori o eccezioni bensì ‘frodi sistemiche’ (persino le sussiegose banche britanniche ci hanno ingannati per anni manipolando nientedimeno che il tasso ufficiale Libor) e che il cinismo impera presso i vertici capitalistici (cosa che i giovani contestatori di New York, Madrid o Santiago del Cile avevano già capito).

Anche da parte di registi e sceneggiatori, in particolare (considerata la materia) del cinema indipendente statunitense erano giunti da tempo moniti e denunce. Basti pensare alla filmografia – certo assai controversa – di Michael Moore, che già nel 1989, con Roger & Me, mostrava la mutazione del capitalismo industriale USA e indicava come le cose non andassero più nel verso giusto (tranne ovviamente che per la nuova ‘razza predona’ dei traders bancari e finanziari descritta vividamente dal primo Wall Street di Stone). Roger & Me parlava infatti del sogno spezzato dell’industria automobilistica americana e della sua classe operaia, una storia che Moore, nato e cresciuto a Flint, Michigan, sede centrale della General Motors, conosceva bene, come pure suo padre, uno degli oltre 30 mila operai licenziati in un colpo solo dal colosso dell’auto.

E’ forse proprio con la crisi della ‘classe media operaia’ (quel vasto ceto multirazziale che non aveva avuto bisogno di titoli di studio per salire nella scala sociale) che per gli stessi cittadini statunitensi – in gran parte immigrati e figli di immigrati – ha inizio il lento tramonto dell‘ “American dream”, ora certificato dai più importanti istituti di ricerca sociologica USA. Quel sogno epico (l’inizio di quella epopea per il nostro Paese è stata molto ben raccontata da Emanuele Crialese in Nuovomondo) si è retto su una favola ideologica che dalla fine dell’800 ha attirato (e continua ancora ad attirare) il mondo intero: la promessa che il futuro -nostro e dei nostri figli- sarebbe stato se non altro economicamente migliore, e ogni povero, purchè di buona volontà, avrebbe potuto riscattarsi dalla miseria, anche solo moralmente.

Quel sogno è stato poi veicolato da Hollywood per tutto il secolo scorso e anche in questo inizio di secolo e millennio in numerose opere, dai classici della “trilogia sociale” di Frank Capra (vedi filmografia in coda all’articolo) a film del dopoguerra come Fronte del porto (1954) o Il Gigante (1956), sino a opere come Una poltrona per due di John Landis (1983) o, ancor più di recente, La ricerca della felicità, primo film holliwoodian-sentimentale del nostro Gabriele Muccino (2006), che del resto al box office USA è andato meglio che nella disincantata Europa. Forse solo Hollywood può ancora provare a vendere il ‘sogno americano’, anche se l’operazione appare sempre più ardua.

D’altra parte, anche altri film di Michael Moore resteranno pressoché ignoti al pubblico mainstream, come quel Capitalism: A Love Story (2009), quasi un ‘amarcord’ del capitalismo dei bei tempi andati e, al tempo stesso, vibrante j’accuse del nuovo corso. E, nonostante l’Oscar per il miglior documentario nel 2011, solo sparute élites avranno visto Inside Job di Charles Ferguson che tra inchiesta e video-lezione (con testimoni privilegiati come Nouriel Roubini e Raghuram Rajan) sulla finanza ‘malata’, racconta con puntiglio e precisione didattica l’antica genesi della crisi del 2008 e mostra i suoi, a volte insospettabili, comprimari; per non parlare, quanto a numero di spettatori, della docu-fiction Cleveland versus Wall Street del regista svizzero Jean-Stéphane Bron, che mette in scena il processo immaginario (perché nella realtà dichiarato inammissibile) intentato contro le banche dai veri abitanti di Cleveland vittime dei mutui subprime e degli sfratti selvaggi. Per fortuna, ha fatto un po’ più parlare di sé un film di finzione – ma assai fedele alla cronaca – come Margin Call del regista esordiente Jeffrey C. Chandor (il cui padre aveva lavorato per decenni alla Merrill Lynch) che con grande ritmo e un buon cast ricostruisce le 24 ore precedenti il crac della Lehman Brothers e la lucida strategia dei suoi ben pagati top managers: vendere tutto, il più velocemente possibile, a qualunque prezzo, e ‘fuck off’ gli investitori.

