Autorganizzazione e complessità: una rilettura di alcune esperienze partendo da Edgar Morin.
Può capitare che
una lettura porti a ripensare ad esperienze fatte partendo da prospettive diverse,
individuando nuove chiavi di lettura.
Rileggendo Morin 1 mi sono come al solito
distratto seguendo i miei pensieri. Cominciavo a ripensare ad alcuni lavori
degli ultimi anni e a rendermi conto che in realtà mi ero occupato più
di autorganizzazione 2 che di organizzazione.
Ho provato allora a ripercorrere alcuni dei progetti realizzati per cercare
di mettere a fuoco questa idea.
La nascita dei gruppi di lavoro autodiretti
3 in Milano Assicurazioni nacque da molto
lontano, non partì con la finalità di impostare nuove forme organizzative,
ma come risposta ad una emergenza operativa manifestatasi in alcuni settori
aziendali. L'intervento organizzativo permise di risolvere un problema di disomogeneità
culturale e di competenze che generava conflitti, a volte latenti a volte manifesti,
attraverso il coinvolgimento delle persone, capi e operativi, nella diagnosi
e nella implementazione delle soluzioni individuate.
Le stesse persone che avevano manifestato il disagio e generato la conflittualità
negli uffici hanno poi costruito un linguaggio comune (il manuale per la correzione
degli errori, principale attività da loro gestita), gestito la formazione
dei colleghi, contribuito a far emergere una nuova organizzazione.
Possiamo dire che furono attori del
cambiamento, realizzando direttamente manuali ed erogando la formazione, e che
fecero queste cose meglio di quanto avremmo potuto fare noi, perché prima
di tutto conoscevano il problema, era il loro problema, e conoscevano il mestiere
anche se lo vivevano con difficoltà per le differenze culturali e per
la organizzazione del lavoro insensata.
E furono motori del cambiamento organizzativo, avanzando semplici, ma ineludibili
istanze sull'organizzazione esistente.
Rileggendo quella esperienza usando
i concetti della complessità 4
sviluppati da Morin ne "Il paradigma perduto" possiamo dire che a
fronte di fattori generanti entropia e disordine (l'unione di persone provenienti
da culture diverse, la conflittualità latente, una gerarchia che non
rispondeva più ad una funzione,
) si sono manifestati fattori di
autorganizzazione capaci di costruire una nuova consapevolezza, sviluppare le
competenze e stabilire nuove prassi 5
(metodi di lavoro, processi di formazione e gestione della conoscenza, rapporti
capo subordinato).
La creatività al margine del caos, cose già sentite, ma di solito
non si capisce mai a cosa si riferiscano veramente. Bene nel caso in questione
eravamo veramente al margine del caos, dove sembrava che l'unico modo di risolvere
una situazione in rapido peggioramento fosse il ricorso a interventi straordinari
(cambio di persone, commissariamento,
..). Eppure esistevano anche competenze
e capacità sufficienti a risolvere il problema.
Ripensando a quella esperienza capisco le parole di Morin che parla di autorganizzazione
6 come di quella forza capace di contrastare
l'entropia tipica di ogni sistema vivente. Possiamo far rientrare nell'autorganizzazione
quei meccanismi che portano ad un livello superiore di complessità come
la selezione naturale o la creatività, sia essa riferita alla produzione
di beni e/o alla ricerca di nuovi assetti culturali e/o sociali.
Nel caso in questione abbiamo trovato nelle persone presenti in quello specifico
microcosmo socioculturale le risorse, le competenze, le capacità di analisi,
di interazione sociale, di comunicazione, ecc., necessarie per ristabilire un
equilibrio ad un livello di complessità superiore.
Queste risorse e queste persone creavano squilibri nel sistema socioculturale
esistente, generavano rumore, disordine, che si manifestavano in proteste, non
riconoscimento dell'autorità gerarchica, resistenza passiva al cambiamento.
Eppure le stesse persone e risorse sono stati attori e motori del cambiamento
7
Sull'altro lato, quello dell'ordine, troviamo una organizzazione che si basa
su principi tradizionali: logica gerarchica con rigida distinzione fra chi gestisce
i livelli di variabilità, il capo, e chi svolge le attività operative;
capo come gestore della conoscenza e come controllore; frammentazione e specializzazione
delle attività.
Questo schema organizzativo basato su regole tradizionali (span of control,
ruolo del capo, divisione del lavoro) non era in grado di rispondere in modo
efficace alle nuove necessità generatesi dalla fusione fra persone con
provenienze e quindi modelli di lettura del lavoro, competenze, storie, differenti.
