FABBRICA, AZIENDA,
IMPRESA.
PER UNA NUOVA SEMANTICA DEL LAVORO
di Stefano Rosato
Race de Caïn, aux ciel monte et sur la
terre jette Dieu!
(Ch. Baudelaire, Abel et Caïn)
Il nuovo scenario
L'epoca alle cui soglie siamo si annuncia sovraccarica di un'energia e una tensione
rivoluzionarie,con le quali non é più possibile differire il confronto.
La fine del taylorismo prodotta dall'innovazione tecnologica a partire dagli anni
Settanta, con conseguente "liberazione " di forza lavoro, il passaggio dal
paradigma fordista alle scommesse e alle incognite del postfordismo, le sempre meno
praticabili dinamiche sociali di massa legate al welfare state e alle sue strutture di
garanzia, la redistribuzione di un sapere non più fissabile come esperienza vissuta
(Erlebnis), ma come esperienza sempre in via di farsi, perennemente on the road
(Erfahrung), impongono una ridefinizione concettuale e categoriale di tutto l'esistente.
In questo senso, secondo l'insegnamento nietzscheano, é sempre più necessario
trasvalutare i valori, ricondurli, oltre il loro essere definiti nei termini di una
valorizzazione data, verso un orizzonte nuovo e diverso di senso, che ne oltrepassi la
crisi in un gesto di assoluta apertura verso il futuro degli uomini del futuro.
Tuttavia questo passaggio, proprio per il carattere dell'epoca, per la sua logica, come si
vedrà, strutturalmente portante, non potrà non tenere conto di una serie di dinamiche in
atto, faticosamente acquisite, e non potrà pertanto presentarsi, all'interno della
propria forte ricollocazione di valori, né come la falsche Bewegung di un pensiero
regressivo, che teorizzi sordidi ritorni ad arcaiche semplicità sociali, né come la
fissazione in forma di delirio del sogno utopico di una società pur sempre amministata,
quantunque dalla parte del "giusto". Ambedue queste tentazioni alla resistenza
nei riguardi dell'innovazione ci sembrano pericolosamente presenti all'interno della
cultura critica della diversità, e rispetto a tutte e due l'epoca reagisce nella forma di
una negazione-riappropiazione delle forme cave, proponendo quella dialettica in stato
d'arresto di cui già parlava Walter Benjamin.
Ciò possiede per la considerazione filosofica la doppia valenza di non incorrere in
errori e disastri del passato (sia nel senso dell'irrigidimento conservativo delle forme
sociali raggiunte sia in quello della realizzazione di orizzonti di senso mostruosamente
immutabili), da un lato, e di superare-non-superare la potenza del conflitto sempre in
atto, come Hohenzeit del dispiegarsi della vita. Passando dal concetto generale alla sua
applicazione sul terreno dell'economia, sembra ormai chiara una decisa tendenza dell'epoca
verso la liquidazione della centralità del momento economico nella regolamentazione dei
rapporti di forza tra le classi, ma senza che ciò comporti buffe ed impossibili
concertazioni di natura semicorporativa o sognanti Eden ricostituiti di uomini sempre (e
sempre tutti) uguali. Cercheremo di illustrare questo passaggio attraverso un'analisi dei
concetti chiave del mondo del lavoro, per orientarli verso una rinnovata semantica che sia
in grado di mettere in luce, come aspetto vincente, la nuova forma di relazione sociale
instaurata dall'era della tecnologia avanzata.
La fabbrica
Il primo termine cui mette conto occuparsi per tentare di inquadrare il complesso
fenomeno della semantica del lavoro possiede, per cosi dire, un portato originario.
Fabbrica occupa uno spazio all'interno dell'area di significato del fare, e designa il
luogo in cui un'azione umana impone il proprio potere di trasformazione sulla natura
inerte, su ciò che è ancora non oggettivato.
Tale luogo si presenta, tuttavia, come non indifferente rispetto alla logica che ne permea
il momento organizzativo. Fino al moderno, ovvero fino alla fase industriale della
trasformazione della materia, la fabbrica e i suoi operai non sono mai comprensibili se
non all'interno di una cultura diffusa in cui la modificazione organizzata dell'esistente
e dell'inerte possiede una valenza di natura sacrale. Per esempio, l'artigiano che pratica
un'ars è maggiormente apparentabile all'artista che all'artigiano moderno. Inoltre
l'azione di trasformazione della materia non è vissuta come violenza di un attivo su un
passivo, anzi, secondo l'espressione di Tommaso d'Aquino, ars imitat naturam eius modus
operandi. Dal punto di vista di un'analisi del linguaggio è possibile reperire, nelle
lingue antiche, molteplici esempi di scarti semantici di questi termini chiave rispetto al
moderno. Per esempio il verbo greco che indica il fare è poiw, da cui deriva il
sostantivo poÐhsiv, poesia.
