BLOOM! frammenti di organizzazione

Stefano Rosato

Pellegrinaggio nell'Impero
recensione di:
Michael Hardt e Antonio Negri,
Impero
Ed.Rizzoli, 2002

 

L’evento fondamentale del quale si occupano Michael Hardt e Antonio Negri in Impero [1] è costituito dall’irruzione della post-modernità nel mondo moderno. Tale avvento produce alterazioni strutturali a livello politico, sociale, economico e culturale, ridislocando tutte le figure della modernità in uno spazio e in un tempo affatto nuovi, all’interno dei quali deve essere coerentemente ripensato anche il pensiero critico, sia per ciò che concerne i suoi aspetti teorici, sia per quanto riguarda le possibilità della sua messa in azione pratica. Il fenomeno della globalizzazione, con l’accelerata e vorticosa circolazione di capitali e uomini, con la rottura sistematica di qualsiasi spazio chiuso, con l’infinita ricchezza delle sue connessioni in forma di rete, comporta, anzitutto, una ridefinizione della sovranità. Se, infatti, nel moderno lo Stato era definito dai suoi confini, in una dialettica interno/esterno, amico/nemico, che dava luogo alle singole specificità culturali, etniche, sociali, ecc…, è evidente che, una volta venuta meno la ragion d’essere di quei confini, il concetto di sovranità statale non ha più alcuna presa sulla realtà, e lo Stato non è più in grado di svolgere il suo ruolo di regolatore dei conflitti economici, politici e sociali. Anzi, in determinate condizioni, esso rischia di divenire un serio ostacolo allo sviluppo delle dinamiche economico-sociali, come è evidente se si presta attenzione alle politiche restrittive in tema di immigrazione delle quali è paladina, un po’ in tutta Europa, la destra conservatrice. L’importanza degli Stati, pertanto, sarà sempre meno crescente e le loro determinazioni sempre più flessibili e meno rigide, in quanto, qualora ciò non fosse, le singole economie e società che fanno riferimento a quegli Stati, rischierebbero, nell’isolamento, la morte per asfissia. Me c’è di più: proprio perché le modalità economiche complessive sono globalizzate, la singola indipendenza di ciascuno Stato è minata alla radice, in quanto, le politiche che dovessero prevederla in modo veramente esclusivo, entrerebbero in immediato conflitto con la logica economica globale, la quale non può fermarsi di fronte alle pretese di un singolo Stato. Affinché ciò non avvenga si sta costituendo una serie di poteri appunto globali, sovranazionali, con facoltà di disposizione sui singoli Stati. Tale facoltà di disposizione, tuttavia, incontra delle serie difficoltà sul terreno della determinazione giuridica, in quanto il diritto internazionale è nato come un corpo di regole atte a definire i rapporti fra gli Stati, mentre qui si tratta di determinare i rapporti di ciascuno Stato con la globalità. Pertanto, almeno in questa fase dello sviluppo storico dell’Impero, vi è come un difetto di formalizzazione giuridica: i vecchi organismi sovranazionali derivati dal diritto internazionale tipico della modernità sono ormai inutili, mentre i nuovi organismi imperiali non godono di una legittimazione giuridicamente determinata in maniera cogente. Ne deriva un certo grado di arbitrio nell’esercizio del potere da parte di questi ultimi, non nel senso di un’illegalità (poiché, in realtà, non esiste ancora un diritto in grado di normare i comportamenti), ma nel senso di una pre-legalità (il caso degli ultimi interventi armati americani è, in modo del tutto evidente, una forma di azione politica pre-legale). Ma ciò che antecede e fonda la sfera del diritto è appunto la sfera politica pura, immediata. In altre parole, stiamo assistendo a un momento fondante, costituente, dove le istituzioni sono embrionali e il sistema di regole è ancora molto abbozzato. Tuttavia, al di là di quale ne sarà la configurazione finale, ammesso che mai vi si giunga, ciò che appare certo è che le logiche del diritto della nuova epoca saranno assai diverse da quelle del diritto statale della modernità, il quale si fondava sull’esistenza di un fuori che nell’epoca della globalizzazione è semplicemente impossibile pensare. [2]