In queste condizioni il rumore e il disordine crescevano, rivelando uno squilibrio
nella dialettica ordine-disordine. Era come se le persone spingessero perché
l'organizzazione cambiasse, senza peraltro negare l'impostazione tradizionale,
ma semplicemente mettendone in discussione l'operato (inefficacia dei corsi
di formazione, difformità nelle metodologie di lavoro da ufficio a ufficio,
incapacità di qualche singolo capo).
In realtà risposte semplici quali l'organizzazione di nuovi corsi o la
sostituzione di uno dei capi contestati non portarono ad alcun miglioramento.
Evidentemente la complessità della situazione richiedeva risposte non
semplici.
L'idea di fondo, me ne rendo conto ora dopo anni, fu quella di dare ascolto
al "rumore", di valorizzare le forze di autorganizzazione, lasciando
spazi perché potessero esprimersi, cercando di distinguere fra rumore
che genera entropia e rumore che genera idee e innovazione.
Dobbiamo completare il quadro, o almeno
aggiungere un tassello, e cominciare a includere anche gli analisti di organizzazione.
Le nuove prassi, i nuovi modelli organizzativi sarebbero nati senza il nostro
intervento?
Certo le forze di autorganizzazione esistevano, ma non avevano la forza di emergere,
se non come entropia. Forse un nuovo assetto sarebbe stato comunque trovato,
probabilmente con un maggior dispendio di energie, e ad un diverso livello di
complessità.
Cosa aggiungemmo noi analisti?
Noi eravamo uno degli aspetti dell'organizzazione, che si aggiungeva alla gerarchica
formale e informale.
Il nostro lavoro non fu però quello di lavorare sulla organizzazione,
ma di operare sulle forze di autorganizzazione, lavorando con le persone, favorendone
la presa di coscienza e l'esplicitazione dei problemi, aiutando l'emergere di
proposte, permettendo l'esplicitarsi di nuovi comportamenti e l'impostazione
di nuovi modelli organizzativi.
In fondo il lavoro fatto da noi non toccò per nulla i contenuti, ma operò
solamente sul metodo. La cosa più importante fu ricordare le finalità
dell'organizzazione (obiettivi operativi e di business) e dettare alcune regole
del gioco, i limiti entro cui i singoli e i gruppi potevano operare nella ricerca
di nuovi modelli di azione e cooperazione. In questo caso fornire degli obiettivi
di ordine superiore rispetto a quelli specifici dei singoli e dei micro-gruppi
coinvolti permise di ridurre la tensione e la tendenza al conflitto.
L'esplicitarsi delle forze di autorganizzazione si è manifestato solamente
dopo il confronto con un catalizzatore (gli analisti di organizzazione), con
una forza dell'organizzazione, con le regole e gli obiettivi del più
ampio gruppo azienda.
Un processo dialettico, di interazione, che ha permesso il prevalere delle forze
creative su quelle disgregative, o meglio il manifestarsi dell'aspetto creativo
piuttosto che disgregativo della medesima forza che era contemporaneamente e
potenzialmente entropica e creatrice 8.
Non c'erano infatti buoni e cattivi, ne idee buone e cattive, ma una forza,
una esigenza, che cercava nuove strade e poteva manifestarsi come conflitto
o come creatività sociale, culturale e generatrice di nuove competenze.
Il confronto fra il modello culturale/organizzativo esistente e le forze autorganizzative
ha permesso il manifestarsi di nuove prassi, che hanno in parte modificato il
modello socioculturale (per prassi, mutuando da Morin, intendo un comportamento
innovativo che viene adottato dal gruppo, divenendo patrimonio del sistema socioculturale
del gruppo stesso).
Al termine della rilettura di questa esperienza provo a proporre alcune riflessioni:
Vorrei a questo punto recuperare un'altra
esperienza, più recente, che a mio avviso può essere agevolmente
letta utilizzando le categorie di Morin.
Nel 2001 abbiamo avviato un nuovo modello formativo 9
che ribalta il rapporto fra formatore e discenti, portando le persone al centro
del modello. Ad ogni persona è chiesto di costruire un proprio personale
progetto formativo utilizzando una serie di opportunità fornite dall'azienda
(soldi, corsi, disponibilità di tempo, tutor, formatori). La persona
diviene centro e motore del progetto, è responsabilizzata e spinta a
pensare al proprio futuro e al futuro dell'azienda.
A un anno di distanza possiamo affermare che le persone coinvolte hanno reagito
ai nostri stimoli attivando grandi energie. I progetti personali sono equilibrati
e ben impostati, fondati su reali esigenze lavorative, pragmatici e impegnativi.