La fabbrica,quindi, in quelle che Guénon e Coomaraswamy denominerebbero "società
tradizionali", è un'organizzazione in cui la trasformazione della materia in
manufatto avviene all'interno di uncontesto per il quale l'efficacia di tale
trasformazione è possibile, solo e soltanto, laddove l'operatore sia ammesso ai segreti
di un'ars il cui scopo ultimo è proprio la trasformazione spirituale dell'operatore
stesso, il compimento di un'Opera di ordine sostanzialmente intellettuale. Esiste a questo
riguardo tutto il problema della scelta, della selezione, dell'elezione, di artieri ed
operai, che tali possono essere perché il magister li ha designati al compito,
all'interno di strutture organizzate di tipo iniziatico, nelle quali si presiede non
soltanto al ciclo produttivo, ma anche e soprattutto alla realizzazione dei soggetti che
vi prendono parte, allo sviluppo delle risorse umane.
L'odierno capomastro non è che la debole eco dell'antico magister della corporazione dei
costruttori, che nella storia ha preso il nome di Massoneria (dal francese maison). Per
ragioni molto complesse, che non è possibile qui indagare, il moderno smantella questo
ordine antico della produzione, il cui modello organizzativo si segnalava per l'emergere
di un sistema di rimandi e
corrispondenze di natura simbolico-spirituale. Nell'ordine antico era impensabile il
concetto di sfruttamento, proprio perché il centro del ciclo produttivo rimandava ad un
Altro, tuttavia sempre presente, per ogni singolo soggetto, solo nell'atto corrispondente
al proprio mestiere, al quale il soggetto stesso era chiamato per natura. Il passaggio al
moderno, che si configura, come ha mostrato Benjamin, in un processo di allegorizzazione
dei simboli, sottrae terreno e sostanza all'ordinatamente gerarchizzato kÙsmov
precedente: il pater, garante della corrispondenza dell'ordine umano con quello divino,
vertice iniziatico del sistema di potere interno alla famiglia (che spesso nel Medioevo si
contraddistingue per una plurigenerazionale appartenenza alla medesima corporazione),
diventa il padrone della fabbrica, dell'opi-ficium, in cui la spiritualità della
produzione è azzerata a favore di una bruta materialità. Ancora, il paternalismo dei
padroni ottocenteschi altro non è che il residuo assai depotenziato di quell'originaria
gerarchia iniziatica.
È stato mostrato come il processo iniziatico antico conduca chi ne prende parte al
superamento dei limiti intrinseci del principium individuationis (Guénon). Proprio
perché il centro del processo produttivo nella fabbrica antica era di natura spirituale,
la completa realizzazione in esso del soggetto lo liberava dalla propria chiusa
individualità, restituendolo all'qov della comunità, con la quale non è difficile
immaginare come potesse finire per con-fondersi. L'araldica dello stemma, del marchio,
elimina la valenza specifica del singolo individuo, lo rende parte, sovente inseparabile,
della comunità cui appartiene. Il che sembrerebbe vigere al di là di qualunque
distinzione di classe, come spiega Marx nei Manoscritti economico-filosofici del '44, a
proposito del von nobiliare che non indica il possessore della terra, ma il suo posseduto.
Questa nichilizzazione del soggetto è precisamente ciò che rimane dell'antico processo
di produzione nel moderno. La fabbrica capitalistica ottocentesca trasforma il plusvalore
dell'attività lavorativa da profitto per la comunità gerarchicamente organizzata e
garantita, a profitto per il pater divenuto padrone, senza che vi possa essere più alcun
ritorno per coloro che a tale processo hanno sacri-ficato la propria individualità. Si
potrebbe dire che la fabbrica resti il luogo della de-individuazione, ma che, in esso, non
si costruisca più alcuna comunità dotata di senso, ma soltanto un aorgico cªov di
massa, che paga il prezzo della rimanente individualità del padrone. L'operaio-massa
della fabbrica ottocentesca aliena la propria individualità a favore del capitalista e,
una volta compiuto questo gesto, finisce per appartenere a una comunità dagli occhi
vuoti. In ciò consiste, precisamente, il suo fare.
L'azienda
Vista dall'altro lato di una non metaforica barricata, l'azienda è il problema
della fabbrica come sua conduzione. La conduzione dell'azienda, ovvero delle cose da
guidarsi, comincia a quel livello della gerarchia (caporeparto) in cui inizia a
ri-manifestarsi il principium individuationis, e prosegue verso l'alto attraversando tutta
la schiera impiegatizia, il cui compito è quello di garantire la regolarità
amministrativa del meccanismo di regolamentazione dello sfruttamento operaio.
