Avendo frequentato la stessa
scuola aziendale di Stefano Rosato (Paolo è stato anche il mio capo,
anche se per poco tempo, e a lui mi lega un profondo affetto) non posso che
condividere l’attenzione alla ricerca di razionalità nell’organizzazione,
quindi la riduzione di inefficienze e sprechi, anche se a volte questa ricerca
di maggior efficienza si traduce in sacrifici per alcune persone, gli esuberi.
Tuttavia con qualche distinguo.
Ritengo che la funzione sociale dell’impresa sia un elemento estremamente
importante e non sia legato solamente alla visione socialista dell’economia.
Anche se non ho avuto tempo di andare a rileggere i sacri testi posso affermare
che anche nell’etica capitalistica l’elemento sociale del fare
impresa fosse molto importante e nettamente distinto dal profitto. Il fare
impresa era inteso come modalità di “promozione sociale”,
era moralmente accettabile e fonte di riconoscimento da parte della società,
mentre il fare profitti attraverso il commercio era considerato iniquo, cosa
da lasciare ai praticanti di altre religioni.
Alle origini del capitalismo esisteva quindi una forte vocazione sociale del
“fare impresa”, che è sopravvissuto fin quasi ai tempi
nostri (un bell’esempio è riscontrabile in “pastorale americana”
di Philip Roth ).
Ma anche ai giorni nostri ritengo che anche il più liberista degli
imprenditori debba riconoscere un “debito” sociale. Bill Gates
è diventato ciò che è per suoi meriti, per la miopia
dei suoi primi datori di lavoro, ma anche al fatto di essere cresciuto in
un ambiente sociale che gli ha permesso di esprimersi liberamente, gli ha
dato una cultura, gli ha permesso l’accesso al credito, eccetera.
In più ritengo che la spinta imprenditoriale vada ben al di là
del “metodo razionalmente orientato” e, benché usi la razionalità,
sia essenzialmente passione, quindi sentimento.
Con questo non voglio schierarmi dalla parte dei buonisti e di chi intende
l’impresa come ente di beneficenza. Non voglio lasciar spazio al posto
garantito e simili insulsaggini.
Però non voglio neppure ridurre l’imprenditorialità e
la creatività che ne è la base a mero calcolo di interesse.
Anche la mia visione più sociale dell’organizzazione non può
però esimersi dall’efficienza e dall’efficacia anche se
non è riconducibile solamente a questi elementi.
L’impresa come ente sociale e come mezzo di affermazione sociale si
giustifica solamente nella misura in cui riesce a produrre valore, sia esso
profitto, posti di lavoro, brevetti, servizi sociali.
Quando qualche cosa impedisce la creazione di valore, quando l’entropia
organizzativa prevale sulla forza creatrice e organizzatrice allora il fare
impresa perde di senso e non è più giustificato. In questo ottica
la ricerca di efficienza ed efficacia è anche più importante
che nello schema “razionalità come via verso il profitto”
e si applica a qualsiasi organizzazione finalizzata alla produzione di beni
o servizi, non solo all’impresa privata.
Ma anche da un punto di vista liberista vi è un limite sociale al fare
impresa e alla ricerca del profitto dato dal non recare danno agli altri,
che siano dipendenti, azionisti o terze parti impattate dall’attività
dell’impresa. In questo senso l’incapacità di produrre
valore aggiunto può essere inteso anche come danno sociale in quanto
riduce la ricchezza complessiva a disposizione della società, così
come l’inquinamento o la concorrenza sleale, recando danno a terze parti.
Per me quindi la ricerca
di efficienza ed efficacia è importante non per amore della razionalità,
né come ricerca del massimo profitto per l’azionista. Può
essere anche questo, ma non solo. E’ tensione verso la creazione di
valore, qualunque sia l’oggetto sociale dell’organizzazione, ed
è questa creazione di valore che rende sensato l’agire organizzato
sia per l’individuo che per la società.