Organizzazioni ed emozioni
Sembra che le relazioni
che caratterizzano l'ambito professionale debbano essere anestetizzate e che
tutta l'affettività e le emozioni vadano giocate - quando va bene - nella
sfera intima. Quanti esempi ciascuno di noi potrebbe fare a tal proposito.
E' vero, però, che questo orientamento almeno a livello teorico è
un po' stato messo in discussione recentemente: basti pensare al successo che
ha riscosso nella letteratura manageriale il bel volume di Goleman " L'
intelligenza emotiva" 1. E come
sempre viene dall'America e si sta affermando anche da noi una nuova ventata
di attenzione alle emozioni che trova anche in alcuni programmi di formazione
un'articolazione operativa.
Per anni, però, si è ritenuto che appena entrati in ufficio -
soprattutto se in ruoli di responsabilità - ci si dovesse, ancor prima
di togliere il cappotto, spogliare della propria affettività, lasciare
ogni preoccupazione e vestire un abito esclusivamente "professionale".
Come se le persone potessero dividersi a metà, potessero scindersi, separarsi,
divenire delle parti, secondo il contesto e a dir la verità la pressione
sociale e la cultura organizzativa dominante per decenni sono state così
forti che in molti casi questa scissione si è veramente prodotta.
E questa scissione ha prodotto anche parecchi danni nella qualità delle
relazioni interpersonali nelle organizzazioni, cioè nel modo in cui le
persone stanno insieme nell'ambito lavorativo. Peccato che dal modo in cui le
persone stanno insieme nell'ambito lavorativo dipenda anche la qualità
del lavoro. Ma questo, forse, se pur lentamente lo si sta cominciando a comprendere.
Come pure si sta lentamente cominciando a comprendere che tutta l'ansia e l'angoscia
che sono presenti all'interno delle organizzazioni devono poter trovare un modo
per raccontarsi e quindi per essere affrontate pena l'incapacità/impossibilità
di portare a termine il compito.
Mi ha colpito non molto tempo fa la lettura sul Corriere della Sera di un articolo
dal titolo " Cercasi Direttore della Felicità".
Si trattava di questo. Un'azienda di medie dimensioni, situata vicino a Milano,
ricercava una figura manageriale, da inserire nella Direzione Risorse Umane,
per occuparsi del benessere dei dipendenti.
Si potrebbe anche liquidare l'iniziativa come un attacco strumentale di paternalismo,
ma forse la notizia dovrebbe far riflettere più seriamente su come in
taluni casi ci si cominci a porre il problema di prendere in considerazione
la persona inserita nell'organizzazione come una persona intera.
E, in quanto persona intera, portatrice di bisogni, di emozioni, di interrogativi
cui è necessario tentare di dare una risposta nel contesto organizzativo.
Del resto, nella complessità delle nostre nuove relazioni sociali è
sempre più evidente l'emergere di un nuovo protagonismo del soggetto
che chiede di esprimersi in quanto tale, senza negare la dimensione del gruppo
che pure resta di fondamentale importanza.
In fondo non si parlerebbe tanto della necessità delle organizzazioni
di attrezzarsi ad ascoltare i propri dipendenti se non si fosse compresa l'importanza
delle emozioni.
Che cosa è l'ascolto per lo più infatti se non l'ascolto di emozioni?
Ecco che diventa di grande rilevanza la capacità empatica del capo nel
colloquio con il proprio collaboratore di ascoltare e di ascoltare le sue emozioni,
quelle espresse e molto di più quelle che fanno fatica a trovare le parole
per essere dette.
Infatti, spesso è nel colloquio profondo che le emozioni che stentano
a uscire possono trovare un contenitore che sappia elaborarle e rispecchiarle
per dare loro una voce e un senso. C'è un grande bisogno nelle organizzazioni
di trovare un senso e un senso condiviso al proprio agire quotidiano.
Si parla tanto di senso di appartenenza. Ma che cosa è questo se non
soprattutto l'emozione di riconoscere di essere "visti" dalla propria
organizzazione, di essere compresi nella propria unicità , di essere
valorizzati?
Il paradigma della complessità sociale si arricchisce e si interpreta
solo se si coglie il paradigma della complessità individuale e in questo
senso se si vuole svelare un po' di verità bisogna partire da quell'impasto
di razionalità e di emozioni che il soggetto presenta e rivendica spesso
in modo confuso e contraddittorio, anche perché manca ancora nella nostra
cultura sociale un'educazione ai sentimenti.
D'altra parte, le organizzazioni sempre più si trovano confrontate con
questioni che impongono una capacità di leggere i fenomeni della complessità
soggettiva.
Basti pensare al tema fondamentale del cambiamento.
Bisogna necessariamente anche entrare in contatto con le emozioni profonde e
le paure che il cambiamento può suscitare se si vuole tentare di traghettare
le organizzazioni verso nuovi modelli, nuovi ruoli, nuove sfide.
Non basta scrivere nei documenti le nuove strategie e le nuove regole perché
queste vengano condivise e fatte proprie dalle persone che le devono interpretare.
Non si può parlare solo alla testa, ma bisogna trovare il modo di rivolgersi
anche all'emotività delle persone, alle loro passioni perché l'agire
professionale è dettato fortemente anche da questa componente e non si
può più fingere che non esista.
Note:
1 Daniel Goleman "Intelligenza
emotiva" (Rizzoli 1997, ed. origin. 1995).