BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 12/03/2001

ASTRONOMIA AZIENDALE

di Ofelio Liberati

RED-SHIFT: fenomeno ottico per il quale le righe dello spettro emesso da un oggetto in allontanamento rispetto all’osservatore appaiono spostate verso il rosso. Assieme alla "radiazione fossile" (4° K), conferma la teoria che l’universo sia nato dal Big Bang circa 15 miliardi di anni fa e che, da allora, sia in continua espansione. Conseguenza necessaria, e accertata strumentalmente, tutte le galassie si stanno allontanando, ognuna rispetto a tutte le altre, con velocità direttamente proporzionale alle reciproche distanze.

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Un po’ di tempo addietro, parlando di BLOOM con Varanini, osservai come i vari interventi pubblicati tendessero a riferirsi a realtà aziendali di dimensioni medio-grandi; la mia non era né una critica né una lode: stavo solo riflettendo che quando uno scrive di relazioni sindacali, Business Process Reengineering, Activity Based Costing, ecc., è molto probabile che non abbia in testa aziende di 8 o 9 persone. O più piccole ancora.

Ora, è proprio di uno di questi pesi mosca di cui vorrei dire qualcosa, precisando subito che la mia non è un’intenzione apologistica, tesa a dar voce a sconosciuti ed altrimenti anecoici luoghi: il motivo è che da poco più di un anno lavoro proprio presso una banca "minore", mentre i vent’anni precedenti li ho spesi all’interno di una banca ben più grande (nel 1980, quando entrai, contava quasi 400 dipendenti; quando me ne sono andato, a fine ’99, circa il doppio). Ritengo quindi che questa duplice esperienza mi dia la possibilità di tornare a parlare di questioni organizzative in termini un po’ alternativi, affrontandole cioè da un punto di vista meno "tecnico" rispetto a quello al quale sono abituati i lettori e gli autori di BLOOM.

Tutto questo era anche per dire che sono "nato" in un ambiente di lavoro già all’epoca abbastanza strutturato e relativamente burocratizzato, e cresciuto nello stesso ambiente che è andato viepiù ristrutturandosi e burocratizzandosi, a mano a mano che cresceva, sino, in taluni casi (ed a mio avviso), all’eccesso, dopo che molti "reparti" sono diventati "uffici" che poi sono diventati "servizi" che poi sono diventati "divisioni" che poi sono diventate "aree", ognuna delle quali è arrivata a comprendere al proprio interno alcune divisioni, qualche servizio, svariati uffici, innumerevoli reparti. E via di questo passo.

Va da sé che questa sorta di "matrioskante" mitosi ha comportato una serie di effetti su diversi piani della vita aziendale. Con ciò non intendo riferirmi al solo punto di vista organizzativo - appunto "tecnico" - per il conseguente proliferare di norme e normette, poltrone, poltroncine, sedie e sgabelli vari, ognuna e ognuno dei quali più o meno necessaria/o a seconda dei vari punti di vista (che oltretutto, su una materia del genere, sono tradizionalmente molti e molto divergenti, oltreché irrimediabilmente inconciliabili): in ciò che ho detto intendevo comprendere, soprattutto, gli effetti collaterali (collaterali?) a livello di "persone", dei singoli pianeti e satelliti, ovvero sui reciproci rapporti intercorrenti fra queste stesse persone, nonché sul modo di porsi dell’individuo nei confronti dell’universo aziendale e di intendersi/vedersi all’interno di questo. Che poi sarebbe proprio quel punto di vista "meno tecnico" di cui ho detto.

Durante i miei primi anni di lavoro, l’azienda era dunque un organismo che stava crescendo molto di fretta e che perciò non faceva mai a tempo a comprarsi un vestito adatto che il giorno appresso gli era già sfuggito. Si tendeva, cioè, a rincorrere l’esigenza o l’emergenza allorquando queste si presentavano, anziché tentare di prevederle e prevenirle; cosa, peraltro, abbastanza inevitabile: con l’aumentare della velocità, le possibilità di prevedere ed evitare un impatto diminuiscono proporzionalmente, finché – saturi d’adrenalina - non rimane più tempo nemmeno per pensarci, ma solo - e manco sempre - per (re)agire. Prima ancora che organizzativa, è una legge fisica.