E in Italia? Diciamo che da noi le navi continuavano ad andare, nonostante che gli ‘avvisi ai naviganti’ fossero assai inquietanti. I tycoon nostrani avevano comunque buon gioco a dire che quelle da crociera ‘erano tutte piene’ e, in effetti, ai ponti superiori si danzava e gozzovigliava ancora pagando gli orchestrali per continuare a coprire con la musica il rumore delle crepe prodotte dallo spread. Così si è entrati nell’anno di grazia 2012 quando, forse in omaggio al centenario del Titanic, abbiamo iniziato a renderci conto di essere finiti proprio sugli scogli. Nonostante avessero già chiamato i tecnici per l’evacuazione, ai piani bassi licenziati, precari, esodati, ma anche ignari risparmiatori, erano già sott’acqua (mentre i ‘capitani coraggiosi’ stavano già sulla terraferma, a preparare nuove avventure). Magari, grazie allo stellone nazionale, si eviterà il naufragio collettivo; però la nave resta adagiata su un fianco, l’equilibrio è precario, e anche i tecnici, come lo stanco e disilluso eroe di Hemingway, adesso…”sognano leoni”.

Ma il cinema italiano? Sebbene sul capitalismo e sulla finanza nostrana ci sarebbe molto da dire, esso è restato abbastanza silente sul tema in quest’ultima stagione, almeno sul versante della finzione. E’ passato quasi inosservato (in fondo immeritatamente) L’industriale, opera di un anziano maestro del nostro cinema ‘civile’ come Giuliano Montaldo, che dà un ritratto attuale e realistico dell’imprenditoria italiana in via di dismissione e alla mercè delle banche. Altri spunti metaforici sono invece offerti da Reality, il nuovo film di Matteo Garrone (“Gran Prix” della giuria al festival di Cannes) che parlando sottoforma di commedia dell’unico vero “italian dream” che resiste ancora inossidabile, ovvero il successo televisivo, ci rivela i meccanismi profondi della nostra tragedia etica ed estetica, prima ancora che economica.

Naufragio (e altri disastri), con spettatore(i)

Naufragio della Costa Concordia (Foto: Roberto Vongher, licenza CC - Attribution- Share Alike)

Chiudevo dunque quelle note accennando all’ultimo film di Matteo Garrone, ma anche esprimendo un certo stupore per la reticenza del cinema italiano a narrare il mondo dell’imprenditoria e della finanza nostrane 11. Crediamo infatti che vicende e personaggi di quel mondo, con le loro trame intricatissime e i loro ‘tic’ esistenziali, avrebbero potuto solleticare maggiormente la fantasia di tutti i registi e sceneggiatori – in erba o già collaudati. Del resto, sempre a proposito di stupore, non sembra che ci siamo stupiti più di tanto di aver dovuto attendere molti decenni – e la sua uscita de facto dal centro della scena politica per vedere – per assistere, con Il divo di Paolo Sorrentino, a un film che rievocasse la lunghissima carriera politica di Giulio Andreotti…12. Forse questa reticenza ha un nome preciso: censura di mercato, ma anche auto-censura. Ma qua il discorso ci porterebbe troppo lontano.

Poi, in primavera, abbiamo visto La grande bellezza, sempre dello stesso Sorrentino, un film assai controverso, ma che senza dubbio offre numerosi stimoli di riflessione sul nostro presente.

