BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 11/05/2009

CHE CI FACCIO QUI?

di Nicola Gaiarin

Dove sono finito, si (mi) chiede GP nella sua chiamata alle armi per Bloom. Prima che suoni la campana, perché uno spazio come Bloom si nutre solo degli interventi e della voglia di esserci e di scrivere. Altrimenti diventa qualcosa d’altro. Qualcosa che magari esiste già (Persone & Conoscenze) o qualcosa che non ha tanto senso di esistere. Nella rete non mancano i luoghi per discutere, i blog più o meno vetrina o autoreferenziali. Allora alla domanda what went wrong, forse sarebbe da opporre quella what went right.
Perché in un certo momento Bloom è stato uno spazio di dibattito intensissimo, cosa c’era allora di diverso da oggi? Ma prima di tutto dove sono finito? In vari posti, ti risponderei, ma soprattutto sono finito in azienda. E quello che vedo e che continuo a vedere mi deprime un poco. Intendiamoci, il lavoro mi piace, faccio il consulente. Cioè un lavoro che, come diciamo con i colleghi, assomiglia a qualcosa che sta tra un manager e un barbone. Lavori intensamente per cifre a volte molto alte. Altre volte ti rigiri i pollici, alla ricerca di network per sopravvivere, cercando di far quadrare i conti. Impari a venderti, cerchi qualcuno più bravo di te che ti venda al posto tuo. È un bel lavoro. Soprattutto perché sento che entrare in azienda per aiutare le persone a rimettere a posto un po’ di cose - i ruoli, i meeting, le relazioni, il modo in cui mettono la faccia sul mercato, il rapporto con i clienti, le strategie, le scelte che mettono in gioco la dimensione dei valori – ha a che fare con una qualche spinta di crescita sociale. Solo che… Solo che il lavoro è duro, e a volte frustrante. Come tutti i lavori, dirai tu, ma il fatto è che il mio è un punto di osservazione privilegiato, perché variabile, a volte metapercettivo. E non è sempre un bene, perché se guardi tenendoti un po’ fuori dalla mischia il paesaggio non è incoraggiante.

Nel senso che nel mio lavoro incontro e ho incontrato tipi in gamba, a volte persone fuori del comune. I nomi non li faccio, ma sono molti, e tutti mi riportano a un momento importante. Sono incontri, sono storie di gente che ogni giorno costruisce la propria vita in azienda. Sono manager, commerciali, operai, capiturno, informatici, ingegneri, operatori sociali, esperti di formazione, assessori, medici, amministrativi, commessi, CEO, operatori di call center, responsabili risorse umane, operai comunali, vigili, responsabili produzione. Sono i famosi piloti di Cessna di una poesia di Francesco. Ma si ha l’impressione che siano eccezioni faticosamente cercate e costruite. Io come sai sono laureato in filosofia.
L’impatto con il mondo del budget e della bottom line, della lean organization e dei finanziamenti, del “facciamo troppi scarti in produzione” e dell’“occorre fare le job description”, l’ho vissuto e lo vivo come una grande avventura di conoscenza. Ma oltre che un filosofo sono uno che viene dalla provincia e ci ritorna, continua a viverci. Sono veneto, quindi dopo un po’ mi girano le palle, e mi piace stare sui risultati. Magari mi piace lottare contro i mulini a vento, ma non riesco a far finta che siano dei gigantì. E allora ogni volta che vai in azienda incontri le stesse storie.
Persone in gamba che gestiscono cifre che non vedrò mai in tutta la mia vita, ma cadono su scogli relazionali da terza elementare. Dinamiche da reality, dispettucci e polemiche da macchina del caffè. Incapacità di guardare al di là del proprio naso. In fondo è il mio lavoro stare su queste cose, perché è da qui che parte il cambiamento. Certo però che l’impressione è di una terribile carenza di strumenti di confronto paritario, incapacità di definire le priorità, di implementare le decisioni che si sanno essere giuste per paura di toccare equilibri interni. E poi la gestione del ruolo di consulente. Vedi persone che ti chiedono di abbassare offerte di dieci euro quando i conti spese dei viaggi all’estero dei commerciali sono a 4 zeri.
Persone che, se devono tagliare, tagliano la formazione, poi tagliano la ricerca e sviluppo, poi tagliano i precari. Poi prendono dieci nuovi stagisti. Una volta alla settimana incontri quello che ti dice “ma lei è giovane”, intendendo che se ci fosse qualcun altro, magari un professore con 100 slide e la ricetta per il successo, magari un esperto con la barba bianca, sarebbe meglio. Quelli che “certo, il progetto di sviluppo ci permetterebbe di fare cose stratosferiche e di diventare leader sul mercato, ma bisogna vedere se troviamo i finanziamenti”.