A complicare le cose, questa fase di vertiginosa espansione è lungamente coincisa con quei radicali cambiamenti che il mercato del credito stava suo malgrado subendo proprio in quegli anni, allorquando il suddetto "mercato" (che poi tale non era ancora) da chiuso e ben protetto da qualsiasi animalesca, bonelliana stampede, qualcuno ha ritenuto di doverlo rendere un po’ più aperto, abbattendo muraglioni e colmando trincee. E creando un polverone tale che, ancora oggi, non mi pare si sia completamente diradato.

Per l’azienda dove lavoravo, in particolare, ciò ha aggiunto un problema nuovo, intendendo con "nuovo" non tanto e non solo "uno in più", ma "nuovo" anche e soprattutto perché "sconosciuto", perché "diverso" dagli altri nella natura. E infatti ci si rese conto – seppure con qualche ritardo - che non sarebbe mai stato risolvibile solo con i soliti accorgimenti normativo/organizzativi (e ancor meno con ulteriori incrementi di personale), richiedendo piuttosto il suo approccio un profondo cambiamento di mentalità da parte di ognuno, a prescindere da gradi gerarchici, anzianità di servizio, mansioni svolte, diritti acquisiti, parenti potenti, ecc. Sì, perché il cliente – da brutto, vecchio e rompipalle – si trasformò improvvisamente in una donna giovane, bella e desiderata da tutti, sfortunatamente (per noi) ben conscia di possedere tale formidabile tridente di affilatissimi rebbi, e soprattutto talmente puttana da non disdegnare di cambiare partner dalla mattina alla sera con frequenza e disinvoltura scandalose.

Come comportarsi con clienti del genere, all’epoca dei perfetti sconosciuti? Nessun BPR (con relativo, immancabile brain trust di consulenti allegati) da solo, avrebbe mai potuto aiutare a risolvere un simile problema ai poveri uomini (in effetti erano tutti maschi) del CdA, della direzione, dell’organizzazione, del personale e del marketing (anzi no, quest’ultimo non era stato ancora inventato, in banca) che, ricordiamolo, erano pure alle prese con la gestione di una crescita che non lasciava loro molto tempo e risorse per pensare e pianificare.

Cosicché, ho vissuto fasi in cui si è tentato di soppiantare frettolosamente la preesistente cultura con altra più "customer oriented", utilizzando però metodi che definire Inadeguati & Improvvisati farebbe scadere questa cronaca nella più soggettiva delle ucronie. D’altra parte, si trattava di tentativi basati sulla convinzione, dura a morire, che una cultura fosse (anzi: dovesse essere) ciò in cui il vertice ordinava di credere, anziché la somma, o la media, di ciò in cui i singoli credevano.

Ma come si fa ad ordinare una cultura?, a disporre ciò in cui - "con decorrenza immediata!" - il personale tutto è tenuto a credere in toto?, o quantomeno, in estremo subordine, a credere di dover credere? Nell’ammettere che io non avrei saputo da quale parte cominciare, fatto sta che si cominciò con una raffica di "slogan" e di "valori" (valori…), coniati freschi freschi e instillati nell’organico con la stessa convinzione - ed efficacia, naturalmente - con la quale il terribilen Sergenten Maggioren del compianto Bonvi ordinava alle proprie Sturmtruppen: "STATE ALLEGRI! E’ UN ORDINEN!" Gli iconoclasti non seppero più da quale parte voltarsi...

Il problema, essendo la natura umana di umana natura, è (e fu!) che per produrre un cambiamento culturale occorre (come difatti occorse) che tutti indistintamente – e quindi proprio tutti – arrivino a sperimentare, sulla propria pelle, cosa comporti il non adeguarsi di corsa alle nuove realtà di mercato. Quando, col passare del tempo, si vedranno ridursi i vari premi di rendimento/produttività, promozioni, gratificazioni, aumenti contrattuali, automatismi, pacche sulle spalle e strette di mano in modo proporzionale e contemporaneo alla riduzione delle code davanti al cassiere o dei questuanti in attesa di essere ricevuti, e quando nello stesso frattempo il tasso di crescita si sarà fermato e, anzi, saranno iniziati i primi pensionamenti anticipati, buonuscite, scivoli e blocchi degli straordinari, allora, e solo allora, e auspicabilmente un po’ prima che lo stesso posto di lavoro cominci a scricchiolare di brutto (quanti banchieri e bancari si sono posti problemi del genere negli anni ’80?), allora, dicevo, il cambiamento culturale potrà dirsi quantomeno iniziato, se non ancora compiuto.