Formatori professionisti non avrebbero potuto fare altrettanto, e naturalmente
sarebbero costati ben di più.
Anche in questo caso possiamo dire che esistevano delle forze autorganizzative
notevoli per qualità e quantità, capaci di rilevare il proprio
quadro di competenze, metterlo in correlazione con le esigenze dell'organizzazione,
anche se non completamente esplicitate, e programmare attività volte
a organizzare l'informazione e ad accrescere le competenze.
Queste forze si manifestavano però in un diffuso e non molto esplicitato
malessere, che in parte trovava manifestazione nella ricerca di nuove opportunità
all'esterno dell'azienda, molto più spesso in una rassegnata frustrazione.
Evidentemente il contesto socioculturale, impostato sulla ricerca di sicurezza
e continuità, non permetteva l'emergere di queste forze propositive,
ne frustrava le potenzialità 10,
spingendo questa energia a manifestarsi come entropia, come rumore, come malessere
endemico.
Partendo da segnali deboli l'intervento formativo, concepito in realtà
come processo di cambiamento organizzativo, ha puntato su queste energie, sulla
capacità di autorganizzazione delle persone, ottenendo una significativa
mobilitazione di risorse.
È interessante notare che questa impostazione ha portato anche ad un
significativo coinvolgimento dei detentori di know how che hanno garantito la
costruzione di proposte formative e lo sviluppo di un data base della conoscenza,
permettendo in questo modo un significativo impulso alla messa in circolo delle
conoscenze. Anche in questo caso si è lavorato sul desiderio e sulle
potenzialità di queste persone, in modo da movimentare risorse solo parzialmente
utilizzate.
Tutte queste forze erano presenti in modo latente nell'organizzazione senza
riuscire a manifestarsi o facendolo in modo sporadico e non sistematico. Il
coinvolgimento di queste risorse latenti è possibile attraverso un riconoscimento
formale da parte dell'organizzazione, processo che consente di cooptare energie
marginali convogliandole su obiettivi condivisi e funzionali all'accrescimento
del patrimonio di competenze/capacità dell'organizzazione.
Una proposta che stiamo attuando consiste nel riconoscimento delle comunità
trasversali, gruppi assolutamente informali che condividono basi di conoscenze,
necessità informative e formative comuni, che vogliamo trasformare in
learning communities, riconoscendone in modo esplicito l'importanza nel processo
di costruzione delle competenze aziendali.
Ritornando a queste esperienze mi sono reso conto che in realtà mi sono
occupato di autorganizzazione più che di organizzazione.
Nei casi citati ed in altri ancora il percorso è partito dall'individuazione
di forze autorganizzative e proseguito con la loro valorizzazione tramite un
processo di riconoscimento da parte dell'organizzazione, in questo caso rappresentata
in parte dagli analisti di organizzazione che a loro volta dovevano operare
sulle altre forze organizzative per aprire spazi, trovare risorse, costruire
nuovi ambiti di possibilitazione.
I nuovi modello comportamentali, le nuove idee, sono molto spesso già
presenti, ma in gruppi marginali e o con manifestazioni episodiche. Si manifestano
come "rumore" e disagio, come turn over o come conflittualità
esplicita, come resistenza passiva o come rassegnazione, manifestando comunque
l'esigenza di poter esprimere forze ed esigenze creative non ancora integrate
nel modello culturale del gruppo più ampio (organizzazione) o della società.
Il processo di riconoscimento da parte dell'organizzazione, selettivo e complesso,
consente di portare alla luce questi comportamenti, valorizzarli e diffonderli,
individuare cioè le "emergenze" (da emergere), per favorirne
il dialogo con l'organizzazione. Attraverso la dialettica fra organizzazione
e autorganizzazione questi modelli comportamentali innovativi divengono prassi,
vengono cioè adottati dal gruppo, divenendo parte integrante della cultura
dominante 11.
Questi processi non sono mai lineari, comportano comunque un cambiamento dell'organizzazione
esistente e di conseguenza una diversa ripartizione di risorse e di potere.
I sistemi culturali sono intrinsecamente conservatori, quindi l'adozione di
nuove prassi rappresenta un momento di rottura. L'emergere di nuove proposte,
di nuovi comportamenti è sempre accompagnato da "rumore" che
può essere degenerativo o creativo o meglio degenerativo e creativo.
Questo rumore viene letto dall'organizzazione come disturbo, come riduzione
della efficienza, come interferenza nel modello culturale e di conseguenza sono
di solito attivati dei meccanismi/comportamenti di controllo del rumore, meccanismi
che però non distinguono fra rumore degenerativo e creativo (forse solamente
perché sono due momenti dello stesso fenomeno).
