BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 22/01/2007

Riccardo Paterni

CINQUANT'ANNI DI PROGRESSO SENZA FELICITA', OVVERO COSA CAPISCONO GLI ECONOMISTI

recensione di:
Richard Layard

Happiness: Lesson from a New Scienca, 2005; trad. it Felicità. La nuova scienza del benssere comune

Rizzoli, 2005.

Richard Layard da tempo ha fondato un affermato centro di ricerca economica presso la London School of Economics. La sua formazione e il suo lavoro sono di economista puro, tutto numeri, statistiche, osservazioni e predizioni sul comportamento economico delle persone... anzi di consumatori e lavoratori. Questo background da ancora più valore a questo libro da un titolo piuttosto sibillino per un’economista “Felicità. La nuova scienza del benessere comune”; infatti la dottrina economica classica fa perno su due fattori: comportamenti (non sentimenti) e massimizzare il benessere individuale (il benessere comune viene dopo, come conseguenza); è quindi quantomeno insolito che un economista della fama di Layard si metta a scrivere un libro con un titolo simile.

In realtà, noi comuni mortali non economisti, dopo aver letto il libro non possiamo che fare un commento: “vuoi vedere che anche nelle stanze dei bottoni di politiche economiche e sociali passo passo arriveremo ad avere un po’ di buon senso? di senso della realtà concreta?!”. Iniziare dal considerare la felicità come elemento di misura del benessere individuale e collettivo è un ottimo punto di partenza... da notare che Layard ammette di aver seriamente considerato il tema solo nel corso degli ultimi anni quando progressi nell’ambito neuroscientifico hanno permesso di poter ‘osservare scientificamente’ (è questa la terminologia che piace agli economisti) se le persone effettivamente dicono la verità quando affermano di essere più o meno felici (infatti è oggi possibile ottenere delle immagini dell’attività celebrale: sentimenti positivi generano un incremento di onde celebrali nella parte frontale di sinistra del cervello, sentimenti negativi nella parte frontale di destra) e ora gli economisti - se non altro quelli dalla visione più ‘lunga’ come Layard - sentono di poter fare ragionamenti seri e sensati anche sul tema della felicità. Questo libro rappresenta semplicemente un’introduzione a questa nuova prospettiva di politica economica e sociale.

Cinquanta anni di ‘progresso’: eppure non siamo maggiormente felici

Questa è l’osservazione da cui parte l’analisi di Layard: nel mondo occidentale negli ultimi cinquanta anni c’è stato un incremento di progresso materiale eppure, dati alla mano, questo non ha contribuito ad un incremento della felicità nelle persone. Chiedersi il perché di questo può apparire a molti retorico, quasi banale (ci sono tanti detti popolari che ci aiutano a rispondere...) ma, con pazienza, seguiamo il metodo scientifico di estrazione economica e vediamo dove ci porta... In realtà, se si ha appunto la pazienza di seguire il filo logico e razionale che viene costruito, emergono cose interessanti e soprattutto Layard arriva a trattare (ad introdurre, principalmente) vari argomenti e fattori che hanno un diretto impatto sulla nostra percezione di felicità. In questo senso la lettura del libro può essere a tratti tediosa (almeno nella versione originale in inglese che io ho letto) ma ci da anche modo di documentarci su studi e ricerche che danno ‘sostanza’ a considerazioni che magari siamo abituati a fare in modo istintivo e disorganizzato; quindi diamo credito al metodo degli economisti!

I sette fattori che influenzano la felicità...

