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Aif: Immaginate una associazione che forse non c’è ancora, ma che potrebbe esserci se ci crediamo

di Francesco Varanini 16 Ottobre 2013

Immaginate una associazione che è un luogo aperto, un bene comune.
Immaginate un’associazione che offre un luogo di incontro a formatori aziendali, maestri elementari, insegnanti di scuola media, docenti universitari. Un luogo dove ragionare attorno a ‘cosa si fa’, e a ‘come si fa’. In modo da scoprire insieme il senso.
Immaginate un’associazione che accompagna nell’allontanamento da un mondo dove docenti erano ben distinti, separati così come sono separati l’autore e il lettore di un libro, separati così come lo sono il maestro sulla cattedra e gli studenti sui banchi – un’associazione che ci accompagna dentro un nuovo mondo -il mondo del lavoro collaborativo, del Web, delle reti sociali- dove siamo tutti connessi in rete, in relazione, di volta in volta docenti e discenti, tutti intenti, in un continuo scambio di ruoli, a costruire conoscenza.
Immaginate un associazione che ‘fa cultura’, organizzando incontri, favorendo lo scambio di esperienze. Una associazione dove sia possibile sperimentare, una associazione che ci permetta di accedere a nuovi insegnamenti, nuovi modi di pensare e di agire.
Immaginate un’associazione dove si discuta senza infingimenti, senza timore di litigare; una associazione dove si sia dedicato tutto il tempo necessario a parlare liberamente e a confrontarsi fino a conoscerci reciprocamente, fino a trovare -con piena consapevolezza di aver rispettato se stessi- aree di convergenza, punti di incontro, ragioni per un accordo, scopi comuni.
Immaginate una associazione che si allarghi a partire da nuclei solidi, da gruppi affiatati, una associazione che si allarghi per cerchi concentrici, contaminando un cerchio con l’altro. Mantenendosi aperta, anche, alla multipla appartenenza. Capace di ibridarsi, di essere parte di altre associazioni, di altri gruppi. Posso sentirmi appartenente qui, ma anche contemporaneamente altrove.
Immaginate una associazione non ‘esclusiva’, ma al contrario ‘inclusiva’. Immaginate una associazione alla quale ci si iscrive non per godere di servizi riservati ai soci, ma perché si crede in un progetto, e quindi si è disposti a farci carico di una quota del suo costo. Immaginate una associazione che offre spazi e stimoli a tutti coloro che, iscritti o no, trovano interessante ciò che la associazione propone.
Immaginate una associazione fondata sulla gratuità, sul dono. Immaginate una associazione che esiste innanzitutto perché gode di una preziosissima risorsa: il tempo e le conoscenze di ognuno di noi. Una associazione che vive innanzitutto dello scambio di servizi tra coloro che nell’associazione si riconoscono.
Immaginate una associazione dove i momenti di incontro siano dedicati a conversare, ad apprendere, a formarci a vicenda, a progettare – e non a questioni contabili e statutarie.
Immaginate una associazione priva, in partenza, di apparati, strutture organizzative, funzionari remunerati. Una associazione che non si preoccupa di contare le tessere e di stabilire costi di iscrizione. Una associazione fondata sul lavoro volontario, e su progetti finanziati uno per uno, di volta in volta.
Immaginate una associazione dove nessuno sia messo alla prova in ruoli ai quali è poco adatto, dove non si debba fare gavetta. Immaginate invece una associazione dove ognuno sia impiegato nell’attività che gli risulta più piacevole, dove è più bravo.
Immaginate una associazione vissuta da ognuno non come cosa propria, ma come spazio aperto a chi voglia entrare, dove sia bello entrare. Immaginate una associazione che non sia, per ognuno di noi, luogo -e ambiente, attività- dei quali non si può fare a meno. Immaginate una associazione vissuta, invece, come luogo che domani, anzi: oggi stesso, potrei lasciare senza rimpianti. Immaginate una associazioni dove si entra e dove si sta per puro spirito di servizio. Una associazione da dove si esce, dopo aver dato, senza rimpianti e senza bisogno di elaborare il lutto, senza accampare diritti e ruoli a suon di statuto e di remote tradizioni.
Immaginate una associazione capace di dimenticare consuetudini, o vicende passate, che portano a dire: ‘bisogna andar cauti’, ‘questo non si può fare’. Immaginate invece una associazione fondata su idee, sogni, visioni.
Immaginate una associazioni che non si preoccupi di difendere, di stabilire confini, di definire regole, di gestire liste. Immaginate, invece, una associazione sempre capace di andare oltre le regole. Immaginate una associazione capace di ridefinire giorno dopo giorno i criteri di appartenenza; una associazione capace di inventarsi, in ogni situazione, la minima, più efficace organizzazione necessaria.

