BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 25/02/2002

CONTRARI NON DETTI

di Ofelio Liberati

"APPLE IMAC: ma sono computer o soprammobili?", titola Varanini parlando di una macchina che, in effetti, dovrebbe ancora servire a elaborare dati. Cosicché mi sono chiesto se non avesse magari colto i prodromi di una "evoluzione" che - prima dell'informatica - ha già interessato e mezzo stravolto un altro settore apparentemente assai diverso: quello motociclistico.

Perché "apparentemente"? Cosa possono avere in comune una motocicletta e un P.C.? Intanto, come tutte le macchine, sono entrambe nate come strumenti di lavoro, per alleviare le fatiche fisiche (la prima) e cerebrali (il secondo), migliorando le prestazioni di gambe (non più utilizzate) e cervello (pure?) dei rispettivi utenti. In secondo luogo, e a dispetto delle origini, sono entrambi anche degli ottimi strumenti di svago per numerosissimi appassionati. In altre parole, rispondono ottimamente a due finalità - lavoro e divertimento - inconciliabili per la gran parte di apparecchi d'altro genere. Voglio dire: uno può anche essere soddisfattissimo o addirittura entusiasta delle prestazioni della propria fotocopiatrice o della sua motosega, ma da qui a diventarne cultore e a sollazzarcisi nel tempo libero, ce ne corre. Infine, in quanto "macchine", dovrebbero essere improntate al più tuzioristico e ortodosso rispetto delle leggi alle quali devono sottostare, che - prima ancora di quelle di mercato - sono la fisica e la matematica, leggi malauguratamente assai poco opinabili e ancor meno disponibili a scendere a compromessi di sorta per questioni di mera immagine o forma. Di apparenza, insomma.

Ok, ma allora "conta più offrire la migliore tecnologia o il migliore design?", chiede Varanini.

Risponde Giorgetto Giugiaro (nientemeno), il quale, in un'intervista rilasciata all'ultimo salone del ciclo e motociclo di Milano, di fronte all'ennesimo "esercizio-di-stile-con-pretese-di-entrare-in-produzione-e-di-fare-tendenza-aprendo-una-nuova-nicchia-di-mercato" (leggasi Porcheria), ha detto che la forma dovrebbe essere sempre figlia della funzione. Fatto tanto più rilevante se si pensa che a non dire il contrario è stato proprio un designer.

Il quale, tanto per essere chiaro fino in fondo, ha rincarato la dose aggiungendo che "oggi, pur di stupire, i designer riescono a fare delle aberrazioni funzionali, cadono nel kitsch. Io ho visto dei cucchiai con il manico tondo, è evidente che non va bene, perché il cucchiaio ti ruota in mano e la minestra si rovescia (…). L'ansia del nuovo è un problema. La frenesia di stupire ha portato tante volte al cattivo gusto e a delle aberrazioni funzionali. Sono attratto dalla funzionalità, anche se capisco che oggi vanno le forme cariche. Certe cose sono ormai delle sculture, si vuole che il designer metta le mani dappertutto. Questo non sempre va bene".

Peraltro, vero è che il settore delle due ruote è sempre stato caratterizzato da un estremo livello di specializzazione dei prodotti. A parte pochi modelli "tuttofare" e di "accesso alla gamma", che in Italia (ma non solo qui) non hanno mai avuto alcun successo degno di nota, i produttori hanno da sempre offerto mezzi progettati per un unico, specifico utilizzo a scapito di tutti gli altri: le tourer, ad esempio, che per dimensioni, protezione aerodinamica, comodità e capacità di carico, sono perfette per il turismo di lungo raggio, risultando per contro degli impacciati pachidermi nel traffico cittadino. E poi le racer-replica, vere e proprie bestie da pista e non meno fuori luogo tanto fra gli intasamenti cittadini quanto su strade provinciali e nazionali, dove, semplicemente, manca lo spazio per scaricare a terra 150 e passa CV (perlomeno, manca quello per riuscire a fermarsi dopo cotanto scarico…e qui parlo per esperienza diretta). E poi le fuoristrada, anche loro talmente specializzate da risultare più a loro agio volando per aria da un dosso all'altro che non, ancora, ruzzolando da un semaforo all'altro. E ancora supermotard, new classic, custom, cruiser, lightburner, sport-tourer, enduro…. E scooter e motorini, naturalmente, i furetti che dovrebbero servire proprio per sgattaiolare fra una macchina e l'altra. Qualcuno ricorda la famosa pubblicità Piaggio, le "Sardomobili"? Se trent'anni fa le chiamavano già così, come dovremmo definirle oggi?

E paradossalmente, proprio oggi, e proprio da quest'ultima categoria di veicoli, è nato quello che, motociclisticamente parlando, è il corrispondente del computer/soprammobile al titanio di cui parlava Varanini: lo scooterone (sebbene, quanto a materiali, questi non siano altro che volgarissimi ammassi di plastica).

