LA FLESSIBILITA' TRA PRECARIATO ED OPPORTUNITA'
di Paolo Iacci
Cos’è
la flessibilità
La flessibilità è probabilmente il concetto oggi
più controverso nel mondo del lavoro. Fino ad alcuni
anni fa era semplicemente sinonimo dispregiativo di deregulation
giuslavoristica. Oggi appare anche come la parola d’ordine
dietro cui smantellare un’insieme di regole che, nate
per garantire certezza dei diritti e stabilità del futuro,
si sono a poco a poco trasformate in un reticolo paralizzante.
D’altro canto, però, come ogni spinta destrutturante,
anche questa comporta dei rischi.
Il più grave tra questi è consentire l’arbitrio
dei datori di lavoro sull’altare della libertà.
Ciò che invece si vuole perseguire è una flessibilità
regolata. Salvaguardare i diritti, senza però dover essere
ingabbiati a vita. Uscire da un’economia del bisogno per
entrare in una società del benessere comporta il coraggio
di rischiare. D’altro canto l’incertezza di cui
tanto si sente parlare in questo periodo non è un concetto
nuovo, ma è un problema cresciuto di pari passo con la
crisi del modello di produzione di derivazione fordista.
La crisi del fordismo ha coinciso con l’obsolescenza di
modelli organizzativi centrati sulla specializzazione funzionale,
la stabilità del posto di lavoro, la chiara definizione
delle posizioni, la pianificazione di lungo periodo e la centralizzazione
del controllo. La relativa stabilità dei mercati esterni
e la gestibilità dei rapporti con i dipendenti consentiva
una grande linearità operativa che procedeva attraverso
la separazione gerarchica delle fasi di pianificazione, decisione,
azione e controllo.
Oggi i rapporti di forza si sono ribaltati: sono i bisogni dei
mercati la variabile indipendente ed i modelli organizzativi
quella dipendente. La crisi del fordismo non ha però
ancora fatto emergere dei nuovi paradigmi che possano caratterizzare
con forza la fase in cui siamo entrati. Sicuramente si sta a
poco a poco perdendo la certezza della best way, dell’infallibilità
del modello vincente e ad esso si sta sostituendo la necessità
di rinvenire volta per volta l’assetto organizzativo più
confacente alle specifiche necessità del mercato.
Grazie allo sviluppo delle terziarizzazioni e l’esplodere
dei co.co.co., gli stessi confini dell’organizzazione
si sono fatti meno invalicabili e più sfrangiati. Se,
però, l’organizzazione svolge anche un ruolo di
“contenitore psicologico” per tutti coloro che vi
lavorano all’interno, laddove i confini di questo contenitore
divengono meno definiti, anche la sua funzione di “accoglimento”
si fa più labile. Cambiamento e flessibilità sono
così diventate le nuove parole d’ordine per chi
vuole sopravvivere in queste mutate condizioni di mercato ed
organizzative. Non vi è però possibilità
di cambiamento senza un costante processo d’apprendimento,
organizzativo ed individuale. L’organizzazione che apprende
è quindi un’organizzazione in grado di gestire
il cambiamento e non di rimanerne vittima. Analoga sorte tocca
agli individui.
Il postfordismo supera il modello fordista proprio perché
è costretto a porre il soggetto, con le sue caratteristiche,
la sua ricchezza ed i suoi bisogni, come elemento centrale della
vita quotidiana delle organizzazioni. L’instabilità
e la crescente incertezza, certo, sono dati incontestabili che
però non devono ammantare negativamente il nostro giudizio.
Il mercato
del lavoro italiano e la flessibilità
Flessibilità deve potersi coniugare con reciproci diritti
e doveri del lavoratore e del datore di lavoro, in modo che
s’ingeneri un sistema che consenta di superare le rigidità
del nostro mercato del lavoro e dei nostri rapporti contrattuali
senza per questo entrare nel far west della semplice libertà
di licenziamento senza alcuna motivazione.
D’altro canto il nostro Paese è quello a più
alto tasso di lavoro sommerso e di rigidità del lavoro
regolare. Questo è semplicemente inaccettabile. La vera
precarietà è quella dei milioni di persone che
vivono ai limiti della legalità del lavoro e non quella
che si potrebbe paventare nel rendere meno rigidi dei rapporti
contrattuali che nella realtà sono talvolta quasi a vita.
Così come flessibilità non deve significare incertezza
a vita ma semplicemente incentivare la possibilità di
momenti di cambiamento.
