Contributi

Un punto di vista sull’arte

di Giorgio Ortu 15 Luglio 2015

La teoria può mobilitare masse intere per una rivoluzione politica (la Teoria marxiana), o per contribuire a una rivoluzione di costume (la Teoria psicoanalitica freudiana). L’arte invece agisce sull’individuo, sul soggetto singolo, ma può cambiare la vita, come accade per esempio a molti dopo aver letto un romanzo, aver visto un film o aver ammirato un dipinto. Questo accade perché la teoria è funzionalmente vicina agli schemi (quelli logici, non quelli adattativi della vita immediata), mentre l’arte è vicina al simbolo. E così come gli schemi logici (quelli per intenderci di cui sono molto dotati matematici, scienziati e logici) sono “razionali” -sebbene in gran parte inconsci-, e usano il pensiero per avviare e concludere catene di ragionamenti causali, e dunque entra in giuoco la “verità” (che può appunto mobilitare masse); il simbolo non ha a che fare con la logica, -la sua “verità” è data dalla funzione non dall’oggetto, nel senso che una “storia” in letteratura assume delle tipicità umane possibili, quindi eventualmente particolarità non ancora diventate tipiche, e “funzionalmente” esprime la realtà. Il simbolo in letteratura ha quindi una natura indeterminata (cioè “aperta”) e concreta -natura che gli dà energia-; è costituito di unità dinamica e immediatezza, e agisce in genere sul singolo individuo -spesso in modo inconscio sulla coscienza, inducendo pensieri o immagini, ma anche comportamenti-, appunto perché la sua “totalità” immediata ha a che fare con l’individualità, e fenomenologicamente anche la definisce in termini di autocoscienza -e quando agisce sulle masse, come nel nazifascismo, il simbolo è distruttivo perché ne annebbia il cervello rendendole devastanti e cieche macchine da guerra criminale; e ciò accade per la ragione che la “totalità immediata” che lo distingue -in questo caso il simbolo della guerra e della contrapposizione, della razza-, quando siamo in presenza di masse, “salta” dal singolo individuo alla massa come per “magia” investendo appunto la totalità psichica della massa, che quindi può essere considerata una unità quasi indifferenziata, “fusa” insieme appunto dal simbolo. Il problema allora è come evitare che i simboli prodotti dall’arte diventino pure essi di massa o collettivi, e che stravolgano quindi in modo inconscio la totalità immediata dell’autocoscienza dei soggetti.

Questo è un compito dell’arte, ma anche della filosofia. E la filosofia dice che ciò si può evitare non introducendo dall’esterno gli schemi (logici) nell’arte, la presunta verità nell’arte, appunto perché, nel caso contrario, accade che l’arte perda la sua immediatezza e diventi “astratto pensiero” o “ideologia” mistificante in senso marxiano: vale a dire che un’arte con schemi logici esterni può sconvolgere l’individualità del soggetto che la recepisce producendo una contraddizione al suo interno, tra il vissuto immediato (il simbolo) e l’astratto schema logico, riportando il soggetto direttamente nel collettivo senza individualità, contraddizione che può appunto risultare devastante per l’equilibrio psicologico. -Per esempio, il Manifesto del Futurismo di Marinetti è un tipico esempio di questo procedimento, e dovette sconvolgere molte persone quando apparve, ma riletto oggi per fortuna si manifesta in tutta la sua follia delirante e idiota. Ma anche in Céline si nota questo “rapporto” schema-arte, e quindi anche lui ha potuto, e potrebbe, produrre dei simboli collettivi con la lettura delle sue opere, simboli devastanti. Allora lo schema si può unire all’arte se risulta aderente alla narrazione, cioè se nasce naturalmente dalla narrazione, come in Conversazione in Sicilia di Vittorini; e non diventa invece un “proclama” a essa giustapposto, come in Céline, dove, in Viaggio al termine della notte, per es., lo schema logico risulta esterno e contradditorio rispetto alla narrazione, quando al disgusto per la violenza della guerra si giustappone lo schema del proclama razzista. (Il nazismo condannò le avanguardie come “arte degenerata”, e propugnò un’ “arte” figurativa e letteraria dove lo schema “logico” della propaganda si unisse al simbolo con immediatezza -fatto che certamente contribuì a “sbilanciare”, insieme alla repressione poliziesca feroce e al resto, la mente dei tedeschi rendendoli bravi seguaci di Hitler ). E tuttavia, fuori dall’arte, i simboli sono quasi naturalmente “collettivi”, sociali, come per esempio il simbolo della pace, potente, quello della solidarietà umana o della contrapposizione tra soggetti, o ancora, quello della guerra, capace anche, purtroppo, di coinvolgere masse intere “deliranti”; o il simbolo della “libido” in senso junghiano, come energia più totalizzante del significato freudiano di libido.