Layard evidenzia i “big seven factors” che influenzano la felicità; sono fattori che emergono da vari studi e sondaggi svolti a livello globale soprattutto negli ultimi venti, venticinque anni. I sette fattori sono, in ordine di importanza e di impatto: 1) rapporti in famiglia; 2) situazione finanziaria; 3) situazione lavorativa; 4) rapporti con la comunità e con gli amici; 5) stato di salute; ci sono poi due fattori aggiuntivi che a loro volta influenzano ciascuno dei precedenti cinque: a) la percezione di libertà personale; b) i valori individuali. Una descrizione e analisi di questi fattori ci porta a trarre alcune conclusioni che magari già fanno parte del ‘buon senso comune’ ma che ora sono convalidate dal metodo di lavoro di un illustre economista; eccone alcune: siamo più felici quando riusciamo a non essere completamente assorbiti da noi stessi e in noi stessi, ma abbiamo anche un attivo interesse verso il benessere altrui; il lavoro non serve a darci solo mezzi materiali di sostentamento ma anche un senso di significato e di realizzazione intrinseco che ha un notevole impatto sulla percezione di felicità; le percezioni che abbiamo del contesto che viviamo, in altre parole come lo ‘incorniciamo’, ha un impatto sostanziale sulla nostra percezione di felicità; la felicità è un obiettivo individuale comune, al tempo stesso le persone fondamentalmente hanno anche un senso morale che le porta a dare valore anche al senso di felicità altrui. Layard fa leva appunto su questa ultima considerazione nel portare avanti la sua causa: fare si che la felicità di tutti venga considerata come un reale parametro di misura del benessere di una collettività (comunità, nazione o continente che sia).

Misurare la felicità per comprendere il vero benessere. Ma allora gli economisti cosa ci capiscono?

Questo è appunto l’interrogativo che Layard si pone in uno dei capitoli chiave del libro. Da tempo il benessere di una nazione è misurato in termini di Prodotto Interno Lordo, non di felicità. E’ interessante notare che non è sempre stato così: alla fine del 19mo secolo infatti la maggior parte degli economisti inglesi riteneva che fosse la felicità, e la felicità in senso collettivo, a rappresentare l’indice di benessere di una nazione. Questi economisti ritenevano che la felicità fosse un fattore misurabile e ritenevano inoltre che l’incremento di ricchezza materiale contribuisse ad un incremento progressivamente decrescente della felicità individuale. Ma poi, a partire dagli anni trenta, la scienza psicologica del comportamento (James, Pavlov, Skinner) acquisì progressivamente una maggiore importanza rispetto a fattori ‘interni’ di sentimento come appunto la felicità e dati numerici ‘concreti’ finirono per rappresentare la sostanza di analisi e scelte economiche. Da qui il benessere misurato in termini di Prodotto Interno Lordo ed il comportamento economico delle persone legato alle loro disponibilità materiali (più potere di acquisto equivale a più benessere) hanno finito per appiattire (anzi, per deformare) il senso della realtà: basta chiedere in giro cosa pensino le persone del Prodotto Interno Lordo come indice del benessere di una nazione. Chi si presta a somministrare il sondaggio? (attenzione: si prevedono rischi anche di natura fisica...). Layard a questo punto evidenzia che c’è dunque bisogno di ‘una nuova scienza economica’, una scienza che sappia integrare considerazioni di natura psicologica e sociale utili a ridurre il senso di artificiale semplificazione della realtà che fino ad oggi ha caratterizzato la dottrina economica. Dottrina che purtroppo ha un impatto diretto su scelte reali di politica economica e sociale...

L’economia che arriva ad interessarsi della mente e non semplicemente del ‘comportamento economico’

