BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 13/01/2003

DALLA LIRA ALL'EURO, DELL'IRA PER L'EURO

di Ofelio Liberati

Cinque o sei anni fa l’Associazione Bancaria Italiana costituì al proprio interno diversi gruppi di lavoro, formati da persone provenienti da alcune aziende bancarie, con il compito di analizzare i possibili impatti derivanti dall’introduzione dell’euro e di predisporre gli opportuni strumenti e accorgimenti per farvi fronte.

Al gruppo di cui ho fatto parte competevano le problematiche logistiche e “fisiche” (caveaux, bancomat, trasporti, scorte, ecc.), sicché si lavorava su basi numeriche, dati certi o comunque stimabili: 40.000 tonnellate di monete metalliche in lire da far sparire, 140.000 miliardi di circolante in lire da eliminare e sostituire, 25.000 bancomat da riconvertire, svuotare e rifornire, un paio mesi per terminare, ecc. Tuttavia spesso i discorsi scivolavano verso argomenti di diversa natura, “non di nostra competenza”, ad esempio sul quando l’euro sarebbe riuscito a prendere il posto della lira. Ovviamente non nelle nostre tasche, ma nelle nostre teste.

Devo dire che da “bravi” bancari c’eravamo via via convinti (o forse, ripensandoci ora, c’eravamo via via convinti di doverlo essere, data la natura “storica” della nostra missione e la possibilità di dire “c’ero anch’io”) che due o tre anni di doppia circolazione “virtuale”, altrettanti di doppia indicazione di importi e prezzi, campagne pubblicitarie, conferenze, talk-shows, volantinaggi e passaparola, sarebbero stati sufficienti per preparare la maggior parte della gente a “pensare” in euro sin dagli inizi del 2002. Si diceva, fra l’altro, che dovesse essere un po’ come imparare una nuova lingua, nel senso che dopo dopo due o tre anni di “doppia circolazione” italiano/inglese normalmente si riesce ad esprimere con quest’ultima anche esclamazioni istintive e “automatiche”, sicché, entrando in un affollato pub londinese, uno dovrebbe riuscire a dire al proprio tutor, senza soffermarsi a pensare, “how many people” invece dell’istintivo “mamma (o ammazza), la gente!”.

In altri termini, si riteneva che già da gennaio ‘02 la maggior parte della gente si sarebbe – ad esempio – istintivamente e subito scandalizzata se un litro di latte fosse costato 2 € o che avrebbe, istintivamente e subito, ritenuto ragionevole un conto di 30 o 40 € per una cena a base di pesce in un buon ristorante. Insomma, che avrebbe compreso se qualcuno stava mollandogli una sòla senza appunto soffermarsi a riflettere, ossia senza dover preliminarmente eseguire l’ormai celebre moltiplicazione “per 1936,27” (o “per 2.000 meno qualcosa”). Peraltro, devo pure ammettere che tali convincimenti erano riferiti alla “gente normale”, agli “utenti”, giacché per noi – bancari, postali & Co. - il problema non si sarebbe certo posto. Che razza di bancari (oltretutto in missione storica) saremmo stati, sennò?

Appunto. Ora, col “sennò” di poi potrei cavarmela in burocratese/bancario riconoscendo che parte di quelle convinzioni si sono rivelate un pochino ottimistiche. Dirò invece la verità: erano completamente sballate. E quel che è peggio è che non si sono rivelate sballate solo per la gente “normale”, bensì anche per noi “del mestiere”, che difatti continuiamo imperterriti a ragionare, a contare, in termini di centinaia di milioni e di miliardi come se non fossimo stati noi stessi “complici” nell’operazione di sostituzione.

Tuttavia (mal comune ecc. ecc.), tale misoneistica resistenza appare estesa in tutte le direzioni, a prescindere da mestieri, età (i più giovani esclusi, ovviamente), aree geografiche, scolarità e sesso,  soprattutto per quanto riguarda spese non ricorrenti o straordinarie. Nel caso del classico caffè, che abbiamo già pagato con l’euro centinaia di volte, nessuno più verifica il risultato di 0,70 x 1936.27, ormai l’equivalenza “caffè = 0,70 €” è un dato acquisito, “salvato” come il nuovo valore del caffè che ha annullato e sostituito il previgente in lire. Tant’è che un’eventuale richiesta di 1,17 € ce lo farebbe mandare subito di traverso senza bisogno di ricorrere alla Moltiplicazione. Tuttavia, se invece che al bar ci recassimo in concessionaria per l’acquisto di un’auto, noteremmo che quei 36.856,38 euro richiestici si trasformano, istintivamente e subito (stavolta sì…), in “una settantina di milioni”. Sempre, naturalmente, a condizione che non sia il venditore stesso a preventivarci la spesa “in milioni”, come in effetti avviene tutt’ora con significativa regolarità.