(Qui sarà il caso di ricordare che ciò che ho appena detto non è frutto di studi, analisi, teorizzazioni, letture, brain storming, assessment center, colloqui o interviste, ma è solo una cronaca di ciò che ho visto e sperimentato sulla mia propria pelle).

Come ho accennato, dopo i suddetti 20 anni, a 40 di età, ne ho avuto abbastanza. Di cosa? Sostanzialmente, di tutto ciò che era diventato troppo grande per me, abbastanza di una realtà nella quale le persone erano ormai diventate, e venivano chiamate, "risorse" (e quindi numeri), abbastanza di come queste risorse venissero selezionate e gestite, e cioè, negli ultimi tempi, più o meno con la stessa cura con cui un cane con grossissimi problemi alla prostata sceglierebbe l’albero giusto in una foresta amazzonica. Abbastanza, anche, di taluni sindacalisti che non si capiva se fossero manager mascherati da, e viceversa, dimodoché ai vari tavoli negoziali non si capiva più chi fosse cosa, se non grazie a pipe e sigari che tradizionalmente contraddistinguono un ben preciso lato del tavolo. Così, per farla breve, me ne sono andato a fare il vice direttore di una banca di 8 persone (fra qualche mese diventeremo una ventina a seguito di una fusione), situata in una cittadina di circa 10.000 abitanti, riducendo quindi di un centinaio di volte il numero dei colleghi, di oltre 350 quello dei concittadini ed azzerando del tutto quello dei fumatori di pipe e sigari (quale vera, inopinabile misura di quanto ne avessi veramente abbastanza, e dunque del motivo per cui ho deciso di cambiare aria, aggiungerò che analoga contrazione, anche se in percentuali fortunatamente meno scioccanti, è toccata pure allo stipendio). In cambio, oltre a quanto dirò fra poco, ho ricevuto un forte aumento di lavoro, sia in dal punto di vista quantitativo sia da quello delle responsabilità.

Naturalmente, sapevo già tutto prima su cosa mi aspettasse in termini di lavoro, ambiente, colleghi, retribuzione, prospettive e tutto il resto; di amare sorprese, debbo dire di non averne avute. Al contrario, ho invece ricevuto piacevoli, rassicuranti conferme su alcuni miei precedenti interrogativi, vertenti sostanzialmente sul come mi sarei trovato in un ambiente di lavoro che non posso nemmeno definirlo all’estremo opposto rispetto al primo, giacché è semplicemente tutta un’altra cosa.

Inutile dire che "qui" il livello di burocrazia è ben lontano da quello di cui parlavo sopra; certo, non mancano regolamenti scritti (struttura organizzativo-funzionale, controlli interni, poteri di firma, di spesa, ecc.): non è a questo tipo o livello di burocrazia a cui alludevo. Quello che volevo invece dire e che fra i vari reparti, fra di noi, si comunica ancora parlando, a voce, come a voce vengono normalmente date le disposizioni. Di lettere interne (sul tipo FROM: TIZIO - TO: CAIO, per capirci) e delle insopportabili firme "per ricevuta" con tanto di luogo, data ed ora, finora non ne ho viste nemmeno una. Così come non ho ancora visto alcun "verbale", e non sto parlando di quelli obbligatori per legge, come quelli delle riunioni del CdA, ma di quelli – assai più facoltativi - nei quali nell’altra realtà veniva pedissequamente riportato ciò che era stato detto durante un incontro fra colleghi. Fra tutto, le lettere interne, le firme per ricevuta ed i verbali sono le cose più odiose e insopportabili che ricordi della mia precedente vita lavorativa.

In fondo, le vere differenze fra le due realtà stanno proprio qui, perché per riuscire a fare a meno della carta scritta e delle firme, irrinunciabili punti fermi e fondamenta sulle quali è costruita qualunque burocrazia degna di essere chiamata tale, occorre soltanto una cosa, se ci si pensa bene: la fiducia reciproca. Se io mi fido del collega (collaboratore o superiore che sia) e questi di me, non ha alcun senso certificarci reciprocamente il posto, la data e l’ora in cui ci siamo scambiati una qualunque cosa, fossero pure titoli al portatore o denaro in contanti, così come privo di senso (per non dire mortificante) sarebbe verbalizzare ciò che ci siamo detti e quello che abbiamo deciso di fare o di non fare. Questo non vuol dire, assolutamente, che "prima" fossi stato circondato da persone indegne di fiducia. Significa piuttosto che tale sentimento non trovava, il quel tipo di ambiente di lavoro, il terreno ideale per svilupparsi o comunque per mantenersi in vita (a parte talune eccezioni, anche numerose, dovute però più a "slanci" di singoli che non alle condizioni di fondo).