Etimologicamente azienda proviene dallo spagnolo hacienda, apparentabile a faccenda, dal
lat. facienda, che significa le cose da farsi. Azienda avrebbe cosi a che fare con la vita
attiva,
contrapposta alla vita contemplativa, azione contro pensiero. In questo senso l'azienda è
sempre tutta interna alle sue forme, incapace di dialettizzarle, di metterle in crisi: è
perciò che la crisi dell'azienda si configura immediatamente come la sua fine. L'assenza
di pensiero costituisce l'azienda come mera operatività, meccanismo ripiegato su se
stesso, luogo sovrano del dispiegarsi delle forze mitiche del diritto e dell'ordine. In
tal senso tratteggiamo qui un duplice significato di azienda: essa è, da un lato,
l'insieme della cose da farsi e da coordinarsi, appunto l'agenda, ma dall'altro è anche
l'insieme delle attività stesse di coordinamento. L'enfasi del concetto di azienda è
comunque quasi del tutto incentrata su questo aspetto traslato del suo significato; ciò
assume assai spesso, in un'epoca in cui il lavoro materiale cede sempre più il passo al
lavoro non operaio, i tratti molto marcati di un'assoluta e assolutamente inconsistente
autoreferenzialità: l'azienda diventa il coordinamento delle attività di coordinamento,
e in ciò parrebbe consistere il suo massimo livello teoretico, che si esplica nella
figura del manager. L'originaria attività di coordinamento insita nell'azienda,
strutturandosi storicamente nelle forme di una gerarchia rigida e non democratica, alla
quale si può accedere soltanto per cooptazione, rivela la necessità di forte controllo
sociale dell'operato dei comparti produttivi. I controllori, veri e propri sottufficiali e
ufficiali di funzioni militarizzate, alienano al padrone la propria libertà di pensiero
in cambio di una parvenza minima di riconoscimento individuale (che, nelle fasi più
recenti, si estrinseca nel concetto deviato di risorse umane, poste a lato e in conflitto
con le risorse non umane), che, nel processo di compimento dell'ascesa del capitalismo
come forma sociale imperante nell'Occidente, si configura, in maniera ridicola, in un
differente accesso a soglie di reddito "elevato", peraltro da spendersi e
realmente speso in panem et circenses. Ciò appare con la massima efficacia e devastazione
morale nella ricorrente espressione: "Siamo uomini d'azienda", che implica
un'assoluta rinuncia al proprio livello di pensiero e conflittualità, in direzione di una
supina e prefreudiana accettazione della logica del comando violentemente imposta dalla
gerarchia. Questa dinamica dell'agire sociale si è sviluppata in modo ipetrofico negli
ultimi vent'anni, fino a riguardare un numero enorme di occupati, e quindi fino a
coinvolgere una rete di relazioni sempre più vasta. Oggi questo modello ci sembra essere
entrato in una fase di crisi mortale, il cui esito non potrà che essere il centro logico
di qualsiasi politica futura.
Come già nella fabbrica della fine degli anni Settanta assistiamo, e sempre più, nei
prossimi anni, assisteremo, a un processo di automazione molto spinto che non investe,
ora, il processo di produzione, ma quello di coordinamento delle attività e di presa
delle decisioni, dove i nuovi esponenti del lavoro non operaio si avviano a svolgere un
ruolo centrale, in quanto la qualità delle loro analisi sempre più sofisticate orienta
il processo decisionale in maniera diretta. D'altra parte, il nuovo orientamento delle
competenze necessarie allo svolgimento di questi lavori di tipo intellettuale, produrrà,
da un lato, una contrazione degli occupati di ogni singola azienda (a parità di
condizioni attuali) e, dall'altro, il formarsi di meccanismi di reciproca interferenza di
soggetti e di gruppi attivi, con la conseguenza che l'istanza di un controllo sociale
sull'attività degli operatori diverrà essa stessa automatizzabile almeno in parte, per
un verso, e sempre meno utile ed efficace, per l'altro. A quest'altezza si apre
logicamente un nuovo scenario di forte conflitto sociale tra i vecchi ceti dominanti e i
nuovi soggetti, il cui esito non è affatto scontato: come ha sostenuto Pierre Lévy, lo
spazio antropologico del sapere (che dovrebbe essere quello aperto dalla nuova epoca, in
cui il momento economico non sarebbe più centrale) è, almeno per una sua parte, quella
politicamente più rilevante della costruzione di rapporti di forza diversi fra i gruppi
sociali, una possibilità, un'opportunità tutta da giocare.
