Conversazioni

Libertà e autenticità nel mestiere di formatore

di Simonetta Simoni 28 Agosto 2015

Lavoro in contesti formativi da più di vent’anni in diverse realtà, dal settore pubblico alle aziende all’università: sono sempre stata interessata alla diffusione e divulgazione di teorie, metodi, esperienze grazie alle reti di pensieri e idee nati dall’interazione di persone che condividono quel contesto “artificiale” che sono le aule dei corsi di formazione.

Condivido le osservazioni di Varanini sulle angustie della formazione, ho toccato con mano a più riprese il ritualismo e il gioco delle parti di certe interazioni codificate, ma sono sempre stata convinta che molto possiamo fare per mantenere alta l’attenzione al tema della libertà, al rispetto delle menti e intelligenze di tutti coloro che ruotano intorno a quelle ore di incontro tra soggettività e organizzazioni. La formazione resta un’etichetta polisemantica dove la differenza, mi ripeteva qualche giorno fa la responsabile del personale di una grande azienda italiana, la fa, ancora e davvero, il formatore. In questi anni mi sono spesso chiesta se e come rispondere alla svolta normalizzatrice della formazione, alla pressione delle richieste di adeguamento, lavorando in modo da non tradire alcune “promesse di libertà” che ho fatto a me stessa tanti anni fa e che ripeto, in forme diverse e con gruppi diversi, ad ogni nuovo “patto formativo”. Si tratta di misurarsi con quel tipo di richieste aziendali, mantenendo aperto uno spazio di possibilità dove la formazione non equivalga a rinuncia alla complessità, dove metterci al servizio di obiettivi di apprendimento e di crescita di autostima dei singoli, di pensiero sistemico che nasce e si sviluppa tra persone potenzialmente interessate a mettere in gioco ciò che fanno e ciò che sanno.

Come attraversare il mare dei luoghi comuni della formazione, evitando scorciatoie, furbizie e compiacimenti, o il ricorso a facili ricette e vademecum rassicuranti che alzano i voti di gradimento? Sono in grado assumermi il rischio degli inevitabili errori che farò con scelte coerenti a tali premesse?

Se ci sono riuscita, ogni volta che ci sono riuscita è grazie all’attenzione, all’ascolto e all’uso di un linguaggio estraneo alla facile manomissione di parole (parafrasando Carofiglio) e idee depotenziate con un uso sciatto, gergale e da “mestieranti della formazione”. Ci prendiamo così cura della vita della mente (dal titolo di un bel libro di Luigina Mortari), trasformando e forzando i vincoli, i riti, e le angustie, grazie ad interrogazioni diverse: quelle del conoscere (com’è fatto il mondo?), quelle del pensare (che senso ha? Che senso gli do? Che senso gli diamo?) e quelle della vivibilità del lavoro (quali sono le condizioni ambientali che rendono possibile/sopportabile/soddisfacente la vostra vita lavorativa e organizzativa?)

Senza dare per scontato che questi siano bisogni estranei al mondo aziendale. Mentre scrivo sto ascoltando l’intervista radiofonica ad un manager di una multinazionale che racconta di trovar sostegno e consolazione, rifugio dallo stress nella lettura del Paradiso di Dante, durante i viaggi in metropolitana da casa a ufficio e ritorno. Un caso unico ed eccezionale?

A me pare che tenere insieme libertà e formazione in un mondo di conoscenza diffusa come quello odierno non richieda solo consapevolezza delle connessioni e delle attivazioni in uno spazio (angusto, sì, ma non impossibile), ma anche altre qualità come umiltà, curiosità, coraggio e autenticità di una ricerca collettiva, umana, professionale e organizzativa.

Umiltà e curiosità di professionisti riflessivi alla Schön, capaci di mettersi al servizio del sistema cliente, di arricchire e trasformare i nostri strumenti e metodi in una cornice di coevoluzione e di co-costruzione dell’intervento formativo. Molto diverso dal professionista esperto, detentore e applicatore di metodi acquisiti con master, titoli di studio e lunga esperienza sul campo a cui delegare interventi per la soluzione di problemi, colui che crea “dipendenza” nel sistema azienda attraverso la dipendenza delle persone con cui fa formazione e consulenza.

Coraggio di dire tanti no: non assecondare le derive dell’adeguamento a tutti i costi, non replicare schemi noti, non manomettere le parole con facili banalizzazioni, non fingere di sapere anche quando gli imprevisti cambiano il percorso intrapreso.

Autenticità, infine. Un lusso? qualcosa che forse in pochi si possono permettere e che è molto legato alla libertà. Come ci indica la filosofia del Novecento (ripresa da Vito Mancuso in un piccolo denso saggio di qualche anno fa) l’uomo raggiunge l’autenticità “appropriandosi di sè in un progetto di esistenza”, alla ricerca di libertà e di armonia, di equilibrio e coerenza tra esteriorità (parole e azioni) e interiorità (intenzioni e sentimenti), guidato da valori di relazione che trascendono le meschinità di un io egocentrico. Inautentico, al contrario, rimanda a falsità, a menzogna, ad inganno e, in chiave psicoanalitica, ai comportamenti difensivi per evitare aspetti della realtà che potrebbero creare angoscia. Certo, nella comunicazione umana esistono tante situazioni ambigue in cui risulta difficile tracciare confini netti tra ciò che è autentico e ciò che non lo è, ma ognuno di noi formatori ha in mente almeno un esempio in cui ha sperimentato la mortificazione o, viceversa, la soddisfazione di relazioni in cui fosse tale qualità a fare la differenza.

Viene spontaneo domandarsi: ci sono organizzazioni dove è possibile esprimere, realizzare (almeno in parte) un progetto di vita autentica anche nel lavoro? Quali compatibilità tra tensione soggettiva all’autentico e realtà aziendale?

Concludo proponendovi un aggettivo inventato da Kets De Vries, studioso delle dinamiche organizzative, il quale definisce authentizotic quelle imprese che si distinguono per ricerca di autenticità unita a vitalità, e che permettono alle persone di sentirsi animate, immerse in un flusso di attività di cui percepiscono il senso, un senso di cui si sentono creatori e autori nel quotidiano. A me piacerebbe coniugare sempre (o quasi) libertà ad autenticità nel mio lavoro, con le aziende e le persone che incontro. In dosi omeopatiche, per iniziare.

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consulente e formatrice, fino a qualche anno docente a contratto di Organizzazione dei servizi.

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