Garrone e Sorrentino sono di certo i due autori di punta del nostro cinema e quelli che più di altri (accanto a fratelli maggiori come Amelio13 o Moretti) hanno indagato con intelligenza la realtà sociale e culturale dell’Italia contemporanea. Nei loro due ultimi film, appunto Reality e La grande bellezza, la pervasività delle dinamiche finanziarie è un implicito narrativo, che tocca in modo diverso tanto gli ambienti popolari del primo che quelli borghesi o alto-borghesi o anche di “nuovi ricchi” del secondo. Nel film di Sorrentino il denaro è sempre evocato attraverso l’ostentazione dei suoi derivati e status symbol (attici e terrazze con comodi divani e amache, domestiche, camerieri, droghe, cure corporali, abiti, ecc.); solo in una lunga sequenza (quella del botox-party nello studio medico) viene esplicitamente e ossessivamente nominato. Questi simboli di agiatezza fanno parte integrante della vita del protagonista Jep Gambardella (Toni Servillo), scrittore di un solo romanzo (di successo, ma tanto tempo fa), oggi giornalista di fama. Ma per quanto profumatamente i suoi reportage possano essere pagati, a giudicare dal tenore di vita che Jep/Toni conduce nel film, c’è da pensare che debba comunque contare su altre e più sicure rendite. Lo stesso vale per quasi tutta l’assortita galleria di personaggi del film; tra gli argomenti del loro gossip quotidiano non figura l’origine dei soldi. Quasi sempre in Italia pecunia non olet, come sembra ironicamente dirci il regista nella sequenza dell’arresto del misterioso (ma elegantissimo) “vicino di casa” di Gambardella.

E d’altra parte, va bene che ormai la separazione dei mestieri (oltre che dei poteri) è sempre meno netta che in passato, ma cosa chiediamo al nostro cinema d’autore? Di fare al posto di altri e per tutti noi anche le inchieste? Altrettanto e semmai più inquietante del silenzio di registi e sceneggiatori, appare la progressiva scomparsa – con alcune lodevoli e sempre precarie eccezioni televisive come “Report” – di una antica tradizione di ‘giornalismo d’inchiesta’ (scomparsa anche fisica e a volte prematura dei suoi protagonisti, pensiamo a Giorgio Bocca e a Giuseppe D’Avanzo, morti nel 2012).

C’è comunque una sequenza assai breve, proprio ne La grande bellezza di Sorrentino, che se da un lato è scopertamente simbolica, sprigiona una sua ambigua reticenza che forse ci svela qualcosa di quell’altra reticenza – o censura, o autocensura – rispetto al racconto dei fenomeni economico-finanziari. In quella sequenza, Gambardella giunge infine (pungolato dalla direttrice della importante testata giornalistica per cui lavora) all’isola del Giglio, dinanzi alla Costa Concordia affondata sugli scogli. Di fronte allo spettacolo del mostruoso relitto, resta come pietrificato, in una sorta di indolente contemplazione. O almeno così è sembrato a noi, in quelle scarne inquadrature. Poi il film passa oltre14. Gambardella non scriverà nessun reportage dal Giglio (né la direttora del giornale sembra chiedergliene conto). “Quel relitto ormai incapsulato nel paesaggio mi è sembrato un segno fortissimo del presente, dal punto di vista simbolico e della cronaca. Ineludibile”. Così ha dichiarato il regista15. Come dargli torto? Il punto è che – e vogliamo credere che sia questa la precisa e provocatoria indicazione di Sorrentino – la tragedia è diventata così ingombrante, anche solo sul piano estetico, che non riusciamo più nemmeno a sostenerne la visione, né tantomeno a elaborarne un racconto compiuto. Il racconto della crisi italiana, economica ma anche e soprattutto culturale, degli ultimi decenni è un racconto sicuramente complesso e stratificato. Speriamo che altri giornalisti, in altre inchieste, e altri registi e narratori, sapranno e vorranno continuare a dipanarne le trame…