La scomparsa del vecchio ordine degli Stati rende il capitale molto più libero di muoversi e di determinare le dinamiche sociali di quanto non fosse in passato e la sua sfera di azione diventa assoluta, non più soltanto nel senso di una continua estensività, ma anche in quello di una radicale intensività. Non vi è più nulla che sfugga alla presa del capitale perché non vi sono più argini di alcun genere al suo libero dispiegarsi: in termini marxiani, non vi è più spazio per il ciclo di accumulazione originaria e realizzazione, non vi sono più territori non capitalistici da sfruttare per il processo di accumulazione originaria, prima, e come mercati neo-capitalistici, poi. In questo senso, ormai divenuto adialettico, il capitale si impone nella sua assoluta purezza e globalità, distruggendo o rendendo di fatto inutile tutta l’architettura della sovranità moderna: “il dissolvimento della società civile e la crisi generale delle istituzioni disciplinari coincidono con il ridimensionamento degli Stati-nazione. […] L’affermazione della società globale del controllo […] è accompagnata dalla realizzazione del mercato mondiale e dalla sussunzione reale della società globale sotto il comando del capitale”. [3] Poiché la sussunzione non è più formale, non riguarda più cioè soltanto i meri mezzi della produzione e la sua forma, ma si estende alla produzione della socialità nel suo complesso, essa diviene reale, si realizza in maniera completa. Il capitale, pertanto, determina non solo le modalità della produzione, ma anche quelle della riproduzione sociale, e compie questo atto di sussunzione non in termini negativi o per differenza, ma in modo diretto e immediato: tempo del lavoro e tempo libero (quindi anche della ri-creazione e della ri-produzione) sono ormai totalmente contemporanei, sono un unico tempo, e in questo scenario il potere non è più un che di trascendente separato dalla vita, ma si configura, propriamente, come biopotere. Ma la determinazione dei tempi e la regolamentazione dei processi che in questi tempi si svolgevano erano stati uno dei principali problemi operativi della sovranità moderna. Come ha mostrato a più riprese in tutte le sue opere Michel Foucault, la società moderna era una società disciplinare, che regolamentava le libertà di movimento e di azione dei corpi in ambiti spazio-temporali appropriati: ciò che il singolo soggetto era a scuola o al lavoro, era diverso da ciò che era a casa, in famiglia, o negli spazi della socialità ludica. La strategia del moderno era affidata a una serie di tattiche specifiche, valevoli per ciascuna delle unità spazio-temporali nelle quali veniva, a seconda delle epoche, suddivisa la vita. Nella società post-moderna queste compartimentazioni non sono più possibili, il tempo e lo spazio sono unificati, sono possibili la contemporaneità e la sovrapposizione di molteplici piani spaziali; vi è, in altre parole, un grado infinitamente superiore di libertà per qualunque individuo. Ne consegue che la strategia del post-moderno non può più essere affidata a specifiche tattiche [4] , ma deve essere tutta e sempre presente nell’ibridazione dei singoli processi, anzi del singolo processo unificato, della vita sociale: dalla società disciplinare di Foucault si passa così a una società del controllo, che per vigere deve essere quanto più possibile introiettato. La dimensione comunicativa (e spettacolare) del mondo post-moderno, il suo linguaggio, le sue reti di transito delle informazioni costituiscono le principali modalità attraverso le quali l’Impero costruisce la forma di controllo appropriata alla nuova situazione. Ne consegue, fra l’altro, che qualunque azione politica all’interno dell’Impero, ovviamente anche se alternativa all’Impero stesso, dovrà avere una dimensione comunicativa, un proprio linguaggio e una propria modalità di rete, globali come lo sono quelle dell’Impero. Ancora una volta lo Stato appare uno strumento inadeguato a gestire il passaggio dalla società disciplinare a quella del controllo, proprio perché, ideologicamente, esso non si pone come globale, ma come ente limitato fra altri enti limitati.

