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Nicola Gaiarin

Variazioni sulla globalizzazione

recensione a:
Filosofia e (critica della) globalizzazione

Almanacco di Micromega, 5/2001

 

In attesa dell'edizione italiana di Empire (tradotto fra pochissimo da Rizzoli) e dei dibattiti che verranno alimentati dal best seller annunciato di Toni Negri, vorrei prendere in considerazione il recente almanacco di filosofia della rivista Micromega, dedicato al tema - quasi scontato - "filosofia e globalizzazione". A dire il vero il titolo è più preciso: "Filosofia e (critica della) globalizzazione", e la parentesi non fa altro che confermare una tendenza dell'intellighenzia italiana nell'affrontare la questione. Della globalizzazione si parla, preferibilmente male, in punta di lingua (o di penna). Mettendola fra parentesi, per non sporcarsi le dita, o sottolineando la necessità di adottare un sovrano distacco critico, come se questo tema dovesse sempre entrare trasversalmente nella riflessione o venire in primo piano solo come nemico da combattere. Un ospite sgradito da mettere al più presto alla porta, ma anche un fantasma da cui non ci si può liberare con troppa fretta. Pena l'inattualità, la rapida obsolescenza, il ritrovarsi fuori dal mondo e fuori dal giro.

Da questo atteggiamento deriva una prima impressione. Quasi tutti gli autori presenti nell'almanacco sono in evidente ritardo: sono stati presi in contropiede e cercano di rincorrere gli eventi. I loro interventi, tutti molto interessanti e ricchi di brillanti chiavi interpretative, non dipingono un quadro del presente, ma appaiono piuttosto come il tentativo di aggiornare un bagaglio concettuale decisamente fuori moda. Insomma, i filosofi vogliono essere up to date, aggiornati, tiratissimi. Vogliono sui loro testi la griffe della globalizzazione, salgono sull'ultimo modello di scooter, preferibilmente con l'optional dell'undici settembre. Infatti non mancano i postscriptum, le appendici, gli aggiornamenti in corsa. Allora il primo consiglio di lettura potrebbe essere questo: leggete l'almanacco e sarete al passo coi tempi. Il vostro cervello, con il prestigioso kit di elaborazione, avrà una marcia in più.

È un po' come al Processo di Biscardi. Sotto lo sguardo vigile del padrone di casa, ogni ospite rimette la moviola per cogliere quel particolare infinitesimale che è sfuggito a tutti gli altri. Ovviamente si tratta sempre del particolare che conferma le ipotesi di partenza, perché il fuorigioco lo vedi solo se lo cerchi. Anche il tono del dibattito sulla globalizzazione è impostato sul "ve l'avevo detto". Tutti i filosofi ammettono la sorpresa iniziale di fronte ai fatti dell'undici Settembre, eppure riescono in un attimo a rimettere a nuovo i loro concetti. Nessuno vuole mostrarsi realmente impreparato di fronte a quello che è accaduto: era solo questione di tempo e il capitalismo planetario avrebbe generato il proprio nemico interno. Occidente e Islam, alla fine, sono i due volti dello stesso mostro illocalizzabile, vale a dire il mercato globale. Sia chiaro, non si tratta di entrare nel merito delle singole affermazioni. Voglio solo constatare la rapidità con la quale le smagliature teoriche vengono riparate di fronte alla pressione del mondo esterno. Nessuno si tira indietro o si astiene dal dire la sua. I nomi di questi opinionisti di lusso sono prestigiosi: Cacciari (perché l'impero romano è parente stretto del nuovo empire globale); Cavarero (perché la politica dovrebbe ripartire dall'assoluto locale e dal volto dell'altro); Habermas (perché la secolarizzazione dovrebbe funzionare da ponte tra tecnica e religione); Vattimo-Rorty-Taylor (perché America ed Europa dovrebbero annusarsi un po' di più) e molti altri. Secondo motivo per leggere l'almanacco: è la riedizione apocalittica di quei libri dei perché che forniscono ai bambini tutte le risposte alle domande più insolite.