Le forme di flessibilità che si vogliono introdurre con
la legge Biagi, in realtà, sono ad un tempo causa ed
effetto di una nuova cultura che si sta rapidamente diffondendo
non solo nelle nostre organizzazioni ma più in generale
nella percezione sociale relativa al rapporto tra individuo,
organizzazione e Stato. Nell’ambito dei grandi Paesi industrializzati
è ormai opinione diffusa l’ineluttabilità
di un ulteriore passo indietro da parte dello Stato, della necessità
che il mercato del lavoro si adegui e che le strutture aziendali
divengano meno rigide e più permeabili ai cambiamenti
richiesti dal mercato. Il punto, allora, è quello di
capire le opportunità ma anche i costi umani di questa
nuova ventata di flessibilità e di porre alcuni “paletti”
affinché tali costi vengano minimizzati.
Sul piano oggettivo occorre predisporre una serie di vincoli
affinché flessibilità non voglia dire assenza
di regole e di vincoli della parte più forte del rapporto
di lavoro. Sul piano soggettivo, invece, la flessibilità
si deve tradurre in un processo di individualizzazione che costringa
le persone a fare di se stesse il centro della propria vita,
delle proprie speranze e della concreta possibilità di
realizzarle. Questo da un lato induce ad un atteggiamento psicologico
che già di per se stesso amplia enormemente le possibilità
di concretizzare i propri progetti, ma richiede al contempo
uno sforzo cui non tutti sono disposti ad assoggettarsi. Tutto
ciò, naturalmente, senza dimenticarsi delle concrete
condizioni reali di contorno senza le quali qualsiasi atteggiamento
positivo rischia di naufragare. Il fatto, comunque, che le persone
sentano su di sé tutta la responsabilità della
definizione dei propri percorsi e dei rischi che ne derivano
può provocare effetti tra loro distonici.
La mancanza di garanzia di continuità lavorativa nel
tempo tende a rendere difficile parecchie cose:
- l’instabilità degli introiti.
- minor visibilità nella pianificazione familiare ed
economica;
- l’investimento su sé stesso nella costruzione
di una professionalità definita;
- per i giovani la dipendenza dalla propria famiglia d’origine
tende a proseguire indefinitamente, sia per motivi economici,
sia per la sensazione di essere altrimenti “senza alcuna
rete”;
- l’integrazione con l’organizzazione da cui si
dipende può essere vissuta come transeunte e quindi poco
significativa ;
- il senso d’insicurezza causato dai meccanismi di mercato
e dalla totale mancanza d’ammortizzatori sociali, economici
e previdenziali, induce molto spesso a comportamenti di “nevrosi
da accumulo”, finalizzati ad ottimizzare il risparmio
assicurativo o comunque gli introiti previsti finché
si può disporre di un reddito.
Il tempo è percepito non come proprio ma come appartenente
a qualcun altro, che ne può disporre a proprio piacimento.
Questo tende a minimizzare la libertà nella vita extra-lavorativa,
essendo più difficile pianificare i propri impegni personali.
L’onere della precarietà spesse volte si sovrappone,
anche con modalità apparentemente contraddittorie, ad
una percezione della flessibilità come garanzia di libertà.
Gli elementi positivi legati ad una maggiore flessibilità
dei rapporti di lavoro possono essere così sintetizzati:
- l’attività lavorativa può in parte essere
gestita in modo più autonomo, nel rispetto dei propri
tempi e dei propri ritmi;
- il rapporto tra vita personale e vita professionale può
trovare equilibri e modalità più vicini alle necessità
dei singoli;
- il lavoro può essere di più facile gestione
soprattutto per le fasce deboli della popolazione, come le donne
o i lavoratori studenti;
- in molti casi i contratti flessibili di lavoro sono una via
privilegiata per entrare stabilmente in azienda, come dimostra
quel 35% di interinali i cui contratti vengono trasformati in
stabili a fine missione;
- il senso di libertà
- la maggior libertà rispetto i “regolari”
riguarda anche la potenziale possibilità di accettare
o meno gli incarichi proposti dalla committenza;
- la ricerca di “senso” delle esperienze lavorative
è molto forte.
Concretamente, poi, le persone nelle organizzazioni sperimentano
sempre una situazione di “doppio legame”: la mancata
partecipazione stabile ad un gruppo può scatenare, da
un lato, stati d’animo abbandonici con sensi d’inadeguatezza,
ma d’altro lato lo stesso individuo può provare
indistintamente il sentimento opposto, la sensazione di finire
per essere oppresso da una presenza, l’organizzazione,
che è contemporaneamente salvifica e frustrante.