Personalmente ritengo che in tutto questo ci sia stata una trascuratezza di fondo, peraltro comprensibilissima data l’eccezionalità dell’evento e l’assoluta mancanza di analoghi precedenti. Voglio dire che più o meno tutti abbiamo sempre pensato all’arrivo dell’euro come a una sola e “semplice” variazione di una unità di misura, una delle tante. E questo è certamente vero, ma solo parzialmente. Perché l’effetto collaterale che ciò ha comportato nelle nostre teste, è stato l’immediato sconvolgimento non tanto dei singoli valori, quanto piuttosto dei rapporti di valore intercorrenti fra beni e servizi di natura diversa, pure saldamente impressi e gelosamente custoditi al nostro interno. In effetti, sul fronte linguistico siamo già “predisposti” ad accettare che uno stesso oggetto possa avere denominazioni diverse: auto, macchina, vettura (e dunque anche car, voiture, automovil, wagen…), mentre rispetto al valore, e alla correlata e conseguente determinazione dei “rapporti di forza” fra oggetti - e priorità - diversi, questo non accade. Non accade perché i valori, di qualsiasi tipo essi siano (benché “volgari” come quelli monetari), devono essere stabili, certi,  incorruttibili,  univoci e unici (quantunque soggettivi), poiché su di essi basiamo scelte, decisioni e bilanci. Sicché un valore non può avere “n” controvalori espressi in altrettante unità di misura. Può solo essere, eventualmente, sostituito da uno nuovo, una nuova quantità espressa in una nuova unità di misura. E solo se vi siamo costretti, naturalmente. Come costretti siamo stati. Ipso iure.

L’introduzione dell’euro non ha quindi comportato solamente la variazione di una unità di misura, ma ci ha altresì imposto un più complesso, e assai meno digeribile, cambio di valore dell’unità di misura dei rapporti fra valori. Che pertanto sono tutti saltati.

Il valore del “Bene dei Beni” - una casa media - si misurava in centinaia di milioni di unità di misura, mentre quello di un’auto in decine. E già questo ha dato luogo a una scala di ordini di grandezza, a una sorta di rapporto gerarchico fra i due beni. Ora, benché l’euro abbia influito indifferentemente e proporzionalmente su entrambi gli oggetti, anzi su tutti indistintamente – ha tuttavia sconvolto, riposizionandoli non una né due, né dieci, bensì la bellezza di millenovecentotrentaseivirgolaventisette volte più in basso, quei rapporti che ci eravamo via via creati e abituati a prendere come riferimento nel corso delle nostre esistenze, acquistando e vendendo quotidianamente beni e servizi. Ha, cioè, improvvisamente cancellato tutti quei parametri di cui ci serviamo per giudicare l’adeguatezza di un costo, non tanto rispetto alle nostre disponibilità economiche del momento o prospettiche, quanto in relazione a graduatorie assolutamente soggettive, nostre personali, e che ad esempio c’inducono a rinunciare all’acquisto di un orologio bello, elegante, firmato e trendy, insomma che ci piace, in quanto – benché potremmo economicamente permettercelo - costerebbe più della Panda con la quale nostra moglie va al lavoro e ci porta i bambini a scuola. Donde considerazioni come “quella macchina costa quanto (o più di) un appartamento”. E si badi che, normalmente, una siffatta osservazione non postula necessariamente un giudizio negativo per quell’auto, per il suo rapporto qualità/prezzo (vedi alla voce Ferrari), tendendo piuttosto a evidenziare l’enorme sproporzione del suo costo rispetto alla personale gerarchia di valori di chi ha fatto quell’osservazione. Che non a caso spesso la integra con altre come “chissà che casa avrà, se può permettersi un’auto come quella”, dando così per scontato che la scala di rapporti di valore del fortunato automobilista dev’essere identica alla nostra, solo che è più ricco. Oppure – qualora abitasse in una capanna pur di girare in Ferrari – che è scemo.

