BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 12/09/2011

FLESSIBILITA' E DEMOCRAZIA ECONOMICO-INDUSTRIALE: COME LE ORGANIZZAZIONI EVOLVONO

di Luigi Adamuccio

La flessibilità spesso diventa l'arma migliore per sconfiggere il destino avverso. Esattamente come il giunco che sotto i forti venti si piega proprio per non spezzarsi
Anonimo

La democrazia è la peggiore forma di governo tranne tutte le altre
Winston L. S. Churchill

La nota crisi economica che, in questi mesi, sembra mettere in discussione anche la sovranità di alcuni stati europei potrebbe non essere un fenomeno passeggero ascrivibile solo alla categoria della periodica “speculazione finanziaria”; quella pericolosa speculazione che dopo la Grecia si è concentrata sul nostro Paese che ha il debito pubblico (circa 2mila miliardi di euro) più elevato in rapporto al suo PIL ed alla quale si è riusciti a fare fronte unicamente con l'aiuto della BCE. La speculazione, intesa come attività finanziaria volta al raggiungimento del massimo profitto in rapporto alle fluttuazioni dei prezzi indotte nel mercato, non è una novità: esiste da decenni e si concentra proprio sui mercati finanziari, essendo parte integrante del meccanismo di accumulazione del capitale. Il vero problema che dovrebbe portarci a riflettere è che i mercati percepiscono con anticipo i processi di disgregazione dei sistemi economici o statali. Siamo ad un passo dalla recessione economica ed il sistema economico italiano sembra un banchetto appetitoso (relativamente facile da scalare sopratutto se i prezzi della azioni quotate non riusciranno a venir fuori dal vortice dei successivi ritocchi al ribasso), alla mercé di investitori, molti dei quali senza scrupoli. Il sistema agroalimentare è già passato ai francesi, molte grosse aziende si spostano in altri stati, i board delle principali banche o società assicurative parlano ormai straniero.
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La persistente crisi economica e le profonde trasformazioni sociali e demografiche che interessano il mondo occidentale, ed il nostro Paese in particolare, mostrano in maniera evidente come, per fronteggiare le sfide di un ambiente di riferimento sempre più turbolento, con una concorrenza globale sempre più aggressiva, alle aziende non resti che la progettazione di strutture il più possibile snelle e piatte.
Inoltre, l’evidente carenza di valori etici che ha dato origine alla crisi finanziaria ed economica che stiamo vivendo dovrebbe farci riflettere sulla necessità di un maggior coinvolgimento dei lavoratori alla vita dell’impresa.
Sullo sfondo di una situazione economico-finanziaria densa di incognite ed incertezze, ricomincia, pertanto, a prendere rinnovato vigore il vecchio dibattito sui correttivi più opportuni da apportare all’ordinamento liberista-capitalistico.
La cura che attende l’economia, si dice da più parti, è la definizione di una politica economica che innalzi sensibilmente la produttività di tutti i fattori. La crisi, si aggiunge, va affrontata con interventi radicali, cambiando il rapporto-conflitto tra capitale e lavoro: oggi, infatti, il rischio d’impresa è tutto sull’imprenditore.
Diventa necessario un contributo, in tale direzione, anche da parte dei lavoratori.
Ma come e in quale misura?
Per alcuni, addirittura, andando ad intaccare diritti acquisiti in anni ed anni di lotta e di conquiste.
Le imprese, dal canto loro, oltre che guardare all’efficienza di costo ed alla gestione attiva degli investimenti, devono cercare di non rallentare eccessivamente l’innovazione, di trovare nuove strade per soddisfare i bisogni dei consumatori, di sfruttare pienamente le tecnologie informatiche e di conciliare l’attenzione di lungo termine sulla missione e sull’identità di impresa con la rapidità di risposta ai cambiamenti esterni. Non è in gioco la corretta conduzione di questa o quell’impresa ma il destino del nostro Paese.
I giovani, poi, vivono più degli adulti l’incertezza e la precarietà dell’attuale momento ed avvertono il futuro non come un’opportunità ma come un’incognita. Il mondo del lavoro è visto da loro come la città immaginaria di Anagoor , dalle alte mura che impediscono di scorgere all’interno l’esistenza di vita .
E’ assolutamente necessario, pertanto, creare un terreno di confronto e lavoro comune in cui  vadano riscritte le regole e ricercati adeguati strumenti di politica attiva del lavoro e manageriali, ma ad una condizione, a mio avviso, essenziale: la salvaguardia di alcune garanzie poste a beneficio dei lavoratori, di tutti i lavoratori, sia quelli che hanno già un contratto di lavoro a tempo indeterminato che gli altri.
Nuove sfide di democrazia economica
Cominciamo con il dire che un maggior coinvolgimento dei lavoratori alla vita dell’impresa permetterebbe di dare piena attuazione:

Non so quali possano essere le connessioni o quanti siano i punti di contatto tra le due problematiche e quali siano state le responsabilità degli imprenditori e dei sindacati nel momento in cui nulla hanno fatto, in passato, affinché fossero emanate leggi che dessero attuazione alla citata norma costituzionale .
Il fatto certo è che:

Un lavoro, dunque, nel quale pare più che opportuno investire tempo e risorse, anche per non compromettere irrimediabilmente il futuro dei giovani che si affacciano nel mondo del lavoro, è quello della ricerca di modalità tese a: 

Punto di partenza un paio di certezze.
La democrazia economico-industriale:

I cambiamenti delle dinamiche relazionali tra capitale e lavoro hanno favorito la formazione di associazioni che perseguono lo scopo di tutelare gli interessi dei dipendenti azionisti, associazioni che dovrebbero, di conseguenza, favorire lo studio e l’avvio a regime di quelle tanto auspicate forme di co-partecipazione, da contrapporre ad un vento di pseudo-efficientismo che tende a minare i diritti dei lavoratori ed a far prevalere in azienda modelli operativi che concentrano sul top management le leve di governo per la massimizzazione dei profitti, escludendo i lavoratori da ogni scelta strategica.
Le organizzazioni “lean” e la porosità dei loro confini strutturali
Come ho già avuto modo di sostenere in altre occasioni, negli ultimi venti anni abbiamo assistito al sorgere ed all’emergere di imprese particolarmente agili, flessibili, pronte immediatamente ad affrontare ogni modifica organizzativa richiesta dalle evoluzioni del mercato, ma orientate ad ottimizzare solo i risultati a breve, votate soprattutto al perseguimento di obiettivi di carattere economico, identificati con il profitto da offrire agli azionisti, abbandonando ogni responsabilità sociale.
La grave crisi economica, originatasi negli Stati Uniti e succedutasi a quella creditizia e finanziaria, ha investito tutto il mondo economico, dimostrando in maniera inequivocabile che l’aver fatto, da parte di alcuni top managers e/o amministratori delegati, della finanza e del profitto tout-court gli unici obiettivi del nostro agire è stato un errore gravissimo.
Quello che non è eticamente corretto è lo scaricare sull’anello più debole gli effetti degli errori strategici commessi, andando ad intaccare diritti acquisti in anni ed anni di lotta e di conquiste dei lavoratori, a cancellarli dall’oggi al domani e a sacrificarli sull’altare di quella degenerata teoria manageriale che subordina il profitto ad una sempre più selvaggia deregolamentazione del mondo del lavoro.
Nulla questio, invece, sull’implementazione di strutture organizzative, peraltro solo relativamente nuove, in grado di esaltare la capacità di gestire flessibilmente gli organici, al fine di ottenere un equilibrio costante tra organico disponibile ed organico necessario e di legare una parte significativa della retribuzione all’andamento aziendale.
Stiamo parlando di quelle che la letteratura definisce le “lean organizations”, che si vengono a delineare in conseguenza di interventi di revisione dei processi aziendali e della loro semplificazione operativa, gestionale e di controllo.
Queste “lean organizations”, rompendo con la visione tradizionale del lavoro subordinato, presuppongo una gestione ed una politica dell’impiego completamente diversa e flessibilizzata (v. figura).