Ma partiamo da lontano. L’uomo ha una natura fondamentalmente sociale. Ma questa socialità ha una storia, ed è passata attraverso vari momenti anche in opposizione l’uno all’altro. E’ addirittura dal Neolitico che l’individuo singolo, il soggetto, comincia ad avere problemi con la società o la comunità più vasta di appartenenza. Col Neolitico infatti giunge a formazione il linguaggio astratto, cioè un linguaggio (quello che ancora oggi noi parliamo) che si forma -grazie a uno schema mentale inconscio- isolando settori di realtà, frantumando astrattamente la realtà immediata in unità semplici o poco complesse attraverso l’invenzione dei nomi o universali linguistici -veri a priori kantiani- e il mondo che quello restituisce è un mondo stabile e ordinato, organizzato: per questo allora è potuto nascere il villaggio artificiale, l’agricoltura, l’allevamento e l’artigianato, e la lavorazione dei metalli un paio di millenni dopo, che presuppongono appunto l’ordine e la misura, che quindi preesistono alla realtà oggettiva. Tutto ciò -vale a dire l’ingresso in un mondo artificiale- ha permesso a determinati singoli soggetti di emergere via via da quel “grumo” inconscio, denso e coinvolgente di simboli collettivi (la pace e la guerra, l’uomo e il Cosmo, gli dèi, la ”divinità” della natura, ecc.), che si individueranno sempre di più precisandosi e albergando stabilmente nella coscienza, e valori collettivi (la tribù, quindi il popolo nello Stato, la divisione della ricchezza, il sacro e i sacerdoti…), di cui la comunità era portatrice, ma creando in tal modo una dissociazione all’interno della società-comunità. Creando problemi a certi soggetti dotati di maggiore o diversa sensibilità, dissociandoli cioè dal gruppo sociale più vasto -certo non siamo ancora al soggetto borghese che viene alla luce in Europa Occidentale in età moderna, ma il processo è avviato. E tale processo sarà ancor più evidente appunto con la nascita delle prime Civiltà, dove l’individuo dissociato tenderà a diventare, per un processo psicologico di difesa, in forme ancor più accentuate, o “mago-indovino” o “artista”. In genere l’artista in questa sua attività iniziale ha una specie di senso di colpa per essersi staccato dal collettivo, a cui tenta di rispondere cantando ed esaltando le gesta del suo popolo, per cui la comunità gli sarà grata. E l’artista così rientra per un’altra via nei valori del collettivo, sia pure con un’individualità più marcata rispetto agli altri componenti della società.

Ma quando l’opposizione individuo-società -che produce l’artista segnato dal senso di colpa in prima istanza- si accentua ed esaspera, e la distanza tra alcuni individui-artisti e la società si fa più intensa, ecco che allora l’artista non ha più solo un senso di colpa per essersi separato dal sociale già in passato, ma acquisisce anche un senso di inferiorità verso il gruppo sociale-collettivo, e ciò a causa del fatto che l’opposizione suddetta si esaspera a livello personale, nella psiche, ed è quindi una lacerazione tutta interna al soggetto, che manifesta il contrasto estremo tra la sua natura sociale -che lo farebbe tendere a una totale identificazione col collettivo- e la sua soggettività emersa -che lo induce a un’esistenza autonoma dal gruppo sociale-collettivo. Questa lacerazione fa prevalere via via nell’artista fino ai nostri giorni il senso di inferiorità su quello di colpa, perché appunto egli si percepisce sempre più isolato dal contesto sociale, e sarà proprio tale senso di inferiorità, in forme più o meno consapevoli, che indurrà l’artista –per un processo di difesa psicologico- a produrre opere “rivoluzionarie” e anti-sistema (o sistema di valori conservatori che diventano facilmente dei fossili), in nome appunto della salvezza dell’individualità dai fagocitanti valori sociali dominanti. Cioè, l’artista percepisce se stesso “fuori” dalla società, e contesta quest’ultima perché la vede come causa dello “stritolamento” del soggetto. Quindi la creatività esiste perché il senso di inferiorità esiste, e non è né possibile, né concepibile la prima senza la spinta del secondo.