Mi direte che l’utopia è una cosa e realtà un’altra. Mi direte che sono parole al vento, facili da enunciare tanto quanto impossibili da mettere in pratica. Mi direte che sono l’ultimo arrivato, e che non so quello che dico.
Certo nulla è facile. Cambiare non è semplice. Ma vi prego anche di considerare come -in cuor suo- ognuno di noi viva con dispiacere, come un peso, certi aspetti della vita associativa. Proviamo disagio per assenza di trasparenza. Consumiamo energie invano a causa di relazioni interpersonali non sempre fluide. Lavoriamo gratuitamente ma vediamo spiacevoli questioni economiche inquinare il clima e bloccare la vita associativa. Non varrebbe la pena, mi chiedo, di scommettere sulla fiducia, sulla speranza di cambiare le cose. Perché non destinare a questa scommessa il nostro tempo e ne nostre energie, mi chiedo.
Per quanto mi riguarda, posso dire che mi sono vaccinato molti anni fa contro questa difensiva condizione che porta a dire: ‘non si può fare’.
Facevo il manager. Il mio capo e padrone mi aveva affidato un progetto di innovazione. Non potò mai dimenticare cosa mi rispose quando andai, insieme al gruppo di lavoro, a dirgli cosa intendevo fare. Mi rispose: “Ma come, mi dice che nessuno l’ha fatto prima; mi dice che non ci sono riusciti in Francia, in Germania, in UK, negli Stati Uniti. E vuole che ci riusciamo noi?”
Eppure una volta una nuova iniziativa è andata avanti, nonostante tutti i timori di questo capo. Ed è stato un successo che ancora oggi si ricorda.
Ecco, il nostro paese va a catafascio perché pensiamo così. Ci crogioliamo nel passato. Coltiviamo a ritroso il mito dell’Olivetti, celebriamo la grandezza di Adriano Olivetti in modo da svalutare al cospetto quello che potremmo fare qui ed ora; e giustifichiamo così il nostro non fare – il non fare quello che potrebbe fare ognuno di noi, anche stando dentro l’ambito di autonomia che gli è concesso, anche in questi tempi difficili. Difendiamo piccole rendite di potere invece di scommettere sulla nostra creatività, sulla nostra imprenditorialità. Diciamo: ‘sogni nel cassetto’ con il tono di considerare questi sogni velleitari, impraticabili. E ci creiamo così facili alibi.