Ma non dimentichiamo che, in questi modelli, in cui la filosofia di fondo è quella del lavoro di gruppo e tutti i collaboratori, indipendentemente da ruoli e gerarchie, devono farla propria ed interiorizzarla, si presuppone un aumento della delega (e non solo delle responsabilità) ed un decentramento del processo decisionale.
La flessibilità nell’uso del lavoro è, in un certo senso, il “prezzo” da pagare in molti settori per restare sul mercato e salvare il salvabile, ossia il “sacrificio” che viene chiesto ai dipendenti e, per loro, ai sindacati per non rischiare di buttare via, come si suole dire, insieme all’acqua sporca anche il bambino.
Occorre, infatti, entrare nella logica secondo la quale il lavoro subordinato deve, purtroppo, restare solo per uno staff limitato di lavoratori, qualificati dalle loro competenze, da occupare nelle attività “core”, primarie, non esternalizzabili.
A fronte di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, stabile, a questo staff di collaboratori viene richiesta la massima disponibilità, flessibilità, multifunzionalità , in modo tale che, al variare delle esigenze aziendali, lo stesso sia disponibile ad operare e capace di impegnarsi in mansioni o posizioni lavorative sempre diverse, ben oltre, qualora occorra, il normale turno di lavoro. E parte dei contratti collettivi, in fase di rinnovo, prevedono proprio l’introduzione di specifiche clausole in tale direzione.
Attorno a questi lavoratori dipendenti, caratterizzati e qualificati dalla loro elevata flessibilità e capacità di adattamento al cambiamento, ruotano gruppi professionali più o meno nutriti e saldamente agganciati all’azienda, quali, ad esempio, lavoratori part-time od occasionali, lavoratori temporanei, fornitori esterni con contratto di appalto, partners e consulenti.
Altri modelli con unità autonome, focalizzate e ad approccio imprenditoriale spinto
Accanto a queste soluzioni, la c.d. “terziarizzazione” di interi comparti, che trasferisce all’esterno attività e competenze marginali, mantenendo all’interno dell’azienda il governo strategico delle stesse, sta assumendo sempre più consistenza, proprio in ottica di “cost saving” ed al fine di  accrescere i margini di flessibilità, con contestuale trasformazione di alcuni costi fissi in costi variabili .
I vantaggi derivanti da tale specifica scelta organizzativa possono essere così sintetizzati:

Anche il modello che sta prendendo piede di recente, il cosiddetto “modello a rete”, altro non è, a ben guardare, che una forma particolare di affidamento di comparti all’esterno.
Detto nuovo modello strutturale si caratterizza per le seguenti peculiarità:

A fronte di una necessaria leadership forte a livello centrale e di necessarie competenze e figure imprenditoriali diffuse,  il “modello a rete” presenta i seguenti punti di forza:

A tale nuovo modello sono sostanzialmente riconducibili le seguenti strutture organizzative:

Le difficoltà di attuazione pratica
Tutte le aziende, private o pubbliche, produttrici di beni o servizi, di dimensioni ridotte o più ampie, a causa della crescente pressione competitiva, proveniente soprattutto dai mercati esteri,  sono chiamate a  predisporre programmi di cambiamento organizzativo che ricerchino economie nell’impiego della forza lavoro e permettano di raggiungere migliori risultati dal punto di vista reddituale.
Non avvertire quest’esigenza e, quindi, gli stimoli esterni che, in un quadro di crescente e generalizzata attenzione ai costi operativi, premono per una maggiore flessibilità ed efficienza, significa avviarsi irrimediabilmente verso il proprio declino.
Lo sviluppo di capacità, fino a pochi anni fa anche impensabili, in grado di elaborare risposte rapide, alle volte anche anticipando le tendenze, diventa, dunque, un obiettivo che assume un ruolo centrale e strategico nelle decisioni dei vertici aziendali, da perseguire tenacemente.
Ma ancorché la flessibilità organizzativa appaia come il più importante punto di riferimento nell’evoluzione delle strutture organizzative, non esiste una soluzione  preconfezionata  per raggiungere l’obiettivo in modo semplice e con il minimo dispendio di energie; neppure la teoria economica e quella manageriale può accorrere in soccorso di chi è chiamato a prendere una tale decisione.
La scelta macro-strutturale di un modello organizzativo piuttosto che un altro (struttura orizzontale per processi piuttosto che a matrice, struttura a rete dinamica piuttosto che funzionale), così come la soluzione di affidare in outsourcing interi comparti “no core”, sicuramente aiuta.
Così come un’evoluzione normativa, come quella che ha caratterizzato questi ultimi anni, che, ispirata ad un utilizzo il più razionale possibile delle risorse umane, ha dato vita ad una feconda elaborazione di nuovi modelli persino per gli enti pubblici, fino all’ipotesi estrema, ispirata alle teoria del “New Public Management” , dell’“organizzazione destrutturata” o “evanescente” o “per obiettivi”, sulla cui concreta efficacia, tuttavia, è impossibile esprimere ora una valutazione.
Detto modello innovativo, infatti, sebbene sia compatibile con la normativa in vigore, incontra delle prevedibili difficoltà applicative dal confronto con le organizzazione sindacali ed è difficilmente attuabile per forti resistenze culturali. 
Di fatto, le strategie che, nell’ambito di un’azienda, si focalizzano sull’introduzione di un elevato grado di flessibilità richiedono una maggiore enfasi sugli aspetti che possiamo definire “soft” (cultura aziendale, meccanismi che fanno leva sul coinvolgimento nelle decisioni oltre che sulla motivazione individuale) rispetto a quelli “hard”, quali la scelta del più appropriato assetto organizzativo o del più razionale utilizzo di dotazioni strumentali (basti pensare all’investimento in ICT, leva, quest’ultima, insostituibile per aumentare la produttività dei singoli e dell’azienda nel suo complesso).
Ma se è vero che la partecipazione, la modularità e la duttilità gestionale possono diventare il vero volano di uno sviluppo equilibrato e duraturo, quali sono concretamente questi strumenti di flessibilità e quali i modelli di “democrazia economico-industriale”  da impiantare in Italia?   
Alcune leve di intervento  

