L'ECONOMIA
MERCANTILE: COME UN DELIRIO. INTERVISTA A ACHILLE ROSSI
di Loredana Galassini
Un po’ bisogna
andare a cercarselo, don Achille Rossi, filosofo, scrittore, editore che
però, non trascura, alla maniera di don Milani, la relazione più
prossima, quella del luogo, del “locale”. Amico di Ivan Illich,
divulgatore del pensiero altissimo di Raimond Panikkar, di lui ho letto
recentemente “Il mito del mercato” ( Città Aperta Edizioni,
l’altrapagina, Troina, febbraio 2002), un libro agile, essenziale,
concretamente lucido. L’articolazione del mito, la lettura antropologica,
l’arte del dialogo e azioni che portino ad una nuova visione della
vita, sono gli strumenti che diventano sapienti nella elaborazione del testo.
La conversazione si è svolta nella parrocchia di Città di
Castello.
Buongiorno.
Vorrei iniziare subito con una sua affermazione categorica: il problema
dell’economia non è un problema economico, ma antropologico.
Contrariamente a quanto possano affermare manager ed economisti,
cioè che il problema dell’economia sia di organizzazione migliore
perché le sfide di oggi sono più complesse, ritengo che al
fondo, invece, ci sia un problema di ordine diverso: è la visione
di uomo che è sottostante, che è soggiacente a questa forma
di economia, che non funziona e oggi lo vediamo ancora meglio. Andiamo verso
una mercificazione totale di tutto, come mai? Io mi chiedo, come mai, abbiamo
un sistema capace di risolvere il problema della fame e non ci riusciamo.
Da che dipende? Non certo dalla mancanza di mezzi e neanche dalla volontà
politica perché nel mondo c’è una certa, diffusa volontà
di risolvere il problema. Penso che bisogna usare altre lenti per guardare,
perché se non abbiamo un’antropologia così attenta da
cogliere l’uomo per quello che veramente è, allora non riusciremo
a risolvere i problemi. Prendiamo il sistema finanziario: è un vero
gioco al massacro, dove i più poveri non contano perché ci
si impone solo di maggiorare il profitto, quindi anche lì una guerra
contro i poveri. Ma perché si fa questa guerra? E siamo sempre lì,
perché il sistema antropologico è fasullo, la visione dell’uomo
è fasulla. Abbiamo visto la recente guerra, le altre guerre che ci
sono. Le spese militari, tra Usa ed Europa sono circa 700 miliardi di dollari.
Un sistema, basato su questa moltiplicazione e proliferazione delle armi,
mette in mostra un’anima violenta che deriva da visione violenta del
mondo. Sono tutti fatti che mi portano a dire che non è tanto l’organizzazione
politica, che pure ha le sue responsabilità, ma è la visione
dell’uomo che sta dietro che non va bene. Per dirlo in maniera più
concreta: penso che derivi dal fatto che l’economia è diventata
mitica. E’ una visione, in qualche modo, accettata per fede. A mio
parere, tutti questi controsensi nascono da una visione corta dell’uomo.
Oserei dire, anche sballata, se potessi parlare così, fuori dai denti.
Sballata, non è realistica.
Una concezione dell’uomo che fa la guerra ai poveri, che non ha fiducia
nell’uomo per cui moltiplica le armi e che lo rende solo consumatore
per cui lo condanna, veramente, ad una esistenza nichilistica e infelice…ecco
tutte queste cose nascono per un’antropologia che non può andare
avanti così. Se andremo avanti con questa antropologia, non cambieremo
nulla. Il problema non è tanto di mutare la politica, senz’altro.
Ma è un secondo problema, prima bisogna mutare la visione antropologica.
Lei scrive
che c’è una nuova mitologia: la teologia del sistema mercantile.
De-strutturazione e ri-creazione del mito. La de-strutturazione del mito
mercantile, cosa porterà? La creazione di nuovi miti? Il mito è
necessario alla costruzione di un progetto?