La nascita dell’Impero

Lo Stato finisce a causa delle inadeguatezze sopra esposte, in quanto si rivela incapace di regolamentare i conflitti sociali, politici ed economici e di istituire una società del controllo. E’ tutto lo sviluppo del moderno che porta a questo esito; il moderno, infatti, è strutturalmente inscritto in una dinamica di natura critica, derivante dalla “compresenza tra la moltitudine e un potere che vuole ridurla sotto il comando di uno solo, o, in altri termini, […] tra un nuovo assetto produttivo di libere soggettività e un potere disciplinare che le vuole sfruttare”. [5] In questo conflitto, nel quale, marxianamente, per Hardt e Negri si mostra l’infinito e costante desiderio di libertà tipico del proletariato, vi è sempre un inseguitore (il potere) e un inseguito (il proletariato), il quale ultimo sposta continuamente il piano del conflitto, appropriandosi di strumenti sempre più sofisticati e acquisendo competenze e conoscenze (culturali e sociali) sempre più profonde. E’ pertanto l’inseguitore a piegarsi alla logica dell’inseguito, e, pur rimanendo sempre nel suo ruolo, pur “vincendo” sempre, è in realtà sempre lui a perdere, in quanto gli spostamenti dell’inseguito comportano altrettanti spostamenti dell’inseguitore sul suo terreno. E’ così possibile rileggere tutta la storia del capitalismo moderno come un costante tentativo del potere di annullare la forza del proletariato per il tramite di strumenti sempre più complessi: per esempio l’innovazione tecnologica può essere vista come la ricerca di una soluzione ai problemi derivanti al capitale dall’incremento del costo del lavoro, a sua volta prodotto delle lotte sindacali proletarie. Così “la formazione dell’Impero costituisce una risposta all’internazionalismo proletario”. [6]

Le principali caratteristiche dell’Impero sono, come si è detto, la mobilità degli spazi, dei tempi, delle masse umane e del capitale, all’interno di un contesto massimamente aperto in quanto non più limitato da nulla. L’Impero viene determinato, da Hardt e Negri, in prima battuta, come una struttura tripartita, fondata su tre piani di articolazione, a loro volta suddivisibili in differenti livelli: un primo piano nel quale si trovano, gerarchicamente, l’egemonia americana dell’uso della forza, il controllo da parte dei paesi ricchi degli strumenti monetari e finanziari, e le associazioni di potenze occidentali che costituiscono la sfera del potere culturale e del biopotere; un secondo piano nel quale si trovano, al primo livello, gli attori operativi dello sviluppo del capitalismo post-moderno, le multinazionali, e, al secondo livello, gli Stati-nazione nel loro complesso; e un terzo piano, nel quale sono situabili tutte quelle organizzazioni che, a vario titolo, rappresentano gli interessi popolari nell’organizzazione del potere globale: le ONG soprattutto, ma anche gli Stati-nazione minori, i media, i fondamentalismi religiosi in quanto organizzazioni di tutela di bisogni e mentalità specifiche. [7] Sulla base della classica analisi condotta da Polibio sull’Impero romano, a ciascuno di questi piani corrisponde una funzione del potere, che, prima dell’Impero, si era presentata solo per sé e che, con l’Impero, entra in relazione con le altre, dando luogo alla forma migliore di governo mai realizzata: al primo piano corrisponde la monarchia, al secondo l’aristocrazia, al terzo la democrazia. Tuttavia, secondo la teoria aristotelica del potere, a ognuna di queste forme corrisponde una forma “corrotta”, che necessariamente si verifica dal punto di vista dell’accadere: rispettivamente, la tirannia, l’oligarchia e l’oclocrazia (letteralmente “potere della folla”) o anarchia, che sembrerebbero più adatte a descrivere la situazione dell’Impero post-moderno. Tuttavia, a quest’altezza dell’analisi si registra uno scarto teoretico fondamentale, in quanto nell’Impero post-moderno accade ciò che per la teoria polibiana dell’Impero non era pensabile: le forme si mescolano fra di loro, in un gioco di infiniti rimandi, si corrispondono in maniera continua, si ibridano l’una con l’altra, rendendo così la struttura dell’Impero molto più complessa, nel suo funzionamento pratico, di quanto non potesse sembrare inquadrata nella schematizzazione di derivazione polibiana. [8] Eppure questa ibridazione, dal punto di vista della chiarezza analitica, ci aiuta a comprendere meglio la natura dell’Impero, in quanto, in qualche modo, è necessaria alla sua forma: “Nello spazio liscio [perché privo di confini] dell’Impero non c’è un luogo del potere – il potere è, a un tempo, ovunque e in nessun luogo. L’Impero è un’utopia, un non-luogo”. [9] Questa caratteristica di utopia (appunto un non-luogo) è intrinseca alla logica strutturale dell’Impero e ha a che fare con la sua origine. Proprio perché l’Impero è l’ultima risorsa utilizzabile dal capitale per bloccare e irrigidire la vita, che tenta sempre di eccederne le dinamiche di controllo, esso si presenta in modo negativo: “L’efficacia del governo imperiale è di natura regolativa e non costituente”; [10] in altre parole l’Impero è un parassita.