La grande bellezza è davvero lontana da La dolce vita felliniana, film assai più disperato e disperante, dove, come ha ricordato lo stesso Sorrentino “la persona più felice di quel film” -il personaggio dello scrittore Steiner, ndr- “si suicidava in maniera del tutto inattesa” e il cui racconto “metteva un’autentica vertigine sul vuoto dell’esistenza, pur raccontando invece mondi che potevano essere affascinanti” 16. Tra quell’Italia e questa sono passati 53 anni, e che anni. Ma è dalla metà degli anni ’80 e poi in modo più evidente negli ultimi 20 anni che le nuove forme e facce dei totalitarismi “seduttivi” hanno trovato nel nostro Paese una compiuta espressione in quello che comunemente definiamo “berlusconismo”, ovvero il brodo di coltura di una vocazione fintamente trasgressiva e iperedonistica del potere incarnata da Silvio Berlusconi. Una teoria e prassi del potere che ha aggiornato e modellato su alcuni forti e radicati tratti della nostra cultura, il lacaniano “discorso del capitalista”. E che ha anche confermato le profetiche analisi di studiosi come Foucault (e da noi, tra gli altri, Pasolini) sulla natura sempre più cangiante e “plastica” dei sistemi politico-economici moderni (a maggior ragione poi per quelli ‘globali’), e sulla loro crescente capacità di “integrare il dissenso”, di assimilare, a volte perfino di invogliare, la critica, di farla diventare “fenomeno interno”17.

Così, più che stabilire quanto sia cambiata la Roma de La dolce vita o quella di Casal Palocco (per citare il Moretti del primo episodio di Caro diario), dobbiamo cercare di capire come e perché l’Italia sia così cambiata – antropologicamente, socialmente, eticamente – da essere a tratti “irriconoscibile” nelle sue pulsioni profonde, stimolate e assecondate dal nuovo corso del potere. In un contesto sociale e politico che rende praticamente impossibile ogni autentico conflitto “dall’interno”, e taccia di “moralismo” ogni residua istanza “morale”, autori acuti e talentuosi, ma a pieno titolo inseriti nelle logiche produttive e competitive come Garrone e Sorrentino, finiscono per dover esercitare il loro dissenso ricorrendo alle maschere sfuggenti del grottesco e della caricatura. Il rischio tipico è che le maschere del grottesco riflettano, anche involontariamente, una ambigua fascinazione rispetto a quel tipo di potere – alle sue luci, ai provini e alle telecamere, alle danze e ai “trenini delle feste che non portano da nessuna parte”, che pure sarebbero oggetto critico della narrazione. E se in Reality Garrone riesce a evitare questa trappola trasformando via via la vicenda del protagonista in una terribile ossessione, a costo di avvitare un po’ su se stessa la narrazione filmica, Sorrentino vi resta come impaniato; cerca allora di aprire quanto più possibile la storia principale verso percorsi secondari o paralleli, ma i rari sguardi “esterni” (al mondo , ritratto con efficacia e precisione, del “generone” romano) che il film intercetta stentano ad essere parimenti autentici e credibili.

Ma forse il vero problema è proprio sapere e volere guardare in faccia la realtà esterna, e con essa quella montagna che giace da venti mesi arruginita sugli scogli e ostruisce il cammino, il viaggio che noi italiani non riusciamo più a riprendere. Il tempo passa, anche i governi, e oggi abbiamo paura, figli e genitori, di non poter più nemmeno permetterci di sognare, e tanto meno di concepire sogni di gloria come quel Rex multicolore che brillava nella notte di un altro sogno felliniano (trasfigurando con la poesia la Storia e dunque la propaganda che il fascismo aveva affidato a quella nave leggendaria). Più semplicemente, quel sogno smarrito si chiama speranza, la cui mancanza rischia di far affondare anche la nostra identità più vera, di popolo mediterraneo, meticcio, emigrante, che, prima del Rex,  aveva saputo sfidare gli oceani anche su piroscafi scalcinati. E molti preferiscono puntellare quella identità attraverso l’odio o il disprezzo o l’indifferenza per l’Altro18, lo straniero che approda ora da noi, vivo o morto,  su ben più fragili ma coraggiose imbarcazioni.