Ognuno di noi subisce il peso di organizzazioni aziendali schiacciate sullo scopo di lucro, fino a privare di senso il lavoro.
Ognuno di noi subisce il peso di un modo di lavorare subordinato a vincoli esterni sempre più gravosi, un modo di lavorare subordinato ai vincoli ed ai ricatti di una finanza rapinosa, che saccheggia e inaridisce le relazioni.
Considerate come sarebbe importante, costruttivo, liberante, per tutti noi, far parte di una associazione dove si possa respirare, conversare, agire sperimentando il piacere del lavoro.
Oggi ognuno di noi, anche i più capaci e fortunati, sono toccati da vicino da vicende spiacevoli e dolorose: il mercato che non è più, per nessuno di noi, quello di prima; giovani senza prospettive; adulti espulsi dal mercato del lavoro, ognuno di noi ha familiari, parenti, conoscenti toccati da vicende di ingiustizia, che lasciano profonde ferite.
E allora mi chiedo: non ci meritiamo forse un luogo dove sperimentare relazioni diverse? Un modo di lavorare diverso? L’Aif può, deve essere il luogo dove sperimentare tutto questo. Anche perché saremo poi noi, che ci chiamiamo formatori, a dover accompagnare gli altri verso atteggiamenti adeguati ai tempi che stiamo vivendo, verso un modo di lavorare più sensato. Perché saremo noi, se sapremo farci carico del compito, a doverci preoccupare della formazione di una nuova classe dirigente. E se no sperimentiamo, se non verifichiamo tra di noi, cosa potremmo mai insegnare?

Ma, anche, mi immagino Aif come associazione dove non si parla solo da formatori, di formatori, a formatori; una associazione dove non ci si limita a guardare il mondo dalla parte dei formatori.
Beninteso: mi sento formatore e sto dalla parte dei formatori. Penso anzi la figura del formatore abbracci figure che appaiono ora separate da noi, magari lontane: gli insegnati impegnati in scuole di ogni ordine e grado, i docenti universitari, organizzatori di eventi culturali. Penso che, in azienda, la figura del formatore abbracci i manager in genere -per come si occupano delle persone che lavorano con loro-, e comprenda in particolare ci si occupa di sviluppo, di Knowledge Management, di comunicazione…
Ma penso anche che oggi -il World Wide Web lo dimostra- si abbassi, fin quasi a scomparire, la netta distinzione cui eravamo abituati in passato: non più docenti e discenti come figure separate. Siamo tutti, allo stesso tempo, docenti e discenti. Prendete una qualsiasi persona: c’è almeno un campo del sapere, un ambito di attività, nel quale ha qualcosa da insegnare.
E allora, mi immagino una associazione che non si occupi di formatori e di formandi, ma di formazione. Formazione intesa come il ‘formarsi’. Il ‘formarsi’, il ‘prender forma’, come possibile emergere di un mondo nuovo. il ‘formarsi’, il ‘prender forma’ di sempre nuovi saperi, nuovi conoscenze, adeguati alle situazioni che ci troviamo a vivere. Il ‘formarsi’ inteso come lavoro teso a cercare un futuro per il nostro paese. Il ‘formarsi’ inteso come autoformazione di ognuno di noi. Il ‘formarsi’ inteso come sguardo orientato a comprendere il World Wide Web, luogo in continua formazione, potenziale fonte di conoscenza infinita, cui tutti siamo chiamati a contribuire.