Perché? Perché su una canoa il movimento asincrono di uno solo può sbilanciarla, e far cadere tutti, cosicché fattori quali unione, collaborazione e mutualità - e reciproca fiducia, appunto - risultano ben più determinanti e indispensabili che su una corazzata: slogan, anzi valore potentissimo, questo: non fai a tempo a rendertene conto, che sei già un irriducibile customer - e collega - oriented.

Sì, alla fine le differenze vere fra quel gigante e questa pulce sono proprio queste: il sentirsi parte di un piccolo equipaggio che sente veramente di essere sulla stessa, instabile barca e l’essere consapevole che anche un solo movimento sbagliato può compromettere gli sforzi degli altri; il piacere di ritornare persona fra persone, scordandosi numeri di matricola, di reparti e di uffici; il godimento, vero frui, di non dover portare il badge appeso addosso come una pecora la campanella, ché tanto tutti sanno come ti chiami e che faccia hai, e se manchi o ritardi se ne accorgono subito tutti; la soddisfazione di poterti rivolgere al collega dicendogli "fammi sapere cosa ne pensi. Ciao", anziché scrivendogli: "rimanendo in attesa di un cortese, urgente cenno di riscontro, colgo l'occasione per porgerLe i miei più distinti saluti".

Questo non vuol dire che, dopo averli "provati" entrambi, sia giunto alla conclusione che il modello organizzativo e il sistema di comunicazione interna di una banca di 8 persone siano "migliori" o possano comunque essere adottati da una di 800 o di 8000: mi rendo conto benissimo, proprio perché ho vissuto la lunga e forte fase di crescita di cui ho detto, che raggiunta e abbondantemente superata una certa "massa critica", le distanze fra le galassie sono ormai tali che la trasformazione dell’uomo in risorsa, del "tu" in "lei" e delle parole dette in lettere scritte sono effetti abbastanza inevitabili (quantunque certamente limitabili), una sorta di prezzo da pagare quando si vuole o si è costretti a crescere, un po’ l’equivalente aziendale del prezzo che tutti (chi più e chi meno, per la verità) paghiamo perdendo lungo la strada della maturità e dell’invecchiamento gran parte della spensieratezza, della spontaneità, dell’esuberanza e della creatività (e della fiducia nel prossimo) che ci erano state date in dote un po’ (sempre troppi) di anni prima.

E d’altra parte, in una lettera nella quale ha illustrato i nuovi criteri con i quali procederà a "…valutare l’adeguatezza del sistema organizzativo delle banche e, in particolare, dei controlli interni", la Banca d’Italia ha fra l’altro sostenuto che non esistono modelli organizzativi buoni o cattivi, ma solo modelli che consentono – o non consentono – il raggiungimento degli obiettivi aziendali.

Ma io volevo parlare di persone, non dell’adeguatezza o dell’efficacia di modelli organizzativi. E, su questo piano, le cose cambiano di parecchio. Uno non se ne accorge finché c’è dentro e finché non prova altri posti, altri modi di lavorare, di comunicare, di collaborare e di fissare e rispettare delle regole. Ma è indubbio che una volta provati tali altri modi, le differenze - a livello umano - sono macroscopiche e numerosissime: impossibile ricordarle ed enumerarle tutte. Che tuttavia, convergono, proprio tutte, verso una direzione comune, verso un modo di lavorare, e dunque di esistere e di vivere, più a misura d’uomo. Meno pagante, certo, ma ben più appagante.

In soldoni, meno stressante: che dire di più?


P.S. Non nascondo che mi piacerebbe conoscere l’opinione di qualcun altro in materia, soprattutto perché le banche minori sembrano destinate a scomparire dalla scena o a crescere per forza (cosa che non cambierebbe il risultato finale). Potrebbe, forse, essere un’interessante prosieguo della precedente discussione intitolata "La sfida dei servizi: la ristrutturazione organizzativa dei settori assicurativo e bancario nel prossimo triennio". Che ne dici, Storni, se ci sforzassimo di immaginare un "ritorno al piccolo", magari una sorta di "Piccole Banche di Credito di Nicchia", fra le possibili alternative alla "via americana" che, insieme a Mongillo, Zanotti e Varanini abbiamo cercato di trovare?

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