“A’ m’arcord”. E invece no. La memoria svanisce, non c’è tempo di ricordare, le notizie incalzano. Altre tragiche notti. “‘A da passa’ a nuttata”, ma a volte non ne siamo più tanto sicuri. Sembra quasi un accanirsi del destino, anche sul piano simbolico, ma dopo il disastro della Concordia del gennaio 2012, un’altra tragedia incredibile e inimmaginabile (in senso letterale, pensando alla sua dinamica) ha sconvolto l’Italia intera, quando la notte (ancora una notte) del 7 maggio di quest’anno la nave “Jolly nero” abbatte la torre di controllo piloti del porto di Genova causando la morte di 9 lavoratori, artefici di un lavoro assai duro e specializzato.

Da vicende come queste (e senza voler tenere in minimo conto terremoti e altri disastri naturali) emergono istintive, e ovvie, considerazioni metaforiche. Il nostro paese è ancora sugli scogli (vedi sopra). Paura e scetticismo, insieme alla rabbia e alla disperazione, si diffondono, anche perché siamo in un empasse; ora anche le autorità preposte alla guida e al controllo, poste a tutela di una navigazione ordinata e in definitiva del benessere collettivo, sono sotto attacco diretto. Errori umani, degrado delle strutture, malfunzionamenti meccanici, unitamente a carenze gestionali e organizzative e a missing rings nelle catene di comando creano un mix di morte e distruzione.

Gli ultimi comandanti hanno guidato davvero male questo grande Paese, che per le qualità e le risorse, umane e professionali, di molti dei suoi abitanti non meritava e non merita davvero questo pesante destino19. Anche i tecnici chiamati a riparare lo scafo non hanno saputo turare bene le falle, che erano del resto squarci profondi; ma dare la croce tutta in capo a loro è sin troppo facile, è gioco da sciacalli e irresponsabili. Ma sono proprio questi di solito a trarre profitto dalle disgrazie altrui, si sa. Anche da quelle che essi stessi hanno contribuito a provocare. Un esempio da manuale, l’ultima consultazione elettorale dello scorso febbraio. Nella quale anche (certo non solo…) per questo, l’ “Italia giusta” non ha vinto, mentre “scelte civiche” e “rivoluzioni civili” (obiettivi invero assai ambiziosi per la nostra cultura) hanno proprio perso, senza se e senza ma. In compenso, nel nostro futuro già risuona nell’aria (e addirittura sfreccia nei cieli sulle spiagge dei vacanzieri) un vecchio grido di battaglia – e “Forza Italia” – confuso tra altri quotidiani urli e vituperi, di norma ‘virtuali’, ma anche agli insulti che accompagnano provocatori lanci di banane (queste del tutto reali) da parte di vecchi leghismi e nuovi post-populismi (nuovo è in realtà il packaging e la release, rigorosamente ‘2.0’).

Un mondo dove il primo arrivato (anche se davvero di poco, per onestà intellettuale) “non vince”, mentre il secondo e il terzo alla fine godono i frutti migliori e hanno un potere assoluto di ricatto ed insulto, se non è un “mondo alla rovescia”, degno della penna di uno scrittore latino-americano, è quantomeno un mondo inclinato a 180°, proprio come la Concordia. E forse sarà l’effetto di questo notevole abbassamento (o schiacciamento) di prospettiva (oltre che della ormai cronica perdita di memoria degli italiani) a far sembrare del tutto normale ciò che altrove o in altro momento storico sarebbe ritenuto inconcepibile o quantomeno paradossale.