Per questo vedo gravi rischi nel ripensare l’associazione -come sta accadendo- in funzione del dettato della legge 4 (Legge 14 gennaio 2013, n. 4, “Disposizioni in materia di professioni non organizzate in ordini e collegi”).
Mi va benissimo lo spirito della legge: dare garanzie a coloro che godono dei nostri servizi. Ma, mi sembra, il miglior modo per offrire garanzie è continuare ad essere, ed essere sempre di più, una associazione che produce cultura. Aif così offrirà ad ognuno garanzie: perché coltiva, alimenta, diffonde i valori della formazione. L’Aif così facendo, difende la buona formazione: sostenendo tutti gli attori coinvolti in un percorso di miglioramento, di maggiore consapevolezza nell’uso della formazione. Del resto, ho appena finito di dire che si va verso un un mondo dove i confini si sfumano, dove siamo tutti docenti e tutti discenti, dove tutti partecipiamo al ‘formarsi’, al ‘prender forma’ di nuovi saperi, nuove conoscenze.
Insomma, credo noi si debba parlare a tutti -singoli formatori, scuole di formazione, aziende compratrici di formazione, partecipanti ai corsi-.
Vedo rischioso e fuorviante passare ad essere un elenco di formatori, legittimati dall’appartenenza a quest’elenco all’esercizio di una professione. Certo, da persone coraggiose, i rischi dobbiamo saperli affrontare. Certo, se non curiamo un elenco dei formatori noi, lo curerà qualche altra associazione probabilmente meno seria della nostra.
Ma siamo convinti davvero che il nostro futuro stia nel diventare una associazione di rappresentanza degli erogatori di formazione? Vogliono questo i nostri attuali soci? Sanno che ci stiamo forse incamminando lungo questo cammino?
Sicuramente, se diventiamo i gestori di un registro, avremo di fronte un mercato di possibili nuovi soci, che si iscriveranno per poter esercitare una professione. Diventeremo i gestori della formazione permanente di questi formatori. L’associazione vivrà forse una vita più tranquilla. Potrà permettersi di pagare qualche funzionario, qualche sede. Ma è questo che vogliamo?
Non voglio escludere che potremo riuscire ad essere, al contempo, l’associazione culturale che immagino, e l’associazione di rappresentanza gestore di un elenco di formatori. Possiamo provarci. Ma anche in questo caso, ciò a cui sopratutto dobbiamo porre attenzione è questo: non recidere la nostra storia, non perdere di vista ciò che dà senso all’Aif: il suo essere, innanzitutto, una associazione culturale. (A proposito di come l’Aif potrebbe gestire un elenco di formatori senza snaturarsi, provo ad argomentare, sempre su Bloom, in quest’altro testo).

Ho detto che immagino un’Aif che riesce a rinnovarsi, ad essere bene comune e luogo di incontro, sempre più aperto e libero. Ho detto che immagino un’Aif capace di mostrare che si può stare insieme, lavorare insieme in un modo diverso dal modo proposto da aziende, da partiti politici.
Questo significa, detto in parole povere, fare passi avanti nella democrazia interna. Ce n’è certamente bisogno.
Trovo umiliante affrontare questa questione solo perché, si dice, ce lo impone questa legge 4. Abbiamo forse bisogno del vincolo esterno di una legge per innescare un processo che ci porti verso una più vera partecipazione? Abbiamo bisogno del dettato di una legge alla quale conformarci? Il processo di ridefinizione della nostra organizzazione, il processo di ridefinizione degli organi e del loro funzionamento, non dovrebbe essere frutto di un percorso cui partecipano in modo esplicito tutti i soci?

E trovo umiliante anche appartenere ad una associazione che fatica a trovare un solido equilibrio tra costi e ricavi. Visto che i ricavi sono i denari che ci danno i nostri soci, dovremmo essere attenti al contenimento dei costi ben più di quanto lo sia un qualsiasi buon imprenditore – che rischia in proprio. Va bene invitare ai nostri incontri, come ospiti e testimoni, imprenditori illuminati, ma intanto diamoci da fare per gestire in modo equilibrato i conti di quella ‘piccola impresa’ che è l’associazione.

I soci non sono portatori d’acqua, fornitori di risorse economiche al servizio di un gruppo dirigente che si autoperpetua, gestendo con il contagocce il ricambio.
Dobbiamo essere, credo, una associazione dove ogni socio conta alla stessa maniera. Proprio perché ci occupiamo di ‘formazione’, del ‘prender forma’ del nuovo, chiunque si interessi alla ‘formazione’, al ‘prender forma’ è ben accetto con noi, tra noi. Ed il suo punto di vista vale quanto il punto di vista di coloro che da anni navigano nell’associazione.
Anzi, mi correggo, il punto di vista di chi arriva ora, portando qualcosa di nuovo, vale molto di più di chi da anni naviga nell’associazione, e in cuor spera di navigarvi anche domani.

Questo articolo è stato scritto  all’inizio di ottobre 2013, su richiesta dell’allora direttore di  FOR. Rivista  per la formazione, house organ dell’Aif. Per varie vicende di vita associativa l’articolo non è apparso sulla rivista. 

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