Io credo che non possiamo fare a meno del mito. E’ come quella
zona d’ombra che accompagna la zona di luce. Se lei punta un faro
contro una parete buia, vede una scia luminosa, un angolo luminoso, ma poi
vede anche il buio. Se sposta il faro, il buio si ricrea da un’altra
parte. Meriterebbe un discorso più ampio, ma intanto dico che il
mito, la razionalità e la spiritualità sono tre componenti
essenziali dell’umano. Nessuna delle tre, può essere tolta
via ma intanto quando dico, che questo mito qui, è perverso, ci aggiungo
qualcosa.
Vuole tracciare
il percorso mitologico mercantile, per lei, così perverso?
Si tratta di un mito anche pericoloso perché è come se ci
dicesse che questa è la realtà e non si può fare niente,
perché dalla realtà non si può uscire. Questo mito
che si è creato attraverso un lavorio storico e politico, in questa
fase, ci fa dimenticare tutto questo processo e ci dice questa è
la realtà, si configura così e dalla realtà non si
può uscire. Ma il problema della realtà è che se non
si può uscire, bisogna accettarla e quindi diventa anche la conservazione
dell’esistente, mentre se uno analizza il percorso attraverso cui
si è formato, si accorge di questa strutturazione mitica. Qui insisto,
voglio anche far vedere come si è formato. C’è un aspetto
dell’economia che è vistoso, è quello che vediamo tutti,
che è il sistema dentro cui tutti siamo. Poi c’è l’aspetto
dell’economia che sostiene l’umanità dell’uomo
e questo è mitico ed è un punto fondamentale, perché
sostituisce ed esercita il ruolo di funzione fondamentale. Sorreggere l’umanità,
in altri tempi, è stata funzione del sacro oppure le ideologie sorreggevano,
dio sorreggeva…
Ma questo
è un mito dell’economia, della scienza o fa parte proprio dell’essere
umano? Recentemente, in un incontro scientifico, si sosteneva che per la
prima volta, attraverso la manipolazione genetica, interveniva, coscientemente,
nel cambiamento della vita, della natura. L’uomo, finalmente demiurgo.
Possiamo fermarci un attimo su questo desiderio di creatività?
Mi sembra l’idea portante della modernità: diventare padroni
e possessori della natura come già diceva Bacone. Ma io credo che
noi oggi vediamo anche un aspetto in negativo di questa idea demiurgica.
Vediamo poi, alla fine, che un’idea demiurgica a questo livello, produce
un uomo che è dipendente dall’altro uomo, che è distrutto
dall’altro uomo…eh, siamo in grado di vedere anche l’altro
versante, per cui non credo che rispetti la piena umanità dell’uomo
questa visione mitica scientista. L’uomo è anche qualcosa che
tende verso, che è aperto verso…questo dire che con quello
che costruisco e manipolo, si realizzerà l’umanità piena,
beh, questo non mi sembra che sia vero. E’ l’idea che ha almeno
una parte della modernità, ma non credo che sia vera. La modernità
ha portato avanti quest’idea dell’uomo ma alla fine, quando
la natura si rivolta, l’uomo lo sa che non è padrone di niente.
E in economia ha prodotto un sistema in cui l’uomo è una variabile,
perché l’importante è che si regga il sistema. Dell’uomo
se ne può tranquillamente fare a meno, tanto è vero che si
possono usare tutte le schiavitù. Non è importante, purché
il sistema si mantenga e che giri.
E’
per questo che lei dice che è perverso. Ma lei dice anche che nasconde
una teologia.
Certo, c’è una teologia nascosta. Questo è un dio perverso,
non è un dio che libera, è un dio che schiavizza, per cui
alla fine ci sono solo duecento famiglie che tengono in piedi questo sistema.
