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Informatica. Una lettura di ‘Macchine per pensare’

di Piero Trupia 05 Luglio 2016

Nel suo Macchine Per Pensare. L’informatica come prosecuzione della filosofia con altri mezzi (Guerini e Associati, 2016), Francesco Varanini propugna un computer non protesi, non oracolo, non correttore del pensare umano, ma tutore di una ragione individuale che fa da se, avvalendosi di un nuovo potente aiuto, tra i molti di cui già dispone, per far fronte all’emergenza della vastità del mondo delle fonti, archiviate e non. Non archiviate quelli considerate rumore di fondo o ridondanza dagli imperscrutabili archivisti in carica.

Il racconto di Francesco può essere visto e vissuto come l’epopea della ricerca della forma perfetta del pensiero umano. Questa epopea può essere valutata e vissuta secondo due prospettive, come nell’Iliade, quella dei Troiani e di Ettore, vittime, e quella degli Achei e di Achille, vincitori. Ma può essere vista anche come un classico romanzo di formazione, un’autobiografia intellettuale, vista attraverso il prisma dell’organizzazione del pensare e sfociata nell’informatica. Questa, a sua volta, può essere, ed è stata, istituzione totale, sistema chiuso e formalmente amministrato, o può essere pensiero libero, creativo, poiesis. In Macchine Per Pensare lo scioglimento della narrazione è un’informatica di aiuto alla poiesis.

Francesco ci mostra che anche in tale veste l’informatica può essere una delle possibili realizzazioni della Characteristica Universalis di Leibniz, fondata sulla Mathetis del mondo, il suo scheletro grammaticale. Leibniz, saggiamente, rinunciò alla fine alla riduzione del pensiero alla grammatica e ciò, è lecito pensare, a seguito di una valutazione del suo Principio di Ragion Sufficiente: ”Ogni cosa ha in se o fuori di se la ragione della sua esistenza”. Il “fuori” gli parve sfuggire alla ricorsività di una ragione immanente; lo vide collocato in un mondo altro sulle cui rive la ricorsività si arena. Un Leibniz, questo, derivabile da quel Cartesio, il cui ego vide un mondo che trascende lo stesso ego che vede, il mondo del sum.

Ho seguito il lungo e sinuoso percorso di Francesco, restando incollato alle sue spalle fino allo scioglimento felice del racconto, quel computer personale che non è protesi, non è oracolo; è semplice e prezioso tutore, uno dei tanti aiuti di cui l’uomo da sempre si avvale, dall’abaco alla tavola pitagorica, alle tavolette di cera o di argilla.

Ho seguito Francesco passo passo nell’affascinante lettura. Solo una volta ho tentato un sorpasso, al momento dell’incontro con Heidegger con il quale ho un conto personale in sospeso.

Anche Francesco, del resto, ha espresso un dubbio, laddove ha notato che “il modo di esprimersi di Heidegger è […] oracolare, esoterico. Forse non può essere altrimenti: si propone di gettare luce nell’oscurità.” Subito dopo la spiegazione heideggeriana di una di queste pronunce oracolari, anch’essa però oracolare: “In quanto esercita la tecnica, l’uomo prende parte all’impiegare come modo dello svelamento”. (p. 267).

Per cercare di capire, occorre fare un passo indietro, tornando a p. 260. Qui Heidegger distingue tra l’ontologia della “cosa” e quella dell’artefatto-utensile. La “cosa” è “inanimata, fredda [è] natura morta”. Al contrario, le cose che sono artefatto-utensile (Zeug) “sono calde, dotate di senso, non per loro natura o per intrinseco sviluppo , autoregolazione o evoluzione. Acquistano senso solo per via dello sguardo umano, solo in virtù della costante attenzione umana.” (parole di Varanini, pp. 260-61).

Torniamo a Heidegger. “È il martellare stesso a svelare la specifica <maneggiabilità> del martello. Il modo di essere dello Zeug tramite il quale palesa se stesso, lo chiamiamo la sua Zuhandenheit. […] Allo sguardo che vede solo <teoricamente> le Dinge (cose), fa difetto la comprensione della Zuhandenheit. (p. 261). Altrove Heidegger dice che la Zuhandeheit svela l’essere delle cose. Troppa grazia! Il martello, se bene usato, esprime la poiesis (il fare) dell’uomo. Gli Zeug sono radicati nella potenzialità della natura, nella sua mathesis e non potrebbero esprimerla, se non ci fosse una continuità ontologica tra la mathesis e tutte le Dinge (cose). Questa osservazione inficia alla base il ragionamento heideggeriano. Non esiste la cosa fredda e la cosa calda. In natura ogni cosa è in se stessa Zeug. Una pietra, un pezzo di legno non sono inerti. Sono espressione di una struttura complessa e ordinata che ne determina le caratteristiche e, da subito, l’impiegabilità. Per il geologo una pietra è un mondo di molecole, atomi, particelle subatomiche, energia, cristallografia. Idem il legno per il botanico.

A parte queste postille pignole, il poema-romanzo di Varanini va letto e studiato, in cammino con lui fino al lieto fine che non è di fantasia, ma scientificamente fondato. L’uomo ritorna padrone della tecnica. Se vuole.

P. S. Avendo studiato geologia, ho a casa un collezione di minerali, cristalli, pietre. Visitabile.

Autore

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Piero Trupia. Linguista, cognitivista, filosofo del linguaggio. Studi di matematica, economia, scienza della politica. Dirigente industriale fino al 1996. S’interessa di arte figurativa che studia e colleziona. Il suo approccio critico si avvale delle forme più avanzate di semiotica e semantica della figura. In materia ha pubblicato saggi nella collana Analecta Husserliana, Kluwer, Dordrecht, Nederland. Appena uscito, Piero Trupia, Perché è bello ciò che è bello. La nuova semantica dell’arte figurativa. Con un saluto di Santo Versace e una riflessione di Renzo Piano, Franco Angeli 2012. Blog La Chimera: http://pierotrupia.blogspot.com

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