Lo sventolio di questi elementi di ordine soggettivo da parte
dell’uno o dell’altro degli schieramenti appaiono
però strumentale al fine di sostenere tesi di natura
differente. La verità è che ci stiamo avviando
ad un mutamento profondo del modo di sentire collettivo del
rapporto con il lavoro, dove una maggiore flessibilità
nei rapporti contrattuali farà da cornice ad una maggiore
centratura del soggetto su se stesso e sulle proprie potenzialità.
D’altro canto, l’Italia, in Europa, è il
Paese che ha il più basso tasso d’occupazione regolare
ed il più alto tasso di lavoro sommerso. La rigidità
del nostro mercato del lavoro fa sì che le aziende italiane
siano meno competitive delle loro concorrenti internazionali,
che non si riesca ad essere attrattivi per gli investimenti
internazionali e che non si riesca a colmare il divario storico
tra nord e sud. Sicuramente una maggiore flessibilità
da sola non risolverà magicamente nulla. L’esperienza
internazionale ci dice però che può essere un
contributo decisivo per una maggiore competitività del
nostro sistema industriale. Flessibilità però
non deve voler dire precarietà gratuita o de-responsabilizzazione
delle imprese.
La flessibilità
oltre la precarietà
In questo senso credo siano miopi tutte le posizioni che predicano
l’immobilismo del nostro mercato del lavoro o, peggio,
il rafforzamento delle sue tutele burocratiche. Analogamente,
però, non riesco a credere fideisticamente nella capacità
taumaturgica della sola flessibilità nel senso dello
sviluppo dell’occupazione, della crescita del nostro prodotto
interno lordo e del benessere di chi lavora nelle organizzazioni.
I buoni auspici di per se stessi non costituiscono alcuna garanzia
di buona riuscita. Altre riforme incalzano e dovranno dare una
valida mano al raggiungimento degli obiettivi che questo nuovo
ordinamento da solo non potrà raggiungere. La riforma
fiscale dovrà essere in grado di rendere il nostro costo
del lavoro meno oneroso e il riassetto dell’amministrazione
pubblica dovrà consentire al nostro sistema Paese di
contare su infrastrutture che finalmente possano aiutare lo
sviluppo invece che frenarlo. E anche volendo rimanere più
ancorati al tema della flessibilità non si può
negare come i problemi vi siano e non possano essere sottovalutati.
Non far tramutare la flessibilità in precarietà
vuol dire accompagnare l’introduzione delle nuove norme
con un rinnovato impegno alla progressiva riduzione del sommerso.
Occorre inoltre mettere in campo tutti i possibili incentivi
allo sviluppo della mobilità interaziendale. Perdere
il posto di lavoro può non essere solo un trauma ma anche
una possibilità di crescita e di ridefinizione del proprio
percorso professionale. Occorre però dare continuità
e progressione a profili di carriera discontinui, attraverso
forme generalizzate di certificazione della professionalità
acquisita. Occorre sostenere tutti i progetti e le sperimentazioni
che possano limitare le disparità di genere, zona geografica
ed età di fronte alla precarizzazione dell’esperienza
lavorativa. Avviare dei piani di politica industriale o per
lo meno degli osservatori che consentano di sapere che tipo
di formazione fornire sia ai giovani sia a tutte le persone
che rischiano il posto di lavoro o anche, più semplicemente,
l’obsolescenza professionale. La formazione deve essere
mirata e quindi realmente utile. Non solo: deve diventare un’abitudine
ricorrente, per le persone e per le aziende. Tutti gli attori
del mercato del lavoro debbono avviare un ampio dibattito ed
un’azione molto concreta per rendere più sostenibile
la flessibilità. Questa non è l’eden. E’
una tendenza ineliminabile delle imprese, del mercato e dei
lavoratori. Può sprigionare grandi forze ma determinare
problemi altrettanto grandi. Si deve lentamente tendere verso
un sistema che ponga tutti i soggetti sullo stesso piano. Occorre
consentire anche ai lavoratori di scegliere la forma di flessibilità
a loro più consona. Il rapporto tra tempo di vita e tempo
di lavoro va così rivisto e rinegoziato. Occorre approntare
un sistema di regole perchè la flessibilità non
venga confusa con la precarietà. Occorre tracciare concretamente
un sistema di flessibilità sostenibile. La nostra è
una società basata sull’abbondanza che dovrà
quindi consentire ad un numero sempre maggiore di persone, a
qualunque età, di scegliere tra più lavori flessibili,
affinché questi non vengano subiti ma costituiscano il
segno non della penuria ma della crescita e della maturazione,
umana e personale, prima ancora che professionale.