In ogni caso, il nocciolo della questione sembra essere questo. La globalizzazione fa girare rapidamente il mappamondo degli stati, al punto che i confini non si vedono più e l'osservatore rimane un po' disorientato. Lo stato nazione è ormai in crisi irreversibile e ogni conflitto si rivela in realtà una lotta intestina: se cadono i confini che separano l'interno dall'esterno la guerra diventa una guerra civile permanente. La politica ha lasciato il posto ad un pericoloso moloch tecnico-economico-amministrativo che azzera le differenze culturali sotto la bandiera del mercato mondiale. La gestione delle risorse ha sostituito i luoghi istituzionali di governo degli stati. Le multinazionali aumentano a dismisura il divario economico e sociale tra nord e sud del mondo. L'Europa è priva di unità politica e nessuno se la fila. Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Forse solo chi credeva nella capacità di autoregolazione del contratto sociale (come Rawls o Veca) può rimanere sinceramente stupito dallo stato delle cose. Naturalmente, come notava Gianfrancesco Prandato nella recensione ad Empire, il tutto non è supportato da un minimo di riferimento alla realtà "vera". Si parla vagamente di comunità e di federalismo europeo, senza chiarire come la situazione potrebbe o dovrebbe cambiare.

A questo punto l'unico atteggiamento davvero coerente mi pare quello dello stesso Toni Negri. La sua analisi, accennata in un dialogo a tre voci con Roberto Esposito e Salvatore Veca, sembra abbastanza "visionaria" da contenere qualche elemento davvero efficace per leggere la realtà. Empire come macchina che spiana i confini e liscia lo spazio. Azzeramento delle istituzioni e del principio di rappresentanza. Immanenza di politico ed economico, spinta vitale delle moltitudini intese come aggregati di singolarità. Mobilità e immaterialità del lavoro. Oscillazione vertiginosa tra euforia movimentista (da Seattle a Genova) e quietismo alla Madre Coraggio (saliamo sulla carretta e speriamo bene, mentre fuori la guerra impazza). Attendiamo, dice Negri, guardiamo come vanno a finire le cose. Possiamo solo tracciare mappe e suggerire direzioni di transito. Le moltitudini possono essere indirizzate, non analizzate. L'analisi si può concentrare così sul funzionamento dell'apparato imperiale che innerva e sostiene il nuovo ordine. In attesa che passi l'onda lunga del mercato globale e delle sue guerre, si può solo tener duro cercando di smontare gli ingranaggi della macchina mondiale.

Unico problema: le stesse cose le dicevano Deleuze e Guattari in tempi meno sospetti (Mille Plateaux, anno di grazia 1980) parlando di spazi lisci e striati, di molteplicità e singolarità, di patchwork come raccordo tra parti eterogenee. Di crisi del diritto e delle istituzioni. Di relazioni tra soggetti non sostanziali che si connettono trasversalmente all'interno di uno spazio non preesistente alla relazione stessa. Di linee di fuga come elementi di apertura dei confini della soggettività. Gli orfanelli dell'ortodossia marxista alla fine si ritrovano dalla parte degli eretici francesi. Terzo invito alla lettura: leggete Micromega e poi andate a cercare in Deleuze le concordanze e le assonanze tematiche. Ovviamente si tratta per la maggior parte di riferimenti che passano sotto silenzio, perché Deleuze non lo ha preso sul serio quasi nessuno, è circolato sottobanco rispetto ai grandi dibattiti contemporanei. Se ne parlava sottovoce, come se fosse il parente matto che si fa finta di non conoscere. Solo Negri, altro atto di onestà, ha riletto il proprio pensiero attraverso un robusto filtro deleuziano. Si assiste così ad uno strano gioco di ruolo, con i buoni maestri dell'intellighenzia che pagano dazio al cattivo maestro Negri che, a sua volta, li costringe volenti o nolenti a mandar giù i bocconi avvelenati dell'odiato (o mai amato) Deleuze. Intanto Empire aleggia su tutto il dibattito, libro da leggere e, ancora meglio, da citare.

Più che alla disintegrazione dell'ordine mondiale sembra di assistere all'implosione delle vecchie categorie del pensiero politico. Che c'entra la globalizzazione con questi regolamenti di conti ad uso interno? Niente. Appunto.

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