Ne sono esempio alcuni fatti diversi che qui ricordiamo:

– Cesare Geronzi ha pubblicato in volume le sue ‘confessioni’ affidando l’intervista a un autorevole giornalista20; lo stesso ha fatto un faccendiere di alto bordo come Luigi Bisignani21;

– l’ex ministro dell’economia e delle finanze Giulio Tremonti ha invece pubblicato, appena conclusa la sua esperienza governativa, un saggio ponderoso dal titolo quasi provocatorio, Uscita di sicurezza22; molti cittadini però avrebbero gradito di più – anche in virtù dell’autocertificato elevatissimo quoziente di intelligenza del personaggio (che sembra abbia rifiutato financo il premio Nobel) e la sua posizione nella plancia di comando della nave Italia- una capacità di visione e un’abilità di manovra preventive;

– da febbraio a oggi il valore di mercato del gruppo Fininvest è in crescita continua. A partire poi dal varo del governo delle “larghe intese” le aziende della famiglia Berlusconi hanno guadagnato a Piazza Affari il +74% (+ 100% circa il titolo Mediaset; dati del 26 agosto 2013, ndr) regalando all’ex-premier 1,3 miliardi di guadagno23; insomma, come constata il socio d’affari di lungo corso Ennio Doris, storico patron di banca Mediolanum, anch’egli avvezzo alle indagini per evasione fiscale 24, “questo governo conviene alle nostre aziende” (vedi nota 23);

– l’Italia, nonostante tutto, si conferma leader del settore crocieristico, che risulta, nonostante la crisi, in tenuta di fatturato 25;

– la Costa Concordia è ancora là forse perché, visti i tempi di crisi, si vuole alimentare (non certo a favore delle popolazioni locali) gli introiti dell’osceno e perdurante turismo di massa del tipo “scatta la foto e fuggi”). Questa è solo una maliziosa ipotesi che sembra trovare conferma dalle ultime notizie di cronaca che danno l’operazione di “raddrizzamento” dello scafo (certo tecnicamente irta di difficoltà) programmata (anche in mondovisione) per metà settembre; nel frattempo divampano conflitti di competenza tra i porti italiani che dovranno accogliere il relitto per il suo successivo smantellamento (un business anch’esso, in tempi di forte crisi della cantieristica);

– dopo il patteggiamento richiesto dai principali imputati – patteggiamento rifiutato solo al comandante Schettino – le prime sentenze di condanna (20 luglio 2013) sono apparse scandalosamente blande; da parte sua, Schettino, rimasto unico imputato, attende con trepidazione mista a fiducia il verdetto del tribunale (con maggior trepidazione crediamo – è un’altra maliziosa ipotesi – che attenda di essere scritturato per un kolossal cinematografico che dalle prime indiscrezioni sarà la risposta tricolore al Titanic e dove egli dovrebbe interpretare – indovinate un po’ –  se stesso!).

Dinanzi a tutto questo (e a molto altro ancora che le cronache di questa estate ormai al tramonto ci hanno offerto), affiora spesso in noi spontaneo un pensiero. Lo vorremmo anche noi gridare forte, come un comando o un’invocazione; invece, ci ritroviamo a mormorarlo, come scongiuro o laica preghiera – e per pudore, anche, ma soprattutto per amaro scetticismo: “Che non salgano più a bordo, cazzo!!!”

Film sul tema Cinema & Finanza citati

(in ordine di anno di produzione)

Master of the Universe, Marc Bauder, Germania, 2013 (documentario)

Il potere dei soldi (Paranoia),  Robert Luketic, USA, 2013

La frode (Arbitrage),  Nicholas Jarecki, USA, 2012

L’industriale,  Giuliano Montaldo, Italia 2011

Margin Call,  Jeffrey C. Chandor, USA, 2011

Inside Job, Charles Ferguson, USA, 2010 (documentario)

Cleveland versus Wall Street,  Jean-Stéphane Bron, Francia-Svizzera, 2010 (documentario)