Peraltro l’Impero possiede anche delle caratteristiche positive, sia pure per contrasto: da un lato, in quanto nato come reazione all’internazionalismo proletario, deve, almeno, in parte assumere alcune modalità di quest’ultimo, dall’altro, in quanto americano è, per un verso, radicalmente antieuropeo – il che costituisce una “buona notizia” [11] – e per l’altro ha a che fare con la libertà originaria americana della frontiera che, a sua volta, è scaturita dalla rivoluzionarietà delle idee jeffersoniane e jacksoniane. [12]

Il potere come potenza

L’idea del potere riferito a una trascendenza che lo giustifica e lo fonda è un’idea antica che, di fatto, non viene messa in discussione nella moderna edificazione dello Stato. Come ha spiegato Pierre Lévy [13] , nel passaggio dal nomadismo alla sedentarietà della comunità agricola lo spazio, prima liscio, viene inciso, segnato: il rex, la suprema istituzione della comunità romana arcaica, deve il suo nome al fatto di essere abilitato al compimento dell’attività di regere fines, tracciare i confini, [14] delimitando l’interno dall’esterno, il sacro dal profano, lo spazio della comunità da quello del nemico e del pericolo. Con la nascita della cultura stanziale si sviluppano le pratiche della coltivazione che segna la terra e della scrittura che segna la carta, ma nasce anche l’idea del potere come trascendenza, proprio perché questa sacralizzazione dello spazio prevede che il soggetto autorizzato a compierla sia stato investito da un potere superiore che rende la sua operazione efficace. Nello scarto fra sacro e profano si apre lo spazio della comunità istituzionalizzata in modo permanente, con un passaggio logico che non cambierà di segno nemmeno nella modernità, seppure con mille stravolgimenti e modificazioni strutturali. In questo senso, al di là dell’allegorizzazione del simbolismo [15] e della totale mondanizzazione del riferimento trascendente nella forma del trascendentale, la logica del potere moderno non si discosta da quella antica proprio perché non è in grado di pensarsi su un piano di immanenza, ma ha bisogno di una dialettica differenziante che la riferisca sempre a un Altro perenne e ad essa superiore (Dio, la nazione, il popolo) del quale il potere stesso è una rappresentazione. In questo modo il potere viene riferito a un’alterità carica di sacralità e qualunque contrapposizione al potere, qualunque resistenza, assume i connotati di un’azione sostanzialmente profana e quindi, per definizione, censurabile. Tramite questa modalità il potere stesso si rende assoluto in quanto sacro e intangibile, consegnando, di fatto, all’élite che ne determina le specifiche configurazioni storiche, un’assoluta facoltà di disposizione dei corpi e delle menti di coloro che da essa sono governati.