E’ vero, l’uomo realizza tante cose, ma alla fine, lo strumento
prende il sopravvento. Al di là di una certa soglia, lo strumento
non è più strumento, è padrone, come diceva giustamente
Ivan Illich in un’analisi che mi sembra insuperata. Tutto il complesso
tecnocratico, arrivati ad una certa soglia, è uno strumento che asservisce
l’uomo, non lo libera, lo utilizza per i suoi fini, per l’alto
mantenimento del sistema. Il sistema tecnocratico, non è tecnica,
è tecnologia, una macchina di secondo grado, in un certo senso. La
macchina ha delle regolarità che alla fine schiacciano l’uomo
e lo costringono a fare in quel modo, tant’è vero che l’uomo
dell’Occidente è a corto di tempo, non ha tempo…chi glielo
ha preso il tempo, una macchina di secondo grado?
In certi
ambiti scientifici, però, si pensa a connubi tra uomo-macchina, il
simbionte, che possa assicurare all’uomo l’eternità.
Non conosco queste teorie, però mi sembra siano il prolungamento
della stessa illusione. L’uomo, creandosi una macchina più
sofisticata, riuscirà a risolvere i problemi eterni che ha sempre
avuto, del suo significato, della sua apertura infinita…non è
che moltiplicando la macchina o facendosi macchina, trovi queste risposte.
Mi sembra che siamo alla meccanizzazione della sua spiritualità e
mi sembra il colmo dell’abiezione. Non mi sembra che l’uomo
vada verso la sua liberazione, ma che seppellisca quello che è più
profondo, che meccanizzi ciò che è più spirituale.
Se, quello che ho chiamato “il tendere verso” lo facciamo dipendere
solo dalla macchina e diciamo che quella via è macchinina, penso
che avremmo umiliato l’uomo fino al fondo.
Lei ha letto
l’economia mercantile come un delirio e dice che dopo una diagnosi,
occorre una de-costruzione e una prospettiva costruttiva. Una nuova mitologia
o una consapevolezza?
Io credo una consapevolezza, perché fa rendere conto che quel percepire
l’economia come mito non funziona. Percepire l’economia come
ciò che fa stare in piedi l’umanità dell’uomo,
non funziona. Quello che ci sostiene, è altro, è quella che
chiamo la funzione fondamentale e che non può essere categorizzata
con niente. E’ la funzione che deve rimanere sempre aperta. Se la
strutturo e dico che è l’economia che tiene in piedi la nostra
umanità, ho già messo in atto il meccanismo dell’idolatria,
l’ ho ossificata, l’ ho fossilizzata. Invece deve restare sempre
aperta. Se vuole, è la funzione dell’invisibile. Oppure…chiamarla
spiritualità non mi piace tanto…è quella realtà
che deve rimanere aperta perché l’uomo possa vivere…chiamiamolo
come vogliamo, ma l’importante è sapere che è quella
realtà lì che tiene in piedi l’umanità dell’uomo
ed è sempre aperta, non è fossilizzata in nessun oggetto e
in nessun concetto. E’ la relazione umana, invece, che tiene in piedi
l’umanità. E’ la relazione che può adempiere a
questa funzione fondamentale perché nella relazione scopro il fondo
della verità. Raimond Panikkar ha una bellissima espressione, l’inter-indipendenza.
Un’indipendenza, perché ciascuno ha una forma di indipendenza,
se stesso, ma è inter, in comunione con e questa non è solo
ideale, ma è anche di traffici, di commerci, di interscambi. La globalizzazione,
invece dice che c’è una visione sola e fatalmente poi produce
una politica, una economia e poi dice che quella è la migliore. Ecco
io temo che siamo tutti un po’ figli anche di un’altra accettazione
passiva, come quella frase di McLuhan che dice che siamo in un villaggio
globale, solo perché passano le comunicazioni, mentre i villaggi
sono tanti. Sono tanti quante sono le culture. Ogni villaggio ha la sua
cultura, i suoi scambi, ma l’importante è che ognuno abbia
la sua indipendenza nel momento stesso in cui è in comunicazione,
sennò diventa solo una particella di questa globalizzazione, che
non può essere positiva perché aggrega tutti in un unico modello.
