Contributi

Tensione verso la qualità e la distintivitá

di Paolo Bruttini 04 Giugno 2015

Ho letto con molto interesse la proposta in merito al futuro della formazione.
Dedico da venticinque anni la mia vita alla formazione degli adulti e avverto quella del formatore come una dimensione prevalente della mia identità. Anche nel ruolo di capo oppure di padre sento molto forte la spinta alla cura delle capacità di attribuire significati e ricavare apprendimenti dalle esperienze della vita.
Ho vissuto come tutti la profonda trasformazione di questa professione verso prospettive di minor valore e significato per le persone e le organizzazioni. La contingenza delle crisi economica italiana è stato un fenomeno che ha solo amplificato una tendenza che mi pare ineluttabile nel mondo civilizzato: il cambiamento del modo attraverso il quale le persone apprendono.
I tempi innanzitutto si sono ridotti. Anche in astratto le persone avessero tempo di seguire la formazione ben pochi avrebbero voglia di stare seduti 2 o più giorni a seguire lezioni, fare esercitazioni, discutere di casi. Sintassi che ben conosciamo ed abbiamo imparato ad ottimizzare ormai sono logore nelle modalità, in quanto inconciliabili con i bisogni degli individui contemporanei. L’aula non è più il luogo sacro dell’apprendimento così come il docente non è più il sacerdote di un rito che media e rende possibile l’accesso alla conoscenza.
Serve oggi un apprendimento funzionale alla professione. Le persone chiedono strumenti diversi alcuni dei quali da alto contenuto tecnologico, ma sempre e comunque focalizzati sui propri bisogni professionali con una stringente coerenza tra il contenuto e la modalità di distribuirlo.
Nei contesti professionali sta emergendo una dimensione nuova connessa alla cultura della rete. Quando Michael Bawuens (teorico della Rete) parla dell’apprendimento dice che esistono 3 stagioni: nell’età preindustriale si apprendeva dai Maestri; nell’età industriale dalle istituzioni; nell’età post industriale dalla Rete (dai pari). Ecco questo elemento emergente è ciò che più mi ha interessato in questi anni. Già Etienne Wenger ci ha introdotto alle comunità di pratiche. Oggi nelle attività di sviluppo organizzativo da me gestite il lavoro tra pari ha un ruolo sempre più importante.
Questo fenomeno pone il tema dell’identità individuale ed organizzativa. Se è vero che per anni abbiamo sostenuto il valore del costruirsi un’identità come elemento di riscatto rispetto alle anomie dei modelli tayloristi, oggi dobbiamo predisporre flussi contrari. Mi ha colpito la lezione del filosofo inglese Parfit ripreso in Italia da Bodei che suggerisce il valore del superamento dell’identità. Il noi dopotutto è un elemento ostacolante alle dinamiche integrative che la complessità propone. Dire “noi” produce una contrapposizione che può essere conflittuale verso chi è escluso: i commerciali contro i produttivi, le sedi centrali contro le periferie. Nel mondo che abitiamo la condivisione delle conoscenze con le logiche bottom up pone il problema di immergere i propri saperi in un brodo digitale che ce li restituirà trasformati forse irriconoscibili. Questo significa mettere in discussione i processi di simbolizzazione collegati al lavoro di cui parla Jaques fondatore della socioanalisi. Parfit ci invita con lo slogan “identity doesn’t matter” a sganciare l’identità dalla continuità psicologica del passato e a riconoscere i legami “R” che ci connettono con gli altri. Sia chiaro: è necessario mantenere uno sguardo critico verso tutti questi approcci che alla fine fanno l’interesse del padrone. Lui ha tutto l’interesse che noi mettiamo in circolo le nostre conoscenze: in questo modo potrà più facilmente rifiutarsi di riconoscerle e quindi non pagarle. Tuttavia colgo anche il punto di svolta per uno psicosocioanalista come me che ha sempre messo al centro il puer e l’autenticità. Ricordiamoci che proprio questa ricerca personale crea le condizioni per diventare ciò che si è e quindi liberi da schemi provenienti dall’esterno.
Ho recentemente conversato con una giovane e brillante allieva del nostro Master in Ariele in merito a questo. Noi “vecchi” abbiamo una tara, che è la nostra stessa età. Un giovane 30 enne oggi è più o meno libero di un trentenne poniamo di venti anni fa? Se guardo le analisi sociologiche apprendo che la Y generation è molto meno vittima di me, di noi, delle ansie di prestazione, carriera, sviluppo professionale. I giovani sono molto più capaci di mettere limiti e dire basta lavoro! In questo senso sono molto più liberi. Eppure questo tempo caratterizzato dal trionfo delle possibilità (dal chiosco di gelati a Frosinone al corso ad Harvard) rende tutto molto più difficile. Se tutto o quasi è possibile, cosa è mio e cosa non lo è? Il rischio di smarrirsi, entrare in confusione è forte. Di fronte ad una tavola imbandita bisogna imparare a trattenersi a non essere ingordi, pena l’indigestione. Oppure, al contrario, costringersi a mangiare qualcosa perché non esiste il pasto perfetto.
Nella grande confusione che sta emergendo ci sono comunque momenti di verità. La vita professionale sincopata e specialistica disabitua la gente a riflettere. Di fronte a lezioni dense gli sguardi si alzano, i volti si riempiono di interrogativi, le parole liberano ampie considerazioni. Scatta ancora la magia di un tempo, ma con più intensità, come elargendo acqua ad un gruppo di assetati che ti accolgono come un’oasi, nell’aridità del business e della performance.
Dunque oggi più che mai per i formatori deve essere alta la tensione verso la qualità e la distintività.
Mi fermo qui sperando di aver dato almeno un piccolo contributo.

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