Poi, quello che succede quando in azienda ci entri effettivamente è molto bello. I risultati arrivano, i clienti sono soddisfatti. Alcuni clienti diventano persone che incontri in altri momenti importanti. Succedono cose divertenti, cose complicate. A volte, nei mesi di un progetto, accadono cose tristi. Insomma, si attraversano pezzi di vita delle aziende e delle persone, gli alti e bassi, i cicli dell’esistenza. Tutto bene, vita standard di un consulente (come il venditore di collant di Busi, vedi ancora le cose che ha scritto Varanini). Non parlo dei colleghi, che sono amici, di quelli con la A maiuscola. Facciamo riunioni senza fogli excel, non ci interessano i risultati se non fanno parte di un progetto condiviso. Condividiamo valori, stiamo coi piedi per terra ma ci lanciamo in avventure un po’ pazze, divertendoci. Tutto bene, allora.
Forse non scrivo su Bloom perché va tutto bene?
No, non va poi tanto bene. Perché lo scoglio contro cui si va a sbattere è il solito: i soggetti che attivano tutto questo circuito sono a volte soggetti politici, a volte imprenditori retrogradi del profondo Nord, a volte presidenti che stanno in uffici dalle scrivanie di design e usano l’IPhone ma l’innovazione la vogliono solo sfruttare, non fare. A volte gente con due lauree e un livello culturale inesistente. C’è chi parla quattro lingue e dice solo cazzate. Gente che bada alla sostanza, certo, ma poi la sostanza a volte si confonde con il curriculum, con la cattedra, con la pubblicazione, con l’amico dell’amico, con la giacca e la cravatta, con il cambiamo tutto per non cambiare nulla.
Oppure gente preparatissima e coltissima, che vive poniamo in Svizzera o negli Stati Uniti o in aereo, spostando pedine finanziarie e distruggendo vite e aziende per far felici gli azionisti.
Allora con Bloom e con il me stesso di 7/8 anni fa sono un po’ incazzato. Perché a volte il processo di lavoro che si attiva con i committenti è un copione da triangolo drammatico: prima sei il consulente squalo, che arriva per fregarli, poi diventi il salvatore, quello del “solo lei mi capisce”. Poi ti tagliano appena possono, e tante grazie. Lavori con i manager ma sei un precario assoluto. Proletariato cognitivo, lumpenconsulenti con fatture d’oro e poi a casa. E gli amici di altre vite che ti dicono “come fai a conciliare il tuo essere di sinistra con il tuo lavoro?”