Il fatto interessante è che tali stravolgimenti non hanno riguardato solamente acquisti importanti e impegnativi (e perciò saltuari e infrequenti di natura), come le abitazioni e le automobili, bensì anche quelli “minori” quando, come accennavo, siano di carattere occasionale o straordinario, quando cioè l’abitudine, derivante da centinaia di identici acquisti ripetuti regolarmente giorno dopo giorno, non abbia lentamente sepolto il vecchio valore sotto il nuovo, come appunto per il caffè. Alcuni giorni addietro mi sono recato in un negozio di casalinghi per comprare un forchettone bello lungo. Non cercavo un esercizio di stile da esposizione, ma un attrezzo per girare la carne sulla griglia a distanza di sicurezza. Bene, prima di riuscire a rendermi conto che l’oggetto propostomi dalla commessa costava un’esagerazione – naturalmente rispetto alla mia personalissima gerarchia di valori - ho dovuto ricondurre a “circa ottantamilalire” i 42,15 € stampati sul manico (fra l’altro quel “circa ottantamilalire” m’è servito a comprendere sia la natura “artistico/edonistica” del forchettone, sia soprattutto che si sarebbe arrostito assieme alla carne al primo tentativo di adoperarlo. Ovviamente l’ho lasciato lì).

Insomma, pare proprio che il “per 1936,27”  continuerà a farci girare le… meningi ancora a lungo. D’altronde, vero è che a complicarci ulteriormente “il trapasso” – e almeno questa previsione l’avevamo azzeccata, ma era fin troppo facile – per noi italiani c’è stato l’aggravio dovuto alla (re)introduzione dei decimali, che in effetti rappresentano una rottura non da poco nella vita di tutti i giorni, abituati com’eravamo a comode moltiplicazioni per multipli di interi di unità di misura o a divisioni che, per quanto “spinte”, non davano mai un risultato inferiore all’unità di misura stessa, tanto poco valeva la lira. Cosa che, peraltro, dal punto di vista “fisico” ci ha a sua volta costretti a adattarci frettolosamente al trasporto di pesanti fardelli di monete nelle tasche, già gonfie di portafogli, cellulari, sigarette, accendini, fazzoletti, chiavi e telecomandi. Monete che, soprattutto d’estate quando mancano le tasche extra di giacche e cappotti, diventano ancor più fastidiose, a partire da quelle monetuncole rossastre, corrispondenti a quella coppia di subdoli numerucci nascosti dietro la virgola, apparentemente privi di valore e – invece! - in perenne agguato contro l’inflazione. Anzi, in favore di questa.

Fra l’altro tutto ciò è spesso causa di buffe contraddizioni in termini, tant’è che più d’una volta mi è capitato di sentir dire qualcosa come “costerà una ventina di euro, lira più lira meno”. Ma forse sarà proprio dai modi di dire che capiremo quando il cambiamento si sarà veramente e definitivamente compiuto, quando cioè espressioni come “non c’ho ‘na lira”, “non vale dieci lire” o “non ci scommetterei manco cinquanta lire”, saranno solo un ricordo. Ma, riazzardandomi cocciutamente in previsioni (anzi, facendo spudoratamente marcia indietro rispetto a quelle di qualche anno fa), un fatto del genere non mi pare che sia proprio dietro l’angolo.

D’altra parte non è certo un caso se i media continuino sistematicamente a tradurre in lire gli importi di manovre finanziarie, deficit, entrate fiscali, appalti pubblici, vincite al superenalotto e disastri ambientali, per i quali – evidentemente – la vera entità dei valori in ballo non è ancora resa come tale dalle cifre in euro.

L’unica cosa che non riesco a capire è il perché i suddetti media si ostinino a definirle “vecchie lire”: non essendocene di nuove, il rischio di confusione non esiste e l’aggettivo è, dunque, pleonastico. A meno che non sia un sotterfugio, un peccatuccio veniale d’omissione per non esprimere chiaramente - e per intero - quel che molti di noi ancora pensano, e cioè “care, vecchie lire”.

O no?

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