Le azioni positive che, a mio avviso, dovrebbero essere poste in atto per affrontare adeguatamente le insidie di una crescita economica molto lenta e di una produttività troppo bassa per controbattere una crescente concorrenza di paesi a basso costo della manodopera od emergenti , sono le seguenti:

Tanto per non andar troppo lontani, le ripetute ondate speculative, tra fine luglio ed agosto 2011, hanno fatto bruciare miliardi di euro in poche giornate (molti più di una manovra economica poliennale), hanno portato alla resa dei mercati mobiliari tedeschi, francesi, inglesi ed italiani, e ad un sensibile deprezzamento delle azioni di molte nostre società quotate, rese in tal modo più facilmente scalabili da parte di finanzieri d’assalto. E’ in quei momenti che si apprezza pienamente, ad esempio, il modello delle nostre banche popolari, società cooperative con limiti al possesso azionario (diffuso tra soci in gran parte costituiti da dipendenti) e voto capitario;

A questi giovani mi verrebbe da dedicare i seguenti passaggi della canzone “Sogna, ragazzo sogna” di Roberto Vecchioni: “E ti diranno parole rosse come il sangue, nere come la notte; ma non è vero, ragazzo, che la ragione sta sempre col più forte; io conosco poeti che spostano i fiumi con il pensiero, e naviganti infiniti che sanno parlare con il cielo. Chiudi gli occhi ragazzo, e credi solo a quel che vedi dentro; stringi i pugni, ragazzo, non lasciargliela vinta neanche un momento (…) Sogna, ragazzo sogna non cambiare un verso della tua canzone, non lasciare un treno fermo alla stazione, non fermarti tu… (…) Lasciali dire che al mondo quelli come te perderanno sempre perché hai già vinto, lo giuro, e non ti possono fare più niente.”
Mai come ora è auspicabile, oserei dire persino assolutamente indispensabile, che anche in Italia diventi concreta la possibilità per i giovani di poter esprimere il loro talento ed il loro valore, a fronte di una classe dirigente, vecchia, che ha fallito in molti campi;

Tutte leve di intervento in gran parte in linea con i risultati, pubblicati di recente, dell’indagine condotta dalla società OD & M (Organization Design & Management) Consulting insieme ad Unioncamere, finalizzata a conoscere le politiche di gestione delle risorse umane ed organizzative utilizzate dalle imprese italiane (più di 200 quelle aderenti) in questo particolare momento congiunturale .


             “Le mura di Anagoor” è un racconto, tratto dall’opera di Dino Buzzati “Sessanta racconti”, emblematico del senso del mistero e dell’attesa, dell’ansia di un evento risolutore che non avviene. Centrale è  il paesaggio desertico, luogo di miraggi e di difficile sopravvivenza, cui si contrappone l’immaginaria città di Anagoor, presunta isola di felicità. Solo a qualcuno in passato è stato consentito di entrarvi. La metafora della situazione di chi è in attesa di debuttare nel mondo del lavoro possiamo dire sia abbastanza chiara: c’è una speranza di felicità in questo mondo o tutto è solo un miraggio?