Tuttavia sono esistite, secondo Hardt e Negri, nella storia del pensiero politico moderno, alcune pregevoli eccezioni teoretiche a questo schema del potere, che ne riportano l’essenza da un piano trascendente a un piano immanente. Fra il XIII e il XVII secolo alcuni pensatori europei, da Giovanni Duns Scoto a Guglielmo da Ockham, da Dante Alighieri a Nicola Cusano, da Pico della Mirandola a Charles de Bouvelle, da Sir Francis Bacon a Galileo Galilei, per finire con Spinoza, definirono, disconstandosi decisamente dalla rigida tradizione metafisica medievale, una nuova umanità, centro dell’universo, generatrice della scienza e delle arti e capace di trasformare la natura in senso creativo, [16] il cui potenziale rivoluzionario e di liberazione è mirabilmente inscritto nella celebre definizione della chiesa data da Guglielmo da Ockham nel Breviloquium de principatu tyrannico nel 1342: “Ecclesia est moltitudo fidelium”. La chiesa, per Ockham, non era un che di trascendente, di separato dal corpo della comunità dei fedeli, che in qualche modo venisse da essa fondato e legittimato, ma il corpo stesso dei fedeli, nel loro essere comunità. In questo modo i fedeli si riappropriavano della chiesa come comunità, sottraendola al potere gerarchico delle élites di dominio che ne avevano assunto il governo nel corso dei secoli. Questa preminenza del piano di immanenza agli albori della modernità si è però scontrata con un progetto controrivoluzionario: “ci fu, infatti, una controrivoluzione nel vero senso della parola: un’iniziativa culturale, filosofica, sociale e politica che, non potendo ritornare al passato o distruggere le nuove forze, cercò di dominarle e di espropriare la potenza delle dinamiche e dei movimenti emergenti”. [17] Così, si potrebbe dire, il potere costituente (inteso da Negri e Hardt come potere di creare, di originare, di dare vita) è stato trasformato in potere istituito: il cum implicito nel concetto di costituzione designa un movimento orizzontale della comunità con sé stessa, un atto generativo di amore spinoziano con il quale l’essere si crea (cum, con sé stesso come altro), nella sua intima dualità; mentre l’in insito nel concetto di istituzione definisce un movimento verticale, dall’alto verso il basso, di in-formazione di un informe che non esiste prima di essere formato, [18] di costrizione all’interno di una gabbia. Il potere costituente, come potere di aggregazione, di creazione comune che non si riferisce ad altro da sé, è moltiplicazione di sé su un piano di immanenza, laddove la separazione del soggetto che istituisce da ciò che è istituito è, da un lato, trascendentale e, dall’altro, rovescia il nesso causa-effetto che viene finto nella rappresentazione: non più il popolo come potere costituente è alla base del governo come potere istituito, ma quest’ultimo diviene l’unica condizione di esistenza del popolo come tale, nel concetto di rappresentazione, ed esso stesso è posto così su un piano di trascendenza rispetto a quel quid trascendente che lo doveva fondare. In questo rovesciamento diabolico della causalità costituente si definisce l’istituzione del moderno Stato assoluto e la sua appropriazione, nella forma del potere istituito, di quel potere costituente che, solo, ne è alla base.

Vi sono dunque due forme della modernità, due sue espressioni, a confronto all’interno della storia del pensiero politico moderno, una “perdente”, ma per alcuni versi originaria, e comunque in grado di pensare a uno scenario di liberazione, e l’altra dominante, la cui principale espressione è la sovranità moderna e il cui culmine teoretico è Thomas Hobbes: “la prima inizia con la rivoluzione dell’umanesimo rinascimentale, da Duns Scoto a Spinoza, e consiste nella scoperta del piano di immanenza e nella valorizzazione della singolarità e della differenza. La seconda […] è caratterizzata dal tentativo di tenere sotto controllo le forze utopiche liberate dalla prima mediante la costituzione e la mediazione dei dualismi, sino alla concettualizzazione della sovranità moderna come soluzione provvisoria”. [19] Nel passaggio dal moderno al post-moderno la seconda forma della modernità salta in maniera irrevocabile a causa dell’incapacità della sovranità moderna di affrontare la mutata situazione oltrestatale. Ciò offre un possibile spazio di azione alla prima forma della modernità.