Dalle avanguardie del primo Novecento, passando per Joyce e Kafka, fino ad arrivare a Beckett: da Th. Mann a Musil (e la presunta “teoria” o i presunti schemi logici, quindi la potenzialità dei simboli a diventare collettivi, presenti nei “romanzi-saggio”, sia di Musil che di Th. Mann, sono oscurati dall’uso dell’ironia fatto da questi due scrittori); e da Vittorini a Koestler, fino a De Lillo, in generale è tutta un’esaltazione della libertà umana (escluso ovviamente il risultato cui giunse il futurismo italiano); che non è riuscita purtroppo a evitare i fascismi, né gli artisti russi sono riusciti a impedire che la rivoluzione bolscevica degenerasse in dittatura. Ma queste sono tutte opere che rimangono, sono un’attività intellettuale che resta.

Se quindi la natura sociale dell’uomo oggi è messa a dura prova, e la società e l’individuo stanno in un rapporto di equilibrio molto precario, allora la tendenza delle società, di certi Stati, in questi primi decenni del XXI secolo, sembra essere quella di ridurre gli spazi di libertà dei soggetti, in gran parte scissi dalla società più vasta, per costituire infine una società simile a quella delle termiti, dove il singolo è interamente oscurato dal collettivo e al servizio del collettivo, cancellando in tal modo ogni creatività soggettiva. In sostanza si tratterebbe dell’idea folle di annullare, dopo averlo stritolato, l’individuo per “salvare” la società. Ma la società si può salvare solo salvaguardando la piena soggettività e integrandola alla perfezione in sé: totalità dinamica e articolata. Perciò la persona dell’artista, insieme alla buona politica democratica, alla filosofia e alle mobilitazioni democratiche dei popoli, è fondamentale per contrastare questo tentativo di certo Potere -sia esso inconscio o conscio-, che sfrutta spesso tendenze oscure presenti nella società. Perché appunto l’arte ha avuto storicamente la funzione di sanare l’opposizione individuo-gruppo sociale, riconciliando la natura sociale dell’uomo (non solo del singolo artista, ma pure di altri soggetti presenti in società) con la sua individualità, e ciò grazie ai simboli di cui è portatrice (simbolo della libertà, della lotta contro il destino, dell’amore e dell’odio, del caos in cui certe vite vengono gettate e della casualità, dell’intreccio e del groviglio delle relazioni interpersonali, della fortuna e sfortuna, ecc.), tutti simboli la cui totalità immediata connette un soggetto consapevole al gruppo sociale, simboli la cui funzione connettiva esiste anche per contro quando la storia narrata sradica l’individuo dalla socialità -come accade per esempio ne Il castello di Kafka, o nello Straniero di Camus. . E oggi questa funzione è ancor più importante perché l’artista ha a disposizione nuovi strumenti, e quindi ha la possibilità con le sue opere di mantenere o ricostituire l’equilibrio della parte (l’individuo) col tutto (la società), contribuendo a creare, con altri attori sociali veramente interessati al progresso del popolo, una vera comunità, dove i soggetti siano consapevoli di sé, liberi e creativi. Dove quindi l’azione dell’arte, per il tramite del simbolo, sull’individuo singolo (su tanti individui singoli) agisca riconciliando quest’ultimo col gruppo sociale più vasto. L’arte quindi salva, salva i singoli soggetti dalla dispersione delle loro menti nel burrascoso mare di una società frantumata e violenta, ricostituisce l’unità psicologica del soggetto, forse più e meglio di ogni terapia analitica.

L’arte in sé allora non è fascista o nazista, e quando lo è si tratta di “arte” con molta “teoria” inconscia dentro -cioè con schemi-, (non fu l’arte che diede direttamente il potere ai nazisti, ma la propaganda politica dove la “teoria” o gli schemi erano giustapposti a un simbolismo rozzo e primitivo). L’arte quindi è “anarchica” (non nel senso deteriore del termine, cioè disordine, ma dell’autentico dispiegamento di tutte le facoltà del soggetto), libera e liberatoria. E la società nel suo insieme dovrebbe tornare a essere grata agli artisti (scrittori e poeti, ma non solo), perché essi operano per la libertà di tutti, come pure faceva in altre condizioni storiche quando la soggettività non era ancora piena e la sua funzione era quella di cantare le lodi delle gesta dei popoli.

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