E’ uniformizzazione. Vorrei porre l’accento proprio sull’alterità
degli altri, a coloro che non hanno i nostri criteri di giudizio. Penso
siamo un po’ irriverenti quando parliamo di globalizzazione complessivamente,
anche quando parliamo di comunicazione, di media. Di dove sono realmente
gli altri, ai quali interessa l’interscambio, ma non interessa il
modello nostro, perché non lo vogliono o sono forzati a entrarci
da noi, ma non lo vorrebbero. Un’attenzione maggiore all’interculturalità,
alle specificità delle culture altre, ci porterebbe a capire che
l’economia capitalistica interessa meno, mentre interessa altro rispetto
a questa frenesia di lavorare per accumulare. Ogni cultura sa di economia,
solo che non è la nostra. Non voglio disprezzare neanche la nostra,
solo che è limitata. E questo significa che non può essere
assolutizzata e non può essere imposta, perché c’è
salvezza anche in altri posti e in altri modi.
La responsabilità
di questo modello è certamente anche nei fruitori, nei consumatori,
ma sicuramente e soprattutto in chi continua a proporlo come unico.
E’ certamente in chi continua a proporlo come la “realtà”.
Se la realtà è, come abbiamo visto, questo mito, che ha avuto
una fase storica, che si propone come il sostegno dell’umanità
dell’uomo e che diventa invisibile…Ecco, questa è una
cosa che avevo dimenticato di dire prima: diventa invisibile. Come sostegno
dell’umanità dell’uomo, diventa invisibile e viene creduto.
E’ lì l’aspetto mitico. Smantellare quest’aspetto
mitico, guardandolo, questa è costruzione storica che non serve a
sostenere in ogni caso la gente. La gente sta in piedi per altre cose. Dire
questo significa avviare un’opera di smantellamento che però,
secondo me e la chiamo la grande trasformazione, è la capacità
di rileggere con altri occhi tutto quello che c’è e di avviarlo
su un’altra pista. Per esempio, quando scrivo che non sputerei sul
denaro, non sputerei sulla competitività e nemmeno sulla crescita,
è perché letti da un’altra angolatura, dicono qualcosa
dell’uomo. Non butterei niente, credo che tutti questi aspetti abbiano
un senso, ma non in quest’ottica. Sono aspetti del mito che vanno
destrutturati. Intendo seriamente destrutturate, ripensare radicalmente
tutto, ma non per demolire con mania dissacratoria, ma per riprendere tutto
da un’altra angolatura.
Giorni fa,
leggevo un’analisi di Franco Berardi sul suicidio micidiale. Questa
consapevolezza, che fa paura, forse aiuta a destrutturare il mito, perché
se l’uomo non riesce a legare la sua situazione di cosiddetto benessere
al principio di responsabilità rispetto al pianeta, rischia il suicidio
micidiale. Lei cosa ne pensa, c’è un rischio reale?
Credo sia un rischio reale, siamo proprio su una cattiva strada
e proprio per quello che dicevamo all’inizio: un sistema di guerra,
grande produzione di armi, un sistema economico cieco e che si trova impotente
di fronte ai bisogni primari dell’umanità. Ma per reggere questa
divisione del mondo fatta così, con il 20 per cento che ha l’ottanta
per cento delle risorse, ci vuole la guerra, è semplice. Non può
stare in piedi su una condivisione, ha bisogno del metodo forte. E questo
è chiarissimo. L’amministrazione americana, credo, ha reso
evidente quello che forse avevano chiaro solo alcuni e nascosto i più.
Oggi è evidente ai più: noi abbiamo bisogno del petrolio e
lo prendiamo dove c’è. Noi abbiamo bisogno della guerra commerciale,
la facciamo come ci pare. Abbiamo bisogno del diritto della forza, pieghiamo
il diritto. Mi pare che sia evidente, ma ancora una volta siamo su una cattiva
strada perché la visione di questo uomo che sta sotto il sistema,
che spinge ad accumulare sempre di più, è falsa. Per questo
c’è bisogno di un’antropologia diversa. Se voglio ricostruire
con la politica classica, che ha messo al centro la competitività,
la sopraffazione, è evidente che non vado da nessuna parte. Potrò
fare solo dei piccoli rabberciamenti al sistema, ma non cambio profondamente
niente. Ecco allora che, parlare della pace oggi, va bene, ma come dico
ai ragazzi, siate coscienti che ci vuole un’antropologia diversa per
le cose che chiedete voi. Che bisognerà avere un modello meno consumistico,
che bisognerà puntare sulla relazione interumana, se volete, sulla
parsimonia. Significa anche che i beni umani sono limitati, che dovremo
avere un nuovo sistema di regole. Ma già ci sono tanti processi.