Allora cosa fare? Fare rete? Ma ognuno difende il proprio campicello. E qui viene fuori il mio terzo tratto personale. Che palle le associazioni, i presidenti, i segretari organizzativi, le fiere della formazione, i dibattiti e le tavole rotonde! Che palle i relatori ai convegni, le slide e le hostess che ti danno la cartellina. Che palle gli assessori e i commissari e i responsabili e i cartellini con il nome e il lei e il voi il “noi sì che sappiamo come vanno le cose”.
Con i miei colleghi ci provo, ci proviamo tutti, a fare qualcosa di diverso. Entriamo nei teatri, rompiamo le regole, facciamo cose strane, interrompiamo gli schemi, giochiamo al rialzo, scambiamo i cartellini segnaposto. Lavoriamo con la musica, uniamo la tecnica alla commedia, stiamo in ascolto. Prendiamo le cose sul serio, sapendo che a volte occorre smontare la serietà. Però, poi, alla fine il cliente vuole essere rassicurato. Rischi di creare strani rapporti di dipendenza, la tua stessa distintività diventa routine e regola. E poi ricominci da capo, leggi libri, vedi programmi e film. Ti senti strano. Vedi che tutto diventa confuso.
Arriva la crisi, continui ad andare avanti. Però con chi dibatti? Per me il dibattito, Bloom, era importante. Lo è ancora. Ma della crisi, fondamentalmente, non mi interessa nulla. Avrei voglia di lavorare meglio e il confronto dovrebbe essere sulle esperienze, non sui modelli. Se queste cose, le cose che si discutono su Bloom, sono davvero importanti, e io lo penso, dovrebbero suggerire nuovi modi di stare nelle organizzazioni. E invece tutto nasce vecchio. Vecchio all’italiana, vecchio nel senso che i consulenti che incontro sono in molti casi amici di…., gente che ha le conoscenze, gente che chiama gli amici, gente che ha fatto il manager per trent’anni e poi fa il consulente.
Gente che si prostra davanti ai ruoli e ai dott. Ing. Progetti straordinari che si bloccano perché è cambiato il responsabile formazione o il sottosegretario. L’incredibile è che in nessun altro ambito le cose funzionano così. Non chiameresti un direttore commerciale o un commesso o un capo reparto solo perché insegna all’università o perché ha settant’anni o perché viene da Milano o è amico del presidente dell’associazione di categoria.
Siamo nella società globale, ma allora perché nessuno pensa globale, perché luoghi come Bloom assomigliano a spazi di sublimazione in cui si parla di quello che poi non si riesce a fare? Perché le aziende italiane che vanno in Cina riescono ad essere più italiane dell’aziendina col paron che comanda? A volte penso che sarebbe bello incontrare, che so, un direttore generale che va al cinema e che capisce il rapporto che c’è tra quello che vede e quello che fa. Sarebbe bello che qualcuno che lavora fosse anche uno che legge e scrive su Bloom. Che non si considerasse la cultura una cosa importante, ma solo nel tempo libero. Sarebbe bello l’imprenditore illuminato.
Sarebbe bello Olivetti, anche se non ha combinato un cazzo, alla fine. Sarebbe bello soprattutto che tutti costoro, che esistono, evitassero poi, quando devono fare qualcosa, di spendere trentamila euro in alberghi per la formazione residenziale e di tirare sul prezzo con te. Che cominciassero a non confondere il consulente con il cuoco (con tutto il rispetto per il cuoco, of course) o il corso con la bottiglia da 1000 euro o l’incontro di sviluppo con la partita di calcio aziendale. La convention con Zelig. Cioè, si oscilla tra la consulenza come spreco (“cossa serve butar via schei che tanto le xè tute cassae”) alla formazione come lusso organizzativo (nel seminario per top manager, nell’agriturismo costosissimo in Toscana, chiamo a parlare qualcuno di prestigioso, un filosofo, uno scrittore, un comico, un guru americano tipo Tom Cruise in Magnolia, basta che siano cose che facciano divertire i manager, un villaggio vacanze con animatore, un viaggio premio, che ribadisca che il pensare ha i suoi luoghi privilegiati, però poi si torna tutti al lavoro). 
Occorre essere specialisti degli interstizi, e va bene. Ma se poi il centro della scena è occupato dagli incompetenti, l’interstizio diventa la volpe e l’uva.

Allora, visto che poi l’Avvelenata del buon Guccini ha anche la sua parte propositiva, cosa mi piace fare oggi? Mi piace rompere le scatole. Non essere dove ti aspettano. Proporre formazione avanzata a ruoli operativi, far lavorare duro manager che si credono in ferie. Mi piace parlare di organizzazione e di futuro, portare le persone a confrontarsi e ad ascoltarsi. Mi piace mettere la spillina di South Park e le Adidas davanti agli amministratori delegati e la cravatta nelle cooperative. Mi piacerebbe, ma non lo so ancora fare, quando qualcuno mi chiede “chi sei?”, rispondere “è poi così importante?”
Mi piacerebbe non dover far finta di essere “americano”, non dover parlare in inglese, non dire che è nuovo anche quello che è vecchio, non riscoprire l’acqua calda ogni giorno. Vorrei parlare di Wittgenstein e Ballard. Citare Marx e i Tenenbaum e vedere i Simpson in azienda. Oppure stare zitto e dormire.
Ma poi mi sveglio in Italia: si fa l’edizione italiana di Wired, si chiamano i soliti noti, si fa sviluppo se avanzano i soldi. Ecco il problema del mio mestiere, e forse del tuo, si legge Wired e poi si lavora nel mondo di Cronaca Vera. E questo mi dà fastidio. Non solo per me, ma anche per tutte le persone in gamba che incontro e che non dovrebbero essere l’eccezione, ma la regola.

Però in mezzo ci sono spazi come Bloom, e allora forse vale la pena di tenerli vivi, continuare a scrivere, scambiare esperienze. Tirare fuori idee e capire come metterle in pratica.

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