La natura del potere costituente, che viene teorizzato dalla prima forma della modernità, è quella insita nel concetto spinoziano di potentia. Il suo centro logico è il posse, concetto che Hardt e Negri desumono dall’umanesimo rinascimentale, che indica “il verbo potere nel senso dell’attività”. [20] Questa potenza costituente non diviene mai una rigida istituzione fissata una volta per tutte, ma resta sempre aperta al dinamismo dell’accadere, del quale si fa carico come del proprio più specifico compito, nella forma del lavoro creativo e riappropriato. Il posse è la facoltà di agire proprio della moltitudine come singolarità, come immediatezza, in un certo senso è l’essenza stessa della moltitudine, il cuore della sua attività biopolitica: “posse è il punto di osservazione che meglio ci permette di intendere la moltitudine come soggettività singolare: posse costituisce il suo modo di produzione e il suo essere”. [21] Il posse della moltitudine è la figura teoretica che consente di pensare e praticare un’azione contro e oltre la determinazione negativa dell’Impero. Se, infatti, l’Impero nasce, come si è visto, come la nuova modalità di regolamentazione sovranazionale dei conflitti economici, sociali, politici e culturali, da parte delle élites al potere, allora un’azione politica di resistenza nei suoi confronti non potrà essere condotta nei meri termini di una negazione: l’Impero è innegabile, perché non vi è più nulla che gli sia ulteriore in senso spazio-temporale, perché non vi è più nulla che sia pre-globale a cui affidare le proprie istanze e speranze di liberazione. In senso nietzscheano è assolutamente necessaria un’operazione di trans-valutazione di tutti i valori. Con estrema lucidità – e saremmo curiosi di sapere che cosa pensano di un passaggio come questo i confusi esponenti dei movimenti anti-globalizzazione [22] – Negri e Hardt sostengono che “la sola cosa da fare è attraversare l’Impero per uscire da un’altra parte”, riprendendo la tesi di Gilles Deleuze e Félix Guattari, per i quali “invece di resistere alla globalizzazione capitalistica, occorre accelerarne l’andatura”. [23] Questo attraversamento dell’Impero si configura come lotta politica per l’auto-riappropriazione della moltitudine contro le forme dello sfruttamento capitalistico che hanno prodotto, come reazione al potenziale di liberazione della moltitudine stessa, quel parassita negativo che è l’Impero. Non si tratta più, qui, di realizzare una sintesi fra una forma politica precedente e una successiva, più o meno utopica, in senso dialettico, [24] e nemmeno di resistere nella modalità propria alla dialettica negativa, [25] ma di un’assoluta e immediata autoaffermazione della moltitudine e del suo posse. A quest’altezza tramonta una volta per tutte qualunque politica socialdemocratica, qualunque mediazione, qualunque schema hegeliano di relazione fra potere dello Stato, società civile e moltitudine: “la globalizzazione deve essere affrontata con una controglobalizzazione, l’Impero con un controImpero”. [26]

Figure del controImpero

Nello spazio aperto dell’Impero stanno prendendo forma nuovi corpi e nuove menti, che presentano aspetti significativamente differenti da quelli tipici della modernità. Il nuovo soggetto è proteiforme, molteplice, sia nel senso che al suo interno è profondamente scisso e suddiviso in singole sottounità, sia in quanto i confini tra le singole soggettività sono sempre più labili, poiché le comunità, o meglio le communities, alla quali esse appartengono tendono a distribuirle in modo mobile in un gioco relazionale di natura cooperativa, così da avere sempre bisogno di ciascuna di esse con le proprie specifiche e plurali peculiarità, da un lato, ma anche della concatenazione di ciascuna con tutte, dall’altro. L’antropologia e l’antropomorfia dei borghesi onesti tende a dissolversi nello spazio-laboratorio di costruzione dei nuovi corpi, e, con esse, viene meno anche la soggettività moderna con tutto il suo apparato disciplinare di organizzazione armonizzata della vita sotto quella forma di repressione degli istinti che costituisce, propriamente, la morale. Nasce così una nuova psico-fisiologia dell’ibridazione, che si contrappone frontalmente alla moderna sovranità dell’Io che doveva “conservare una relazione dialettica tra l’ordine naturale delle pulsioni e l’ordine della civiltà, l’ordine della ragione e della coscienza”. [27] Come è accaduto più volte nella storia dell’uomo, un nuovo condensato di tecnologie trasforma i soggetti in superficie e in profondità: sorge una nuova forma, quella dei nietzscheani uomini del futuro, che non ha paura del rapporto con le macchine, ma anzi si integra con esse in una diversa costellazione psico-fisica. In questo senso sono da leggersi positivamente tutte le ibridazioni post-moderne: dal cyborg al transgender la moltiplicazione dell’identità e la sottrazione delle dinamiche dei nuovi corpi e delle nuove menti alla spazio del comando, aprono, con nettezza, altrettante possibilità di riappropriazione di questo Sé molteplice e unitario ad un tempo che è la moltitudine post-moderna. Tuttavia, perché questa azione di riappropriazione possa avere effettivamente luogo, non è sufficiente una mera anti-identità, un semplice rifiuto del comando, ma deve essere fatto agire e messo in opera il potere costituente della moltitudine nella sua interezza, si deve, in altre parole, rendere dapprima possibile e poi reale il virtuale.

