BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 17/02/2003

IL REALISMO DI SERGE LATOUCHE

intervista di Loredana Galassini

L’inaugurazione della mostra fotografica “Lo sguardo e l’anima” di Paolo Bocci al Museo etnografico Pigorini di Roma è l’occasione per incontrare Serge Latouche, docente di Economia presso l’università di Paris-Sud. Il dibattito è sull’Africa ed è vivace, attento e ricco di informazioni e di speranza, nonostante tutto, perché anche se il prodotto interno lordo del continente è appena del 2% rispetto al pianeta, il paradosso tra economia ufficiale e tradizione, consente di vivere e anche con gioia. E’ la società vernacolare che produce e riproduce la propria vita con strategie, con collegamenti di reti tradizionali. “Non esiste, ufficialmente, l’economia informale – spiega Serge Latouche – ma gli esclusi reinventano il legame tradizionale e realizzano il miracolo della propria sopravvivenza. E’ lo spirito del dono, invece del mercato che assicura la vita”.


Professor Latouche, vorrei chiederti cosa significa oggi questa tua frase: “chi non trova il proprio posto in questo universo uniformizzato è semplicemente condannato a scomparire”
“Quando ho scritto questa frase pensavo prima di tutto ai popoli cosiddetti indigeni come gli indiani dell’Amazzonia o altri popoli che sono in via di estinzione che non vogliono inserirsi nella logica occidentale o non possono farlo e sono più o meno distrutti sia fisicamente che culturalmente. Invece tu dici che questo oggi non è totalmente vero, che si vede che anche gli occidentali sono condannati per questo processo uniformizzante a sparire e che i popoli che hanno conservato più legami con la tradizione, con la cultura, la terra e la propria identità culturale, hanno un futuro. Questo lo penso anch’io, ma possiamo fare una distinzione temporale da questo processo di occidentalizzazione del mondo. Quelli che hanno rifiutato di fare compromessi con l’occidente sono spariti, mentre quelli che hanno potuto farne, che si sono più o meno occidentalizzati ed hanno conservato anche le loro radici, hanno fatto sia la resistenza che la dissidenza in rapporto al rullo compressore occidentale, hanno forse davanti a loro un futuro più sicuro.

Sei sempre tu , professore, che racconti che siamo su una macchina senza freni, senza marcia indietro…e questo rispetto all’occidente
Sì, su un bolide che, come si vede oggi, è un processo che sia dal punto economico che tecnico, nessuno sembra poter arrestare. Il mondo è diventato una megamacchina e tutti siamo più o meno trasformati in ingranaggi e anche se si volesse volere frenare questo processo, non si ha più il potere di farlo. Alcuni pensano ancora sia possibile, sono dentro questa logica. Ci sono anche esempi di qualcuno che è molto cosciente, prendiamo per esempio George Soros, quando dice che andiamo incontro alla catastrofe, ma che ha fatto per fermare questo processo?

Secondo me, l’unica cosa buona che ha detto, è che non è stato un buon padre…per il resto ha fatto Soros ed è per questo che lo conosciamo…tu, però, durante il dibattito sei rimasto in surplace su una domanda riguardante Lula e quello che potrà diventare il Brasile, ma non solamente. Cosa significa Porto Alegre, quali sono le proposte economiche che vengono portate avanti , come si può fermare la magamacchina se poi, anche quello che si propone come l’altro mondo possibile, non fa delle proposte concrete?
Il problema che è la maggior parte di coloro che dicono che un altro mondo è possibile sono nei fatti di “questo mondo” e non hanno fatto una de-colonizzazione dell’immaginario. Sono ancora completamente economicizzati. Tu sai che riprendo molto spesso questo proverbio francese, “quando si ha un martello nella testa, si vedono tutti i problemi sotto forma di chiodi” e dunque abbiamo questo martello economico nella testa. Questo vuol dire che la caratteristica probabilmente più importante della nostra società è che siamo in una società di crescita e tutto ciò che ho sentito a Porto Alegre non rimette in questione il tema dello sviluppo. Si vuole ancora più crescita, una crescita diversa, sostenibile, che è una parola stupida, perché è un ossimoro. Per sopravvivere, dobbiamo organizzare una società di de-crescita. Ma per questo ci vuole una de-colonizzazione dell’immaginario, una de-economicizzazione della mente. Ma le cose non sono ancora maturate fino a questo punto e possiamo avere ancora qualche speranza solo perché c’è la pedagogia della catastrofe.

Ma può diventare anche la pedagogia dell’ecatombe
Sì anche. Ma quando ci sarà una gigantesca catastrofe ambientale, e quando parlo del bolide che a gran velocità andrà ad infrangersi contro il muro, penso in particolare alla situazione ambientale, e sarà ancora più grande delle precedenti, forse ci sarà una reazione. La gente che ha già cominciato a rendersi conto, ma non abbastanza, avrà più senso della realtà. In Francia diciamo: il denaro è il burro e il denaro del burro. E questo non si può, dobbiamo scegliere. Questa scelta non dovrebbe essere una cosa terrificante perché sono convinto che rinunciando alla crescita, vivremmo tutti meglio, ma far capire questo è molto difficile.

Alexander Langer, proponeva “lentius, suavius, profundius”, Ivan Illich…
Sì, Ivan Illich e molti altri.

Ma tu sei convinto che la pedagogia della catastrofe sia necessaria?
Sì, sono convinto, perché non ci sono più quelle forze capaci di contrastare questa realtà. Non c’è più, per esempio, la lotta di classe. C’è una capacità terrificante del sistema a manipolare la gente. Oggi siamo tutti manipolati, attraverso i media, la pubblicità, la propaganda e tutto il resto. Ma la manipolazione ha un limite, che è il reale. Non si può realizzare un mondo bello, ricco per tutti e allora il limite è che non si può ingannare all’infinito la gente.

Secondo te, siamo di fronte ad un salto evolutivo, nel senso che o cambiamo o soccombiamo?
Non penso che ci sarà un salto evolutivo.

Pensi che riusciremo a fermare la guerra in Iraq, sapendo le conseguenze spaventose a cui tutta l’umanità va incontro?
Secondo me, la guerra in Iraq è già decisa.

Che è decisa, sono d’accordo, ma che non si possa fermare, quando le popolazioni di tutti i continenti continuano ad esprimere il loro no, diventa un discorso anche di democrazia o di quello che resta della democrazia.
Non ne abbiamo la forza, però, se Bush e la lobby del petrolio hanno deciso di farla. E siccome penso che siano, più o meno obbligati a farla, penso che la faranno. Non sono profeta, naturalmente spero che non la faranno, ma non sono lo stesso pessimista. Perché se la faranno sarà il declino degli Stati Uniti, dato che non possono vincerla. Possono naturalmente distruggere completamente l’Iraq, ma il problema non è soltanto l’Iraq, è mondiale. E allora non possono sopravvivere ad una guerra che porterà, finalmente, tutto il mondo contro di loro.

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