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Pubblicato in data: 01/07/2002

LA SERENDIPITY E LA CULTURA CLASSICA

di Stefano Rosato

Oltre a scrivere The Castle of Otranto, uno dei peggiori testi in assoluto della letteratura del terrore, Horace Walpole ha inventato anche il termine serendipity (da Serendip, antico nome dello Sri Lanka), che, in italiano, si rende con l'orrido serendipità. Esso indica la scoperta casuale, non intenzionata da parte dell'inventore (che così vede configurato il proprio ruolo in senso rigorosamente letterale), e ha a che fare con un concetto portante del mondo anglosassone che è il medesimo sotteso dall'idea dell'invisible hand di Adam Smith e che è stato rigorizzato in quello di catallassi da Friedrich von Hayek. Tale concetto presuppone che la verità, non essendo intenzionabile, emerga, per così dire, dal libero dispiegarsi degli eventi, come prodotto finito assai diverso da quella che era l'ipotesi originaria del ricercatore, del creatore, dell'attore, ecc..., in quanto nel frattempo arricchitosi del contributo di altri soggetti e interconnessosi con lo svolgersi di avvenimenti non prevedibili aprioristicamente. Naturalmente non tutto ciò che accade accade a caso; tuttavia il caso concorre, insieme ad altri elementi, alla determinazione dell'accadere (per esempio, esiste come probabilità).

Un accadere che fosse totalmente predeterminabile sarebbe semplicemente un non più accadere, una sorta di fine della storia, cui alludono quasi tutte le forme di profetismo, da quello cristiano a quello marxista. Ma vi è di più: nella relazione con altri/altro da sé, lo stesso soggetto è sottoposto ad una mutazione; non cambia solo il corso della storia, cambiano anche gli uomini che in essa si muovono, in un'infinita rete di insiemi fra loro collegati (sulla base dello stesso meccanismo di funzionamento dell'inconscio definito da Ignacio Matte Blanco e sul quale ci ha amenamente intrattenuti molte volte Jorge Luis Borges). Queste corrispondenze sono la storia stessa, come somma delle azioni degli uomini e della natura, fra gli uomini e la natura; una storia, dunque, ben diversa da quella idealistica del dispiegarsi, teleologicamente orientato, dello Spirito Assoluto, o dalla sua deviazione marxista inerente la dialettica della lotta di classe. Una storia nella quale, a differenza di quanto accadeva per Hegel e Marx, si può anche tornare indietro, o modificare del tutto percorso andando altrove, oppure rimanere fermi per un periodo di tempo non precisabile nello stesso posto; una storia in cui i posti sono compresenti e nello stesso tempo divisi, come i tempi e gli uomini. In questa storia qualunque liberazione di qualunque soggetto avviene a prescindere da un'idea del fine o della fine della storia stessa, è possibile compiere in essa gesti anarchici e non violenti, come quelli supposti e non del tutto detti dal Benjamin della Kritik zur Gewalt (dal giovane Benjamin, anarchico e  non ancora comunista), in modo immediato, senza dialettica. Un metodo che è anche uno uno stile; una Geselligkeit (secondo il concetto adorniano) più che una Gesellschaft, sempre, quest'ultima, legata mani e piedi alle forme di mediazione dello Stato. Un'immanenza contro qualsiasi forma di trascendenza, un esserci hic et nunc dell'Altro, non più come punto a partire dal quale è possibile definire il Sé, ma come diversità del Sé in Sé stesso (sì, avete capito benissimo, è Fichte contro Hegel: solo la soggettività spinta all'estremo costruisce la molteplicità come aggregazione, differenziazione e riconoscimento - uso quest'ultimo termine con modalità fortemente diversa da quella di Merleau-Ponty, perché il riconoscimento è nel percorso come suo metodo e non lo scopo salvifico di un movimento intellettuale che, come notava Aron, portava poi a giustificare lo stalinismo).