In breve, si tratta di una categoria di veicoli (definirle moto sarebbe una catacresi) che, dal punto di vista fisico/tecnico/economico, non dovrebbe manco esistere: per la città, sono troppo ingombranti e pesanti (oltre due quintali e un interasse autotrenistico bastano e avanzano per farli superare e distanziare da un qualunque scooterino 50, che oltretutto costa e consuma meno di un terzo). Fuori città, invece, subiscono la schiacciante superiorità delle motociclette vere, quelle con le ruote grandi e con il motore e il serbatoio al posto giusto (intendendo per "giusto" quel luogo fisico, il baricentro, evidentemente sconosciuto a taluni designer), rispetto alle quali, oltretutto, non costano neppure di meno: per chi non lo sapesse, per uno scooterone dell'ultima generazione ci vogliono sui 15-16 milioni di lire, cioè - inspiegabilmente - più di quanto costano diverse quadricilindriche di cubatura ben superiore.

Ma allora perché se ne vedono e vendono così tanti? Perché questa moda? Ecco, appunto, la risposta giusta è probabilmente questa, una moda. Dalla quale, per sua stessa natura, non è lecito aspettarsi alcunché di razionale, logico, economico, pratico e funzionale. Né sembra valga la pena di preoccuparsi di come, quando e perché sia nata, una moda. Generalmente, e semplicemente, una moda o la si segue o la si ignora. E basta. E se l'obiettivo - anzi, l'esigenza (ché tale è il potere delle mode) - non è più quella di muoversi nel modo più veloce, economico e sicuro possibile, ma di seguire comunque le nuove tendenze costi quel che costi, allora un'aberrazione funzionale, un'offesa alla Fisica da 200 chili e 16 milioni, può (per qualcuno) avere un senso, così come un paio di tacchi alti 20 centimetri applicati a scarpe da uno o più milioni, giacché firmate (anzi griffate, com'è di moda e dunque d'uopo dire).

Ricordiamo pure che lo scooter - e la motocicletta in genere - è il mezzo che ha iniziato a "far muovere l'Italia" nell'immediato dopoguerra, dunque ben prima della 500 e della 600, giacché per i redditi di allora l'acquisto di un'automobile equivaleva, più o meno, a quello di un elicottero dei giorni nostri. All'epoca la moto la si usava per andare a lavorare, non certo per hobby o per andare a spasso, cosicché nacquero modelli meritatamente poi passati alla storia e divenuti oggetti agognati da tutti i collezionisti, italiani e non, come la Vespa ("Lo" Scooter) e il Motom ("Il" Ciclomotore), veri e propri muli, assolutamente indistruttibili e dai consumi ridotti sino all'inverosimile (percorrere 65 km con un litro, per il Motom, era normale proprio come la benzina che usava).

E allora, se una categoria così (mi si passi l'espressione da inguaribile appassionato) Nobile, ancorché banausica, di veicoli, creata per contadini e operai, si è in mezzo secolo "evoluta" in vasche da bagno semoventi da 80.000 lire al chilo per dandy-trendy, è ben possibile e forse probabile che una branca della produzione dei P.C. prenda una strada altrettanto aberrante, evolvendosi in chimerosi ornamenti per le scrivanie dei medesimi dandy-trendy e fregandosene di standards e di compatibilità col resto del mondo e, anzi, allontanandosene volutamente. Ciò che, oltretutto, darebbe ai proprietari di tali apparecchi la sardanapalesca e sibaritica sensazione d'appartenere a un club di pochi, di difficile contentatura e che sanno distinguersi dalla massa, per comunicare con la quale, peraltro, basta e avanza il vecchio 486 marcato Daewoo in dotazione alla segretaria.

E se così fosse - o sarà, lo vedremo in futuro - non rimarrà altro che rivolgere alla Apple lo stesso caloroso applauso che si è meritata la Honda quando, col suo CN 250, scoprì quella nicchia di mercato delle aberrazioni funzionali, nicchia poi rivelatasi una vera e propria caverna, anzi una miniera, di cui ancora oggi non si riesce a vedere la fine. Fine che, peraltro, dev'essere ancora molto, molto lontana, se è vero com'è vero che uno dei più gloriosi e prestigiosi Marchi italiani - la Laverda, già autrice di autentici capolavori come la splendida 750 SFC - abbia affidato le proprie strategie (strategie…) di rilancio non a una bella, solida, tonante, vibrante e acciaiosa bicilindrica made in Italy, bensì a un plasticoso scooterone made in Corea dalla SYM (qualcuno la conosce?) sul quale la ex mitica Casa di Breganze si limita a sostituire il marchio - appiccicandoci (e insozzando) il proprio - e il nome, diventato il tipicamente veneto "Phoenix"! Che pena….

D'altra parte, Giugiaro ha anche detto che "se un oggetto si vende allora è bello". Mica il contrario.

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