Nell’epoca dell’Impero il conflitto fra il potere e la moltitudine è messo a nudo dalla disgregazione delle precedenti strutture rappresentative di mediazione del conflitto che erano in grado di inquadrarlo nello schema dialettico del Sé e dell’Altro, producendo il movimento della sussunzione come meccanismo che rinviava il momento risolutivo della crisi a tempo indeterminato: “la fine della crisi della modernità ha dato origine a una proliferazione di crisi minori e indefinibili o, se si vuole, a una onnicrisi”. [28] Per l’Impero, dunque, il nemico è ovunque, come per il nemico l’Impero è in ogni luogo e in nessuno. Il Re è per davvero nudo, e l’azione politica che consiste nell’affrontarlo per produrre una pratica della libertà non è più eludibile o limitabile nello schema della relazione di potere moderna. Il conflitto potenza-potere arriva così al suo ultimo giro di vite. La moltitudine si costituisce propriamente come soggetto politico “quando inizia a confrontarsi direttamente – e con una coscienza adeguata – con le principali operazioni repressive dell’Impero”, [29] che andrà, pertanto, attaccato nei centri nevralgici a partire dai quali si espande il suo comando. Se le modalità di tale attacco sono, al momento, ancora difficili da prevedere, è comunque possibile ipotizzare un primo programma macro-politico della moltitudine, articolato nella rivendicazione di alcuni diritti fondamentali, quali quelli di cittadinanza globale, di movimento, di salario sociale [30] e di riappropriazione. [31] E’ quindi necessario un nuovo soggetto politico che sia in grado di realizzare questo programma di rivendicazioni, come programma minimo, ma soprattutto “di dare vita a un’alternativa costruita con i desideri della moltitudine”, in quanto “il controImpero deve anche essere una visione globale, una nuova forma di vita del mondo”. [32] Questa visione globale, per Hardt e Negri, coincide con la realizzazione di un’istanza comunista che è però fortemente influenzata dalle teorie libertarie rinascimentali e dal concetto originario di democrazia statunitense e che, di fatto, rifiuta la metafisica organizzativa di stampo rappresentativo tipica della tradizione del movimento operaio europeo. Archetipo di questa forma di comunismo libertario [33] è l’Industrial Workers of the World (IWW), un sindacato americano degli inizi del XX secolo, le cui lotte si svolgevano seguendo il moto “di un pellegrinaggio immanente, capace di creare una nuova società nell’alveo di quella vecchia senza mettere in piedi nessuna stabile struttura di potere [34] , ovvero senza cadere nell’ossessione istituzionalista tipica della forma rappresentativa, ma tornando alla radice tutta dinamica del momento rivoluzionario: “la militanza politica rivoluzionaria deve riscoprire quella che è sempre stata la sua forma originaria: un’attività costituente e non rappresentativa”, proiettata in quel “progetto di amore” [35] la cui icona, per Negri e Hardt, è la leggenda di San Francesco d’Assisi.



[1] Michael Hardt / Antonio Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002.

[2] Da questo concetto derivano una serie di corollari assai significativi. Per esempio, nella modernià, esistevano due modalità di detenzione del monopolio dell’uso della forza da parte dello Stato: una ad uso interno (tramite le forze di polizia) e una ad uso esterno, come garanzia nei confronti di aggressioni da parte di altri Stati (tramite le forze militari dell’esercito). Nel mondo post-moderno oltrestatale, qualunque azione di forza compiuta dall’Impero è, necessariamente, un’azione di polizia; in altri termini, l’esercito scompare poiché dall’esterno non è più possibile alcuna minaccia.

[3] Michael Hardt / Antonio Negri, Impero, cit., p. 309.

[4] “[…] l’insistenza sulla vecchia distinzione tra strategia e tattica potrebbe non avere più alcuna utilità”. Ivi, p. 69.

[5] Ivi, p. 102.

[6] Ivi, p. 63.

[7] Cfr. ivi, pp. 289-293.

[8] Cfr. ivi, p. 297.

[9] Ivi, p. 180.

[10] Ivi, p. 335.