La serendipity è una cosa sola con la struttura del pensiero liberale come pensiero libertario, un concetto molto prossimo a quelli usati da Locke e Jefferson. Se, infatti, la verità non è intenzionale, allora lo Stato non può più essere assoluto, ovvero tutti diventiamo assoluti e sorge il problema della convivenza minima fra singoli soggetti, cioè l'idea di una società che non sia determinata dallo Stato ma semplicemente da esso garantita nel suo libero sviluppo. La serendipity è il superamento del problema dello Stato (e dello Stato come pròblema, come ostacolo) in direzione delle aperture che, nella società, nascono come libero correlarsi di situazioni e uomini.

Se si eccettuano rari nantes in gurgite vasto, in realtà quest'idea della serendipity non ha messo radici nella filosofia occidentale continentale. Essa pertiene, come asse portante, solo all'Inghilterra e agli Stati Uniti, cioè ai paesi che hanno creato la democrazia e si sono posti, primi e in fondo unici, anche il problema della libertà dallo Stato. L'Europa continentale ha invece continuato a ruotare intorno alle sue élites, tutte prese dalla dicotomia fra un pensiero conservatore che, conscio dell'inesistenza della verità, desiderava irrigidire la società in rapporti teologicamente fissati una volta per tutte (De Maistre), e uno di illuso progressismo, che parteggiava per lo sciocco Galilei, in quanto pensava che la verità ci fosse e dovesse essere urlata a gran voce in tutte le piazze del mondo (Brecht); e sempre pronte, qualora fossero o arrivassero al potere, a regolamentare qualunque ricerca, ergendosi a giudici, difensori, censori, di tutte le istanze con le quali la società cercava di liberarsi dallo Stato. In una sola cosa, tuttavia, queste élites hanno sempre trovato un momento di composizione del conflitto, sia pure nel mezzo di differenti interpretazioni: nella centralità e superiorità della cultura classica e nella necessità della sua adeguata trasmissione alle giovani leve della classe dirigente di domani. Ma più il tempo passa e meno quella cultura ha cose da dire, schiacciata dalla velocità e dalla superiorità della Playstation e del pensiero fulmineo e adialettico della nuova generazione (o di quella sua parte sana e saggia che alla cultura classica si oppone - penso qui, in ambito letterario e all'interno di quel medesimo movimento che va sotto il nome di minimalismo, alle diversissime posizioni del censore Breat Easton Ellis e del ricercatore anticlassico e bluescentrico Jay McInerney).