Il gioiellino, Andrea Molajoli, Italia 2010

Capitalism: A Love Story,  Michael Moore, USA, 2009

A casa nostra,  Francesca Comencini, Italia 2006

I soldi degli altri (Other’s People Money),  Norman Jewison, USA, 1991

Roger & Me,  Michael Moore, USA, 1989

Wall Street,  Oliver Stone, USA, 1987

Una poltrona per due (Trading Places),  John Landis, USA, 1983

Il Gigante (Giant),  George Stevens, USA, 1956

Altri film citati

L’intrepido,  Gianni Amelio, Italia, 2013

La grande bellezza,  Paolo Sorrentino, Italia 2013

Reality,  Matteo Garrone, Italia 2012

Il divo,  Paolo Sorrentino, Italia 2008

Nuovomondo,  Emanuele Crialese, Italia/Francia, 2006

La ricerca della felicità,  Gabriele Muccino, USA, 2006

Titanic,  James Cameron, USA, 1997

Caro Diario,  Nanni Moretti, Italia 1993

Amarcord,  Federico Fellini, Italia, 1973

Fronte del porto (On the Waterfront),  Elia Kazan, USA, 1954

Arriva John Doe (Meet John Doe),  Frank Capra, USA, 1941

Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith Goes to Washington), Frank Capra, USA, 1939

È arrivata la felicità (Mr. Deeds Goes to Town), Frank Capra, USA, 1936

Note

1 Per “Manager 2013. Annuario-agenda di cultura e informazione manageriale” (a cura di Francesco Bogliari), Metamorfosi editore, 2012.

2 Testo che ripropongo più avanti (cfr. Il testo originario) integralmente, con piccole modifiche.

3 Il regista ebbe un discreto successo con il suo primo lungometraggio, una commedia del 2001, La rivincita delle bionde.

4 http://www.bauderfilm.de/

5 Dove per inciso, si apprende sempre dal film, per motivi di convenienza fiscale oltre il 30% degli edifici costruiti viene lasciato sfitto.

6 Tra questi, in ordine sparso, ma anche no: il peso delle consorterie mafiose, massoniche, piduistiche, quello delle più moderne e operose confraternite, i complicati e incestuosi intrecci societari e azionari, la sudditanza al potere politico e/o creditizio…

7 Alberto Statera, “Salotto buono, Così è tramontato il capitalismo all’italiana”, La Repubblica, 27 giugno 2013.

8 Dario Zonta ‘L’Unità’, 14 marzo 2013

9 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-07-17/Fonsai-inchiesta-104505.shtml?uuid=Ab1SYwEI)

10 http://www.corriere.it/economia/13_luglio_17/ligresti-arrestata-amiglia-inchiesta-fonsai_0e1a1be0-eeae-11e2-b3f4-5da735a06505.shtml

11 Ovviamente non mancano gli esempi, ma che appaiono abbastanza sporadici, sia sul versante documentario che su quello delle opere di fiction. Tra queste ultime, oltre al film di Montaldo citato prima nel testo, ricordiamo altri film, magari non del tutto riusciti, come Il gioiellino di Andrea Molajoli (2010) che ricostruisce le vicende del crac della Parmalat, o A casa nostra di Francesca Comencini (2006), che evoca le commistioni tra economia legale e illegale.

12 Andreotti, all’uscita del film, nel 2008, aveva 89 anni. Le cronache ci ricordano che le sue prime reazioni alla pellicola furono molto dure, anche se in seguito mitigate attraverso il ricorso alla sua proverbiale vena sarcastica. Per converso la figura di Berlusconi sia come uomo che come politico ha ispirato, in maniera più o meno diretta, diverse opere di finzione – di registi come Nanni Moretti o Daniele Luchetti- ma anche documentarie e di docu-fiction.

13 C’è grande attesa per il nuovo film di Gianni Amelio, L’intrepido, che sarà in concorso alla Mostra di Venezia (e nelle sale dal prossimo 5 settembre), e  ha per filo rosso narrativo il tema del lavoro.