Dall'altro lato, i generatori del rumore, singoli o aggregati in gruppi marginali,
non sempre sono consapevoli della potenzialità insita in certi comportamenti
e in certe idee. Non esiste un livello di consapevolezza tale da attuare strategie
razionali e funzionali. O meglio, tutte le strategie sono razionali, rispetto
alle informazioni disponibili, e funzionali, rispetto ad obiettivi personali
o del gruppo, ma non lo sono rispetto ad un quadro più ampio e complesso
che necessità un livello di informazioni superiore, né con un
sistema di obiettivi socio-culturali che non sono semplicemente la somma degli
obiettivi individuali. E se non viene reso esplicito il vantaggio potenziale
per l'organizzazione di queste idee/comportamenti, questi rischiano di essere
respinti, rifiutati, marginalizzati.
La nascita di nuove prassi, cioè
l'adozione da parte di un gruppo sociale o di una organizzazione di nuovi modelli
di comportamento, avviene secondo schemi in parte conosciuti.
L'adozione di comportamenti innovativi da parte dell'organizzazione è
spesso legato a strategie di singoli che riescono ad entrare nel gruppo dominante
e portano con sé i comportamenti sviluppati precedentemente.
Oppure a momenti traumatici, conflitti più o meno intensi, che portano
a nuovi livelli di equilibrio. Molto spesso sono il risultato dell'agire concomitante
di tutti questi fattori e di fattori esogeni (ingresso nel gruppo di portatori
di culture differenti).
Gli analisti di organizzazione, intesi qui come agenti di cambiamento, possono
entrare in questo schema operando come lettori delle "emergenze" e
facilitatori dei processi di adozione di nuove prassi.
In quanto parte dell'organizzazione, della cultura dominante, saranno garanti
del rispetto di alcuni obiettivi comuni (macro-obiettivi o metaobiettivi), riducendo
le tendenze entropiche del "rumore" e finalizzandole allo sviluppo
dell'organizzazione. Partendo dall'analisi del sistema culturali e analizzando
i fenomeni marginali, assumendo il ruolo di agenti di cambiamento faciliteranno
l'emergere di idee e comportamenti innovativi, consentendo, attraverso l'impostazione
di specifici riti, il prevalere delle forze innovative rispetto a quelle entropiche.
In questa accezione gli analisti si pongono anche come rappresentanti delle
forze autorganizzative rispetto alla gerarchia e ai modelli dominanti. Oltre
ad avere un rapporto bivalente nei confronti dei singoli, gli analisti hanno
quindi un ruolo bivalente anche nei confronti della gerarchia, operando sia
per perpetuarla, sia per modificarla al fine di far emergere nuove prassi.
Entrano cioè a far parte del gioco della perenne riorganizzazione, come
enzimi e facilitatori, cercando di creare sintesi o metaobiettivi 12
che facilitino la dialettica fra organizzazione
e autorganizzazione 13.
Certo questo visione del lavoro degli
analisti (o degli addetto allo sviluppo organizzativo, o dei consulenti) basata
su una duplice bivalenza, legata alla capacità di lavorare sui segnali
deboli e sulle emergenze, che utilizza un metodo - non metodo, abbandonando
le vie del benchmarking per la ricerca dell'unicità e della specificità,
non è semplice.
Lasciatemi a questo punto, per rispondere allo sgomento della complessità,
riprendere alcune parole di Morin:
"La piena coscienza dell'incertezza, della causalità, della tragedia
delle cose umane è ben lungi dall'avermi condotto alla disperazione.
Al contrario è corroborante barattare la sicurezza mentale con il rischio,
perché così si guadagna la potenzialità. Le verità
polifoniche della complessità esaltano (
.) È corroborante
sfuggire per sempre alla teoria dominante che spiega tutto, alla litania che
pretende di risolvere tutto."
Note:
1 Morin ne Il paradigma perduto (Edgar Morin, Le paradigme perdu,
Le Seuil, Paris, 1973, trad. ital. Bompiani, Milano, 1974) formula molto bene
le idee che sono alla base del movimento sulla complessità, sviluppatosi
circa un decennio dopo in due filoni, uno americano legato all'istituto di Santafè,
l'altro in Europa per il quale rimandiamo alla lettura di Bocchi e Ceruti in
particolare (Gianluca Bocchi e Mauro Cerutti, (a cura di), La sfida della
complessità , Milano, Feltrinelli, 1985).