“Con quante navi partì per Troia Agamennone?”, chiese, ad Heinrich Schliemann, un commissario all'esame di maturità classica, e, dato che lo studente non era in grado di rispondere, aggiunse: “Lei non farà mai strada nella vita, se ignora un particolare tanto importante dell'Iliade”. Forzando un po' Platone/Socrate, possiamo sostenere che la verità (qui intesa come capacità di ragionare, di affrontare assennatamente un argomento qualunque) dimori nella testa di ciascun umano da sempre e che il compito del buon maieuta, educatore o formatore, sia quello di far emergere questa verità nascosta per il tramite di un processo di generazione di autoconsapevolezza del discente. Ma, fino all'epoca della completa riproducibilità tecnica delle forme artistiche e di trasmissione del sapere, se si voleva che questa operazione non fosse compiuta una tantum, era necessario edificare una mnemotecnica, una vera e propria arte della memoria (il cui schema di fondo assomigliava alla logica con la quale funziona il microchip di un personal computer), che consentisse al discente di richiamare un'informazione in qualsiasi momento, in quanto egli conosceva l'esatto sito della sua archiviazione. La struttura medievale e rinascimentale della mnemotecnica, da Lullo a Pico, ricorda da vicino le directories di un personal computer, con il suo sistema di classificazione di natura diairetica (se non è a, allora è un derivato di a o no?). Oggi la memoria non è più importante perché il computer ci offre la possibilità di una ricerca facile, perché le fonti di informazione, lungi dall'essere solo tecnicamente riproducibili, sono ormai anche tecnicamente prodotte, già all'interno della dinamica della riproducibilità (ciò porrà qualche problema alla riconoscibilità dell'opera, che si avvia sempre più ad essere manipolabile e quindi collettiva). La tecnica d'insegnamento in uso nei Licei Classici prevede invece, soprattutto nel biennio ginnasiale, un uso molto spinto della facoltà mnemonica, che dovrebbe essere propedeutica all’apprendimento del metodo del corretto ragionamento (come se un metodo si desse a priori e non lungo il, o insieme al, cammino, essendo appunto meth-odos), il cui insegnamento sarebbe compito specifico del triennio liceale. Questo schema formativo arcaico è già stato distrutto da Maria Montessori e da Rudolf Steiner, in quanto il suo vero scopo consiste nell'educazione all'obbedienza nei confronti della gerarchia, e, in questo senso, crea quasi dal nulla il “soggetto”, e il suo metodo, lungi dall'essere ludico e quindi fonte di libertà e di creatività, forza il soggetto che apprende all'interno dello schematismo trascendentale dell'accesso al sapere, gestito con una logica iniziatica di tipo sacerdotale. Ciò che in tal modo si apprende è una forma, che poi, a sua volta, orienta i comportamenti politici della classe dirigente così edificata, rivelando tutta la propria corresponsabilità nel determinarne l'inevitabile inefficacia (non a caso l'Italia è quasi ultima fra i paesi occidentali per competitività delle imprese e quasi prima per tasso di disoccupazione). La cultura classica, che nel mondo antico era una forza viva che contribuiva a generare un'immagine del mondo e a risolvere i problemi concreti degli uomini, diviene una modalità nemmeno troppo mascherata del dominio di classe, secondo l'adagio foucaultiano in base al quale ogni potere vuole il proprio sapere e viceversa. Sembra quindi urgente liberarsi dagli antichi maestri, per dirla con Thomas Bernhard, che continuano a replicare e a trasmettere un sapere fatto in casa.

Ma chi o che cosa ne prenderà il posto? Per rispondere a questa domanda si deve, anzi tutto, porre attenzione ad alcune caratteristiche chiave della nostra epoca. La prima di esse riguarda l'informazione come quantità: mai, prima d'ora, è stato possibile, per le immense moltitudini che popolano il globo terrestre, avere un accesso sostanzialmente incondizionato al sapere. La facilità e la velocità di procacciamento dell'informazione sono un tratto distintivo del post-moderno, rispetto al quale ci si deve ragionevolmente attendere un contro-movimento reazionario da parte delle élites che detengono il potere. Tale contro-movimento appare, oggi, nella forma accessoria dei divieti all'accesso e alla mobilità spaziale, nel sistematico rifiuto posto nei confronti di milioni di immigrati rispetto al tema del diritto alla cittadinanza globale. Tale azione politica, che genera una situazione di costante illegalità per l'immigrato, lo blocca, di fatto, anche nell'accesso al sapere (per esempio, in quanto clandestino, non potrà iscriversi a corsi scolastici o sottoscrivere contratti di telefonia che gli consentano la connessione a internet, ecc...). Questo blocco è un blocco politico deliberatamente operato da un complesso socio-culturale che ha tratti molto precisi ed identificabili. La seconda caratteristica è inerente alle modifiche che subisce e sempre più subirà il soggetto nella sua relazione con gli strumenti tecnologici. L'uomo, nel corso della sua storia, è stato sempre modificato da forme tecnologiche che egli stesso modificava. La differenza rispetto al passato consiste nel fatto che, oggi, queste variazioni dell'umano non si compiono in un arco temporale ampio, ma sono immediate, riguardano cioè, contemporaneamente, la struttura filogenetica e quella ontogenetica dell'uomo. Ciò, a sua volta, significa che individuo e comunità sono sempre più fusi in una sorta di unicum, all'interno del quale sembrano vigere relazioni di reciproca interdipendenza e necessità: ogni comunità ha bisogno di essere costituita proprio da quegli individui che in essa si riconoscono ed essi, a loro volta, esistono come tali solo all'interno di quella comunità (in realtà l'appartenenza a comunità è un fenomeno plurale: io appartengo, secondo la modalità sopra descritta, nello stesso tempo a molte differenti comunità).