14 Anche se le riprese effettuate sui luoghi reali del disastro, nel settembre 2012, durarono parecchi giorni.

15 Dichiarazioni del regista tratte dal mensile “ Ciak”, giugno 2013, p. 55

16 Dichiarazioni tratte dall’intervista al regista, in La mutazione italiana in pellicola, La Repubblica delle idee – n. 3, Gruppo editoriale L’Espresso, 2013, p. 15

17 Per un’analisi approfondita -in chiave psicoanalitica- di questi temi con riferimento allo scenario politico italiano rimando al bel libro-intervista di Massimo Recalcati (a cura di Christian Raimo), Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana, Minimum fax, 2013; un’altra lucida e recente analisi del berlusconismo è quella del saggio di Fulvio Carmagnola e Matteo Bonazzi, Il fantasma della libertà. Inconscio e politica al tempo di Berlusconi, Mimesis, 2011.

18 Cfr. sul tema della paura dell’Altro, ancora Recalcati, op.cit.

19 Sempre e solo a proposito di disastri in mare basterà citare l’intervento, ricco di solidarietà e anche competenza, degli abitanti dell’isola del Giglio nella notte del 13 gennaio 2012 o  la catena umana approntata dai bagnanti nella spiaggia di Morghella a Pachino (Siracusa) in aiuto ai mezzi della guardia costiera per salvare centinaia di profughi nel giorno di Ferragosto 2013.

20 Massimo Mucchetti intervista Cesare Geronzi, Confiteor. Potere, banche e affari. La storia mai raccontata, Feltrinelli, 2012. Mucchetti, vice-direttore del “Corriere della sera” dal 2004 al 2012, è stato eletto al Senato in Lombardia come capolista del PD alle elezioni di febbraio 2013, ed è oggi Presidente della Commissione Industria Commercio e Turismo a Palazzo Madama.

21 Luigi Bisignani, Paolo Madron, L’uomo che sussurra ai potenti. Trent’anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate, Chiarelettere, 2013

22 Giulio Tremonti, Uscita di sicurezza, Rizzoli, 2012

23 http://www.repubblica.it/politica/2013/08/21/news/il_consiglio_di_doris_al_socio_d_affari_silvio_questo_governo_conviene_alle_nostre_aziende-65064395/. Gli analisti di recente (primi giorni di luglio) avevano rivisto al rialzo le previsioni sulla quotazione del titolo Mediaset sino a 4,4 euro per azione (basti pensare che al momento dell’arrivo di Mario Monti a Palazzo Chigi l’azione valeva 1,16…); la previsione presuppone ovviamente il mantenimento dell’attuale quadro di governo.

24 http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2013/04/08/news/ennio_doris_luomo_dei_sogni_finito_nellincubo_dellevasione_fiscale-56167474

25 Nel 2012, poi, la leadership europea dei porti crocieristici per numero di imbarchi, sbarchi e transiti, che nel 2011 era saldamente guidata da Barcellona, si è spostata su Civitavecchia, con quasi 2,2 milioni passeggeri. (http://www.luxury24.ilsole24ore.com/GustoMete/2013/06/crociere-estate-2013_1.php); né destano preoccupazioni di sorta notizie di cronaca recente su mancati disastri, addirittura nel cuore di Venezia, a seguito dei perduranti “strusci” (variante degli “inchini” di schettiniana memoria) delle navi da crociera (http://www.lettera43.it/ambiente/venezia-nave-da-crociera-sfiora-molo-di-san-marco_43675103690.htm).

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Formatore, consulente e critico cinematografico indipendente. Autore di saggi e articoli, è redattore delle riviste AIF (Associazione Italiana Formatori) “FOR-Rivista per la Formazione” e “Learning News”, collaboratore di “Persone & Conoscenze” (Este) e da poco di "Bloom". Come critico cinematografico collabora, tra le altre testate specializzate, a “Cineforum” e “Cinecriticaweb”. Di recente ha curato (con Dario Forti) il volume collettaneo Formare con il cinema. Questioni di teoria e di metodo, Franco Angeli, 2012. E-Mail: srg.digiorgi@gmail.com

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