In questi termini tutto il quadro degli economisti si complica notevolmente: non basta osservare il ‘comportamento economico’ delle persone per poter fare considerazioni sul loro benessere, è necessario addentrarsi in ‘terreni impervi’ quali i valori (intesi in senso psicologico, non materiale), percezioni, impatti psicologici su cambiamenti sociali, salute mentale e così via. Layard ancora una volta fa un interessante quadro introduttivo sul tema. Si trattano argomenti come il Buddismo, la psicologia positiva e la terapia cognitiva per arrivare passo passo all’argomento chiave: la consapevolezza e cura del nostro essere interiore. Ne viene fuori che abbiamo fatto e stiamo facendo tanto per capire, comprendere, modificare, migliorare il nostro essere esteriore, gli aspetti materiali ma sappiamo ben poco, o meglio non approfondiamo debitamente, la nostra dimensione interiore (ad esempio Layard mette in evidenza che nel mondo occidentale la depressione è una malattia che ha un impatto notevolissimo a livello sociale e si.... anche produttivo. Eppure soltanto circa un quinto delle persone affette dalla malattia scelgono con consapevolezza di curarla). Se ne conclude che “conosci te stesso” non assume più semplicemente un valore filosofico ma anche un valore concreto e reale in termini di percezione di benessere non solo individuale ma anche collettivo. Layard stesso giunge ad articolare questa conclusione.

Una ‘dimensione interiore’ che ha un impatto concreto non solo in termini di benessere ma anche di produttività

L’autore riflette su cosa succede quando ci troviamo a fare un lavoro che veramente ci piace, che ci da appagamento intrinseco, non importa il tipo di difficoltà con la quale ci confrontiamo: succede che diamo il meglio di noi stessi senza nemmeno accorgercene; da tempo questo è stato associato al concetto di “flow” (di cui abbiamo parlato anche su queste pagine). Che valore ha questo in termini di benessere e di produttività? Un valore notevole; un valore del tutto sconosciuto alla disciplina economica classica, e non solo a quella!... Layard invita chiaramente a prestare maggiore attenzione a questi aspetti. Sempre per evidenziare pratiche di misurazione e motivazione diffuse (e legate al concetto guida di continua crescita ed espansione materiale del Prodotto Interno Lordo) Layard fa notare che “getting ahead” (andare avanti, avvantaggiarsi) è un tema guida del sistema educativo britannico, ebbene proprio dal sistema educativo dovremmo iniziare ad infondere valori che affermano che la vera soddisfazione nel produrre e nel lavorare non viene “dall’avvantaggiarsi” ma viene dal fare qualcosa fatto bene... L’aspetto qualitativo del fare e del vivere acquista valore rispetto a quello quantitativo; sembra quasi di fare retorica, in realtà se questo tipo di retorica entrasse veramente nella mentalità della politica economica e sociale (come Layard auspica) si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione...

E allora? Allora possiamo iniziare noi stessi a dare forza a questa rivoluzione

La felicità come ‘strumento’ di misura del benessere individuale e collettivo, benessere da considerare anche come indice di produttività, creatività e pieno utilizzo delle potenzialità individuali e collettive... Questa è (sarebbe) veramente una rivoluzione. Una rivoluzione peraltro non ‘semplicemente’ basata su aspetti di filosofia o etica, bensì basata su aspetti di pragmatica interazione con la realtà reale e concreta, non semplicemente con le semplificazioni di statistiche e tradizionali dati economici (e questo libro articola ampiamente questo tipo di prospettiva).

Vogliamo provare ad alimentare questa rivoluzione a partire dai nostri ambienti di lavoro? Ecco un piccolo spunto per iniziare: quando facciamo selezioni di personale o ci incontriamo periodicamente con i nostri collaboratori per dare e ricevere feedback, proviamo a fare questa semplice domanda “cosa è che ti rende felice?”; e non limitiamoci ad accettare scontatissime considerazioni relative alla mentalità da ‘Prodotto Interno Lordo’. Non cadiamo nemmeno nella trappola di “non voler creare aspettative irrealizzabili” non dimentichiamo infatti che la felicità è legata a come sappiamo ‘incorniciare’ contesti e situazioni, se non ci abituiamo a comprendere il modo di ‘incorniciare’ nostro e quello degli altri non arriveremo mai a poter utilizzare strumenti e strategie di vero impatto sul benessere nostro e di chi ci sta vicino.

Pagina precedente

Indice delle recensioni