             Nel recentissimo Rapporto sul "Mercato del lavoro 2010-2011", il CNEL mette in evidenza come (la rilevazione è al terzo trimestre del 2010) aumenti il numero dei giovani (tra i 25 ed i 30 anni) disoccupati "scoraggiati": il 28,8 % dei giovani non lavora e non studia (prima della crisi la percentuale era del 16 %); diminuiscono anche le trasformazioni dei contratti da tempo determinato a indeterminato (prima erano il 31 %, oggi sono appena il 22 %).

             L’art. 46 delle Costituzione così recita: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. 

             Basti pensare allo svuotamento prima ed alla successiva abolizione dei consigli di gestione nati nel 1945 ed alla convinzione da parte dei sindacati italiani della inopportunità di corresponsabilizzare i lavoratori nell’attività di gestione dell’impresa che porterebbe, giocoforza, ad una sensibile attenuazione del ruolo dialettico ed antagonista che nella  dinamica del conflitto industriale spetta ai sindacati stessi. 

             Al personale verrebbe chiesto di maturare uno spirito che potremmo definire sempre meno “passivo” e sempre più “imprenditoriale”, pur essendo legato nei confronti della propria azienda da un rapporto che è solo di lavoro dipendente. Il personale dovrebbe prendere sempre più coscienza di un dovere, un obbligo morale nei confronti della propria azienda, in base al quale dovrebbe impegnarsi, sviluppando sempre maggiori capacità di flessibilità e adattamento, avendo come comune obiettivo la sopravvivenza ed il successo della propria azienda. In fondo quello appena descritto, in modo non tanto semplicistico, potrebbe essere definito il vero segreto del successo di molte piccole e,  soprattutto, medie imprese italiane.

             Non solo nelle aziende di piccole dimensioni con una struttura elementare, dove la multifunzionalità, potremmo dire,  è la norma, ma anche nelle aziende di una certa dimensione e con un solido assetto organizzativo, i lavoratori, e per loro i sindacati, dovrebbero dimostrare una maggiore disponibilità, a fronte di comprovate esigenze organizzative e produttive, ad una destrutturazione delle mansioni costituenti una determinata posizione lavorativa critica.

             Anche se la delocalizzazione o l’affidamento di intere lavorazioni a società esterne operanti all’estero, fenomeno al quale occorrerebbe porre un freno, sta minando gravemente il made in Italy ed il nostro know-how, frutto dell’esperienza e della pratica, ossia del risultato di sperimentazioni attuate e studi compiuti all’interno di un’azienda non brevettati e non brevettabili.   

             Nuova filosofia di approccio ai problemi di miglioramento della gestione dei servizi pubblici che risale ai primi anni ’80 e che dai paesi come il Regno Unito, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti si è gradualmente estesa ai principali paesi europei. Suo obiettivo sostanziale è l’eliminazione  dall'organizzazione di tutto ciò che non aggiunge valore ai suoi servizi ed in particolare che inibiscono le performance, passando dalla esternalizzazione di tutto ciò che non rappresenta una competenza fondamentale dell'organizzazione. L’adozione di logiche di New public management si è presentata in modo diverso nelle single realtà nazionali; in Italia, ad esempio, è passata attraverso i processi di aziendalizzazione, di decentramento, di federalismo, di semplificazione della burocrazia, di trasparenza della Pubblica Amministrazione.

             Prescindendo, ovviamente, da misure di politica economica e fiscale (quali, ad es., l’alleggerimento degli oneri sul reddito da lavoro dipendente controbilanciato da  un rincaro delle imposte indirette, quali l’IVA sui beni di lusso), che esulano dall’oggetto di questo specifico contributo di natura organizzativa ed economico-aziendale.  

            A paesi come il Brasile, la Russia, l’India e la Cina (messi insieme sotto la sigla BRIC) si sono di recente aggiunti altri mercati emergenti con grandi potenzialità di crescita. Stiamo parlando dei Civets, acronimo dietro al quale c’è la Colombia, l’Indonesia, il Vietnam, l’Egitto, la Turchia e il Sudafrica.
                                                          

            I dettagli di questa ricerca sono riportati nell’articolo “Le politiche delle risorse umane tra crisi e ripresa”, apparso sul numero 244 di maggio/giugno e luglio 2011 della rivista “Sviluppo & Organizzazione”. L’articolo è ha firma di Simonetta Cavasin e Mario Vavassori,  rispettivamente General Manager e Amministratore Delegato di OD & M Consulting.

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