2 Morin recupera il concetto di autorganizzazione dall'ecologia: "( ) l'insieme di costrizioni, di interazioni, di interdipendenze, in seno a una nicchia ecologica, costituisce, a dispetto e attraverso il caso e l'incertezza, una autorganizzazione spontanea." "( ) non solo le gerarchie, ma i conflitti e le solidarietà sono fra i fondamenti del sistema organizzato, la competizione (matching) e il compromesso (fitting) sono alcuni fra i fondamenti complessi dell'ecosistema."
3 V. in Bloom il mio articolo "Il Business process reengineering nelle compagnie di assicurazioni".
4 Morin parlando delle idee di von Neumann fornisce questa definizione di complessità: "la complessità non solo significava che la macchina naturale mette in gioco un numero di unità e di interazioni infinitamente più elevato che la macchina artificiale, essa significa altresì che l'essere vivente è sottoposto ad una logica di funzionamento e di sviluppo totalmente diversa, una logica nella quale intervengono la non determinazione, il disordine, il caso come fattori di una organizzazione superiore o di una autorganizzazione."
5 Morin, "( ) un nuovo genere di vita, che ( ..) comporta l'utilizzo di armi difensive e offensive come pure la costruzione di rifugi, innesta quindi uno sviluppo tecnico all'interno di una nuova prassi; presuppone infine uno sviluppo della complessità sociale esso stesso sviluppante e sviluppato dal nuovo genere di vita, la nuova prassi."
6 Morin, "mentre il secondo principio (della termodinamica) significa entropia crescente, cioè tendenza al disordine molecolare e alla disorganizzazione, la vita significa tendenza all'organizzazione, alla complessità crescente, cioè alla negazione dell'entropia ( .) è il paradosso dell'organizzazione vivente, il cui ordine informazionale che si costruisce nel tempo sembra contraddire un principio di disordine che si diffonde nel tempo."
7 Morin, "( ) inoltre mentre il disordine interno, cioè, in termini di comunicazione, il "rumore" o l'errore, degrada sempre la macchina artificiale, la macchina vivente funziona sempre con una parte di "rumore", e l'accrescersi della complessità, lungi dal diminuire la parte di rumore tollerata, l'accresce. "
8 Tornando a Morin, "Ora le scoperte
ecologiche ci mostrano che il comportamento animale è nello stesso tempo
organizzato e organizzatore (
..) Nelle società animali (
.)
si trova già un ordine complesso che presuppone un certo disordine o
rumore come elemento indispensabile alla propria complessità."
9 Vedi in Bloom il mio articolo "Oltre
la formazione, alla ricerca di un nuovo metodo per la gestione della conoscenza".
10 Morin, "( ..) è corroborante barattare la sicurezza mentale con il rischio, perché così si guadagna la potenzialità."
11 Morin, "( ) società e individualità non sono due realtà separate che si giustappongono, ma esiste un doppio sistema dove in modo complementare e contradditorio individuo e società diventano parte integrante l'uno dell'altra in un rapporto di simbiosi. ( ) Vi sono dunque, nel doppio sistema, equivoco e rumore di ognuna delle componenti rispetto all'altra. Ma attraverso questo movimento troppo disordinato da una parte (individuo) e, queste costrizioni troppo rigide dall'altra (società o organizzazione), si stabiliscono quelle interferenze che costituiscono l'essere stesso della società e l'essere stesso dell'individuo."
12 Per metaobiettivi intendo quanto segue. La frammentazione del lavoro ha portato al sorgere di una miriade di subobiettivi che solo considerati nel loro complesso riacquistano senso. Provo ad esemplificare conscio della possibilità di banalizzare: il controllo gerarchico è fondamentale per il governo dell'organizzazione, ma se viene estrapolato da un contesto globale assume validità "di per sé", rischiando di bloccare la dialettica fra organizzazione e autorganizzazione. Così le forze autorganizzative tendono a disperdersi (rassegnazione, uscite) o a polarizzarsi in forme conflittuali. Solo spostando l'attenzione dal subobiettivo "controllo" del capo e il subobiettivo di "affermazione personale" del singolo e creando una sintesi, un metaobiettivo (sopravvivenza dell'organizzazione, ad es.) si riesce a ricondurre la dialettica fra ordine e rumore in un ambito creativo che sfoci in nuove prassi, in un nuovo punto di equilibrio individuato ad un livello di complessità superiore.
13 Morin, "(
) la minaccia
costante che il disordine mantiene è ciò che da alla società
il suo carattere complesso e vivo di riorganizzazione permanente. Radicalmente
diverso dall'ordine meccanico, l'ordine "vivente" è quello
che rinasce senza sosta."
"Ed ecco dove appare la logica, il segreto, il mistero della complessità
e il senso profondo dell'autorganizzazione: una società si autoproduce
senza sosta perché senza sosta essa si autodistrugge."