C’è quello culturale che intanto comincia a vedere che la guerra
non è risolutiva, che questo metodo violento è distruttivo.
E questo è il primo passo che già è entrato nella consapevolezza
di larga parte dell’umanità. Dicono che i 187 milioni di esseri
umani che hanno espresso il loro dissenso alla guerra sono pochi. Va bene,
ma è un primo passo per capire che così non si potrà
andare avanti e che allora si vorrà un nuovo diritto, una nuova cultura.
Che non c’è pace se non c’è il riconoscimento
dell’altro, e che la propria cultura è limitata e non si possono
imporre democrazie o sviluppi o civiltà.
Il rigetto
della guerra è fortemente sentito, ci sono grandi energie…
Certo. Troveranno una via giuridica che, secondo me, è la prima anche
perché un diritto contrario alla guerra già c’è,
solo che non viene rispettato o si cerca di calpestarlo. Ma questa difesa,
per esempio, dei giuristi di tutto il mondo a difendere i diritti dell’Onu,
è interessantissimo. Questo vuol dire che queste idee di rifiuto
della violenza, di rifiuto della guerra, che hanno già preso corpo
soprattutto alla fine del secondo conflitto mondiale, adesso stanno resistendo
a questo scossone, a questo ritorno indietro. Ma è interessante anche
la riconciliazione, perché solo la riconciliazione con l’altro
può portare la pace. Questo esperimento splendido di cui non si parla,
dell’Unione Sudafricana, dove nel processo, il criminale può
essere liberato se l’altro è consapevole di perdono. L’ascolto
dell’altro, abbandoniamo il discorso del villaggio globale. Cerchiamo
di fare un’interfecondazione che sarà la cultura del domani:
Non sappiamo come sarà, perché nessuno ha la ricetta e non
si può scrivere prima, però siamo sulla strada giusta. Oggi
assistiamo ad un passaggio delicato, perché si può sbagliare
ancora tutto, ma interessante perché la guerra non ci salverà
più, l’unico sistema economico non ci salverà più,
la Terra non ne può più di un sistema economico così.
Gli uomini cominciano a capire che con questi mezzi non andiamo lontano.
Viviamo un tempo in cui tutto può essere ridiscusso, che ha delle
possibilità infinite. Rileggere al di fuori del mito, questi assiomi
dominanti, per cui devono comandare solo i vincenti, che si debba fare la
guerra alla natura per estrarne il massimo possibile di benessere materiale,
che la società politica ha diritto ad essere guidata solo da quelli
che hanno i soldi…insomma, tutte queste cose vanno superate, sono
fasulle. Altre cose vanno elaborate culturalmente. Così credo possa
prendere vita una cultura che sia da supporto ad una nuova politica. Solo
una nuova antropologia partorisce una cultura nuova e una cultura politica
all’altezza di queste sfide. Intorno all’idea del bene comune,
va costruito qualcosa di solido. Non può esistere una società
in cui siamo solo individui ed ognuno fa gli affari propri. Se il desiderio
di stare bene, rimane in solitudine e non passa attraverso la relazione,
diventa distruttivo. Bisogna liberare il desidero dalla caduta del possesso
e liberarlo verso…rimettere alla base della convivenza il senso della
relazione. L’altro non è mai strumento, in nessun senso, ma
solo un mistero con cui confrontarsi. Ricostruire un tessuto, ricostruire
nuovi significati perché sennò, oltretutto, quanto durerà
la pazienza degli altri?