[11] “[…] Il fatto che si sia formato un Impero contro le vecchie potenze europee è solo una buona notizia. Chi vuole ancora avere a che fare con queste asfittiche e parassitarie classi dirigenti europee che ci hanno condotto dall’ancien régime al nazionalismo, dal populismo al fascismo e ora sostengono un neoliberismo generalizzato? Chi vuole ancora convivere con le ideologie e gli apparati burocratici che hanno nutrito e sostenuto le abbiette élite europee? E chi può ancora sopportare quelle forme dell’organizzazione dei lavoratori e quelle corporazioni che hanno perso qualsiasi spirito vitale?”. Ivi, pp. 348-349.

[12] “[…] la libertà è sovrana e la sovranità è definita in termini radicalmente democratici entro un processo di espansione continuo e aperto. La frontiera è la frontiera della libertà. […] Libertà e frontiera sono tra loro legate da una relazione di implicazione reciproca: qualsiasi difficoltà e qualsiasi limite della libertà è un ostacolo da superare, un limite da oltrepassare”. Ivi, p. 162.

[13] Il riferimento è a Pierre Lévy, L’intelligenza collettiva: per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1996.

[14] Cfr. Émile Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1988, vol. II, pp. 291 e ss.

[15] Il riferimento obbligato è a Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1971.

[16] Michael Hardt / Antonio Negri, Impero, cit., pp. 80-83.

[17] Ivi, p. 83.

[18] Per un’analisi, al contempo puntuale e spietata, delle dinamiche di formazione nella società moderna come correzioni di un informe si veda Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1969.

[19] Michael Hardt / Antonio Negri, Impero, cit., p. 138.

[20] Ivi, p. 376.

[21] Ivi, p. 377.

[22] “Quando si adotta la prospettiva dell’attività della moltitudine, del suo desiderio e della sua produzione di soggettività, si può riconoscere che la globalizzazione, nel momento stesso in cui realizza una vera deterritorializzazione delle precedenti strutture dello sfruttamento e del controllo, diviene realmente una condizione di liberazione della moltitudine”. Ivi, p. 63.

[23] Ivi, p. 198. Cfr. anche p. 208.

[24] “In un mondo postmoderno, tutti i fenomeni e le forze sono artificiali – altri direbbero: fanno parte della storia. La dialettica moderna del dentro e del fuori è stata sostituita da un gioco di gradazioni e di intensità, di ibridazioni e di artificialità”. Ivi, p. 179.

[25] “A questo punto, la fase decostruttiva del pensiero critico che, da Heidegger a Adorno sino a Derrida, ha fornito straordinari strumenti per uscire dalla modernità, perde la sua efficacia”. Ivi, p. 207.

[26] Ivi, p. 198.

[27] Ivi, p. 178.

[28] Ivi, p. 180.

[29] Ivi, p. 369.

[30] Se la produzione è interamente cooperativa, anche il salario deve essere collettivo, in quanto l’apporto di ciascuno non è più misurabile al di fuori del prodotto comune. In questo senso “l’altra faccia del lavoro immateriale [che è la più importante forma di lavoro nell’epoca imperiale. Cfr. ivi, pp. 64-65] è il lavoro affettivo, ossia il lavoro che è coinvolto nei contatti e nelle interazioni umane” e che, quindi, è per sua natura cooperativo. Ivi, p. 274.

[31] Cfr. ivi, pp. 367-376.

[32] Ivi, p. 204.

[33] La critica al concetto di proprietà privata compiuta da Hardt e Negri, nella sua evidente eterodossia rispetto al sistema marxista di pensiero, illustra il carattere libertario di questa proposta di comunismo: “La nostra realtà economica e sociale non è più esclusivamente dominata da oggetti materiali prodotti per essere consumati, bensì è pervasa dai servizi e dalle relazioni prodotte dalla cooperazione. Produrre significa, sempre di più, costruire cooperazione e comunanza comunicativa. In questo contesto, lo stesso concetto di proprietà privata, come diritto esclusivo di usare un bene e di disporre di tutta la ricchezza ricavabile dal suo possesso, diviene un vero e proprio non senso. Ci sono sempre meno beni che possono essere usati e posseduti in questo modo. Il soggetto della produzione è piuttosto la comunità, la quale, mentre produce, si riproduce e ridefinisce. In un certo senso, dunque, il fondamento della concezione classica della proprietà privata moderna sta svanendo nel modo di produzione postmoderno”. Ivi, p. 283.

[34] Ivi, pp. 198-199, cors. ns.

[35] Ivi, p. 381.

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