Questa ibridazione con le forme tecnologiche trasforma quindi l'individuo in profondità; tuttavia anche la sua superficie muta e muterà. L'uomo macchinico è dietro l'angolo, con la sua mescolanza di elementi del vecchio e del nuovo umano, di carne e metallo, di fasci di nervi e circuiti integrati, con il suo corpo e il suo cervello, infinitamenti potenziati quanto a possibilità, che definiranno la nuova figura del cyborg. Se connettiamo fra loro queste due caratteristiche dell'epoca attuale - quantità di informazioni disponibili per tutti (e necessità di organizzarle in contesti dotati di senso) e forti legami collettivi fra i soggetti delle molteplici comunità - possiamo iniziare a intravedere, da un lato, il problema principale legato al tema della conoscenza in questa fase storica, ma anche, dall'altro, alcune linee di fuga dagli stilemi della cultura classica, che siano in grado di liberarci dalla sua struttura gerarchica. Il sapere si ridefinisce da saputo a sapiente, e l’esperienza conoscitiva, lungi dall’essere una trita Erlebnis, diviene la dinamica Erfarhung di un soggetto collettivo il cui intelletto, secondo Pierre Lévy, finisce per assomigliare a quello divino come lo immaginava Averroè. Questo movimento, paradossalmente, ci riporta a una situazione, tipica della cultura classica, in un certo senso pre-individuale (penso al tema della lettura silente di Ambrogio che stupiva Agostino, il quale, come tutti gli antichi, era abituato alla lettura collettiva – cfr. Maria Tasinato, L’occhio del silenzio. Encomio della lettura, Arsenale, Venezia 1986), nella quale, tuttavia, vi è fusione dei singoli nell’intelletto collettivo, ma non con-fusione dei medesimi, ognuno restando, o meglio divenendo, ciò che è, all’interno di un meccanismo dialettico tutto particolare (Benjamin lo chiamava “in stato di arresto”) fra i singoli e le comunità. Questo epilogo “classico” della logica di funzionamento della società post-moderna, tuttavia, accade dopo che la cultura libertaria ha smantellato le vecchie gerarchie del potere antico e moderno, e quindi da quel mondo si distanzia in quanto pone la libertà come obiettivo di tutti e non solo di quei pochi privilegiati che, nel mondo antico, possedevano lo status di cittadini della polis. Vi è anche un’altra distanza col mondo classico, reperibile all’altezza della cancellazione radicale della figura del maestro, dell’iniziatore, che di fatto è inutile all’interno della dinamica dell’intelletto collettivo, oppure cangiante a seconda dello specifico argomento di cui si sta, di volta in volta, trattando. E’ proprio a causa di queste caratteristiche discriminanti – tutti in luogo dei pochi e assenza del maestro come istituzione – che l’intelletto collettivo delle comunità post-moderne si differenzia in maniera radicale dalle forme che assumeva nel mondo antico e che la cultura dei Licei Classici vorrebbe mantenere inalterate e inalterabili, come fonte di una philosophia perennis infinitamente trasmissibile nella sua rigidità. Lo scopo dei Licei Classici è sempre e ancora l’edificazione di un’élite di governo, abilitata all’esercizio del potere dal possesso di una cultura vera in sé e per sé, contro la quale devono muovere le forze libertarie del lavoro vivo e dell’intelletto collettivo, nella loro consapevolezza che la verità accade come relazione di tutti con tutti, nella forma della catallassi, della mano invisibile, della serendipity.

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