BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 31/01/2005

VOX CLAMANS... DAL DESERTO DEI TEMPI

di Aleph V°

Oggi mi considero in libera uscita! Un ragazzaccio in vena di scherzi. E, invece di profezie e saggezze, ecco faccio un po’ di polemica… tagliente, crudele, infantile, ingiusta, ma tanto divertente! Come si faceva in quel famoso ’68 dove i giovani avevano il coraggio di graffiare la carne del passato …

Con cosa me la prendo? Con la formazione come macchina analogica …

E come comincio la polemica? Ecco dicendo che sono d’accordo! E va be’ ma allora che polemica è?

Be’ sono d’accordo, ma la considero un passettino veramente piccolo, piccolo, incerto, un po’ spaventato. Il passo di chi non ha l’audacia di andare fino in fondo. Fino a dire che se davvero nei corsi di formazione la cosa più profonda che si può fare è narrare, allora occorre riconoscere che non si fa più formazione. Ma si fa qualcosa di più importante…

Mi spiego: se ci ritroviamo e costruiamo insieme una storia, è certamente più bello che non ascoltare la storia (perché anche quella è una storia) di un docente noioso e banale. Ma di cosa parla questa storia? Credo che mi si risponderebbe: ma di qualunque cosa vorrete narrare insieme. Ecco mi sembra una risposta qualunquista. E ne propongo un’altra che credo davvero più coraggiosa: io credo che le persone che vivono all’interno di una organizzazione (non importa se profit o non profit) possono oggi fare una sola cosa: immaginare a narrare il loro destino futuro comune. Se si tratta di una impresa, il loro destino futuro comune si chiama strategia. Detto diversamente: io credo che negli interventi di formazione certamente ci si debba rifiutare ascoltare storie di altri (a meno che non siano artisti) e scrivere una nuova storia sociale. Ma questa storia deve essere seria e impegnativa. Io credo che l’unico senso che rimanga agli interventi di formazione sia quello di essere i momenti privilegiati in cui si progetta (si narra) socialmente la strategia. Questo credo sia il messaggio che i formatori debbano dare al top management: che hanno scoperto come si fa superare l’attuale cincischiarsi in strategie burocratiche, ripetitive, senz’anima e immaginare e scrivere strategie, rivoluzionarie, etiche ed estetiche.

E poi… via con la vera polemica, quella infantile e giocherellona…. Sperando che il lettore scusi la libera uscita (momentaneissima!) di senno di un signore che vive un tempo tristissimo: il 2332 come tutti sanno.

La polemica riguarderà Peirce e la “Complexity science”. Lascio stare sincronicità, gioco, realtà e creatività anche se mi verrebbe da dire: ma non è già tutto scritto nella metafora del cervello destro?

La “complexity science” ….

Accidenti, ma è dagli anni ’70 che si fa notare che sarebbe meglio non chiamare la complessità “scienza” per non incorrere nel rischio di considerarla un “pezzo” della scienza meccanicistica che intende superare. C’era anche chi si scandalizzava anche a chiamarla (meno compromettentemente) cultura.

Ma questa è una quisquiglia! Il vero problema è che la complessità è stata negli ultimi anni ridotta alla teoria del caos! Si insomma, ha vinto la versione anglosassone della metafora (a me piace chiamarla così) della complessità. L’approccio tipico del pensiero anglosassone che è sostanzialmente e irrimediabilmente riduzionista.

E in questo modo si sono perse quasi tutte le sue caratteristiche più rilevanti esono rimaste le caratteristiche un po’ caricaturali chesono riassunte da: non linearità, evoluzione, emergenza.

Io credo che occorra tornare a camminare la profondità. Se dovessi dare un suggerimento direi che sarebbe meglio tornare alla meccanica quantistica (senza perdersi in dettagli romantici come il principio di indeterminazione) e, soprattutto, alla sua teoria della misura. E poi occorrerebbe immergersi nei teoremi di incompletezza di Godel.

Allora si scoprirebbe che l’espressione “sistema complesso” è una contraddizione in termini: non può esistere un sistema complesso. Se una entità è complessa, non è un sistema.

E si scoprirebbe che quando si fa un elenco per descrivere una entità (come si a elencano i tre aspetti citati di un comportamento di un sistema) implicitamente si presuppone la sua linearità. Cioè dicendo che non il suo comportamento è non lineare si afferma che in realtà lo è…

Ma forse questi sono dettagli. La mia critica più forte è un’altra: se si riesce a scendere giù nel profondo della metafora della complessità si scoprono i segreti dello sviluppo. Si scopre che i processi di sviluppo sono processi di creazione sociale di conoscenza. E si riesce a immaginare una proposta politica nuova: cioè come riattivarli perché oggi si sono spenti. Questa proposta politica nuova è sostanzialmente isomorfa alla proposta di ricominciare a fare socialmente strategia scrivendo storie.

E da ultimo Peirce: io rifletterei maggiormente sui suoi “grafici esistenziali”. Essi permettono di immaginare altre accezioni del verbo narrare. Perché farlo solo con li linguaggio naturale e non anche con linguaggi formali (non dico quantitativi!).

Conclusione: ragazzi perché non ci ricordiamo (lasciatemi considerarmi vostro contemporaneo) di quando volevamo cambiare il mondo ed abbiamo cominciato a farlo? Avevamo coraggio! Oggi non è che ci siamo ridotti a cercare un po’ spaventati la sopravvivenza nelle pieghe di una storia che ci spaventa?

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