L'impresa
Al concetto di azienda intesa come mente regolatrice del corpo prima fisico e poi
virtuale della fabbrica, contrapponiamo l'impresa, definendola come l'insieme delle cose
da pensarsi e delle loro relazioni. Impresa, da in-prehendere, prendere dentro, prendere
insieme, è concetto anzitutto collettivo.
Nell'impresa non vi è alcuno spazio per il manager e la sua solitudine di ruolo (pur
essendovi molti spazi per le singole solitudini e il loro eventuale incontro); l'impresa,
luogo della collaborazione e della massima creatività, è ricchezza di tutti e di
ciascuno; essa mantiene il momento dell'azione, ma non come tempo lavoro dell'applicazione
di un già pensato, in quanto la sua propria forza è appunto il pensare. In questo senso,
come si diceva sopra, pensiero e azione non sono disgiungibili, sia in quanto ogni azione
è supportata da un pensiero, sia in quanto ogni pensiero è esso stesso, per il fatto di
essere, azione. Nell'impresa saltano perciò le gerarchie e i ruoli rigidamente
codificati: nel libero disporsi della sua creatività, l'impresa ha tanti leaders, o
meglio linkers, quanti sono i singoli momenti del suo pensare-agire. Proprio per la
complessità e la sofisticazione dei processi che l'attraversano, essa non può avere
coordinatori fissi e dati una volta per tutte. L'impresa si configura, pertanto, come una
forma di mondanizzazione del politeismo.
Che ciò possa realizzarsi senza uno scontro sociale fra gli uomini del futuro, e soggetti
dell'impresa, e gli attuali alienati in posizione di privilegio, i managers, è ovviamente
impossibile. L'unica arma che il management, la nomenklatura, sembra oggi possedere è
quella del rallentamento del processo innovativo che coincide con l'affermarsi
dell'impresa. Tale battaglia è si di retroguardia, ma se essa dovesse passare a livello
economico e politico, oltre ad avere delle ottime possibilità di riuscita, rallenterebbe
drasticamente e con conseguenze disastrose il pieno manifestarsi delle potenzialità di
sviluppo implicite nell'epoca. Il meccanismo della concertazione come modalità di
regolamentazione e annullamento del conflitto è la chiave di volta dei rapporti sociali
all'interno della fabbrica e dell'azienda fordiste. L'impresa postfordista assume invece,
contro la concertazione e la cultura della mediazione, una cultura forte
dell'affermazione, della dialettica e quindi del conflitto. Il conflitto e il suo cum come
valore fondante dell'impresa la differenziano dagli altri luoghi precedenti in quanto
essa, per esistere, abbisogna delle singole individualità e del loro orizzonte di
desideri, pensieri, esperienze, ecc..., ma anche di una loro coesione che dovrà essere,
di volta in volta, ridiscussa. In questo senso la nuova attività lavorativa (ma si tratta
di un lavoro che si appropria di mezzi ed opportunità, che supera sé stesso in direzione
della libertà, tanto più quanto più in esso trovano spazio quei conflitti che erano
banditi dalla fabbrica e dall'azienda) ci si precisa come precaria, flessibile,
transeunte, variabile. Ciò impedisce l'idealismo dello stato edenico, l'altra faccia,
antiaziendalista, dell'aziendalista "fine della storia".
Nel passaggio da azienda ad impresa salta anche, come abbiamo già detto, la centralità
quasi metafisica del momento economico come regolatore dei rapporti sociali. Proprio la
decisività del momento teoretico, del pensiero e della vision, pone in secondo piano
l'elemento economico, e quindi il profitto. Questo è, peraltro, un tema generale nello
spazio antropologico del sapere, ove, la forte innovazione tecnologica, dovrà per
necessità riorientare gli investimenti sociali e i consumi, nella direzione di una forma
della qualità che è cosa assai altra dalla forma della quantità attuale. Questo
concetto non può essere messo fra parentesi immaginando provvedimenti tampone dalla
praticabilità limitata nel tempo, come lo sviluppo delle organizzazioni no profit e
dell'economia sociale, come propone, per esempio John Rifkin, ma affrontato come nodo
strutturale, come chiave di volta di un nuovo patto sociale, per il quale il centro
dell'agire politico-economico non sia l'idiozia accumulativa, ma la qualità complessiva
della vita, del singolo individuo e delle comunità. Rispetto a questi passaggi l'impresa
svolgerà, e, in parte sta già svolgendo, un ruolo fondamentale di accelerazione del
processo. E all'inevitabile scontro che in essa prenderà corpo ci dobbiamo fin d'ora
preparare.