FRONTIERE ETICHE DELL'IMPRESA SENZA FRONTIERE: IL RITORNO DELLE COMPAGNIE DELLE INDIE?
L’economia al tempo della globalizzazione
ultima versione non ha abbattuto le frontiere, come s’usa dire,
s’è piuttosto trasferita in una regione immateriale dove le frontiere
non esistono, e gode della sua condizione di extraterritorialità. La
finanziarizzazione dell’economia globale, intanto, agli strumenti utilizzati
in passato (fondi comuni d'investimento, titoli atipici, società fiduciarie
ecc.) ne ha aggiunti di nuovi, rendendo sempre più difficile la distinzione
tra capitali legali e illegali.. I numeri sono (quasi) noti ma sempre impressionanti,
comunque utili come promemoria: il solo mercato dei derivati in circolazione
supera del doppio la produzione economica mondiale. Sono tra 60 e 90 i paradisi
fiscali; nel solo 1997 nelle isole Vergini britanniche sono state costituite
50 mila nuove società (ora vi operano più di 270 mila società),
nelle Cayman più di 42 mila, a Cipro più di 34 mila. I depositi
hanno raggiunto 241 miliardi di dollari nelle Bahamas e oltre 500 a Cayman.
Del movimento giornaliero di capitali meno d’un cinquantesimo del totale
riguarda l'economia reale, tutto il resto è capitale finanziario alla
ricerca permanente di sbocchi speculativi; nel 1970 erano tra 10 e 20 miliardi
di dollari, nel 1980 80, nel 1990 500, oggi s’aggira sui 3, forse, 4000
miliardi. Parallelamente, le frontiere tra l'economia criminale e quella legale
sono cadute così come quelle fra criminalità comune e politica
(il cosiddetto terrorismo).
Come scrive Loretta Napoleoni, nel contempo la violenza s’è ugualmente
transnazionalizzata: se con la deregolarizzazione finanziaria e il crollo delle
barriere i capitali occidentali han potuto espandersi in tutto il mondo, l'economia
del terrorismo che già esisteva, ma localizzata nei singoli Paesi, ha
varcato le frontiere. Le organizzazioni terroristiche hanno saputo collegarsi
tra loro in modo globale e hanno stretto rapporti più intensi con il
mondo del crimine e dell'illegalità, e dell'economia legittima; sicché
la maggior parte del fatturato della prima viene riciclato nell’ultima.
Un terzo dei proventi è prodotto in attività legali ma la maggioranza
proviene da attività illecite, dunque il primo problema è quello
di riciclare questo denaro in Stati Uniti ed Europa altre (secondo il Fondo
Monetario, il solo lavaggio di denaro ammonta al 2 o 5% del PNL globale). Le
basi operative sono nei paesi avanzati o nei cosiddetti stati-guscio che han
come obiettivo principale il mantenimento della condizione di guerra, perché
si mantengono attraverso la guerra, che sia contro stranieri o interna, e con
la quale il gruppo terrorista gestisce parte del territorio e dell’economia.
Il prodotto criminale, lo spostamento illegale dei capitali, e l'economia legale
si muovono tutte nello stesso sistema, e il crimine ha lo stesso peso degl’altri;
perché nell'opacità del sistema finanziario son indistinguibili
le provenienze e nature dei diversi flussi .
Le tante compagnie transnazionali (TNCs) credono in genere di approfittare dei dislivelli normativi esistenti fra diversi Paesi e dei vuoti di copertura dell’ombrello del diritto internazionale per muovere vorticosamente i numeri, e per cercare altrettanto vorticosamente regioni dove la vaghezza, o l’assenza, delle norme abbassa i costi di quel che è rimasto della produzione reale. Solo una piccola parte delle TNCs, però, controlla tutte le fasi di questo processo, mentre il resto si adegua, in particolare al fatto che una delle sue conseguenze più rilevanti, ma anche più nascosta, è che al tanto desiderato calo della capacità pubblica di controllo del territorio ha corrisposto una richiesta d’innalzamento dell’impegno privato nella protezione degli affari, in proprio o per mezzo di appaltatori. Ciò ha fatto allo stesso tempo lievitare l’importanza e i costi della sicurezza, e l’importanza e il fatturato delle privatised military and security firms (PMFs).
Tutto fa pensare che si stia compiendo la parabola che nei cinque secoli fino al Novecento aveva contemporaneamente democratizzato e internazionalizzato la violenza globale (con il disarmo dei soggetti transnazionali privati), e ridotto al minimo le regioni d’extraterritorialità (con la trasformazione dell’intero spazio planetario in spazio pubblico, inter-nazionale), e oggi la sta ri-privatizzando mentre crescono le aree grigie dell’assenza di controllo pubblico. Così come la conquista statale di questo monopolio era passata per la concessione temporanea del ruolo di civilizzatori e di motore dell’espansione a privati (in Inghilterra, l’epoca pioneristica dei corsari è, appunto, chiamata del privateering; quella successiva di consolidamento dell’Impero è quella della concessione alle Companie delle Indie di uno status di quasi-Stato con facoltà di muovere guerra); così, oggi, la contrazione della sfera pubblica ha il suo corrispettivo più discusso nella privatizzazione del mondo, e, più in ombra, quello di appalto alle PMFs della violenza che gli Stati non sono più in grado o disponibili a esercitare.
Latita assolutamente, intanto, una discussione sulle questioni etiche della soluzione privata ai problemi di sicurezza e, di conseguenza, sui limiti legali e morali all’impiego delle PMFs da parte delle TNCs (alcuni Stati più toccati dal fenomeno delle PMFs – USA, Gran Bretagna, Sud Africa – e le organizzazioni umanitarie perlomeno hanno cominciato a interrogarsi). Nella vaghezza della normativa e della sua supervisione, l’accettazione della necessarietà di queste pratiche va raggiungendo degli estremi, forse, di non ritorno. La punta del processo, e quella a cui si deve il poco d’attenzione che la questione riceve, è quello dell’occupazione dell’Iraq dove il primo alleato delle armate angloamericane è composto da appaltatori privati (The Economist l’ha soprannominata la prima guerra privatizzata), e dove per compensare i costi dell’operazione, l’autorità occupante ha – in palese contrasto con la legge internazionale – provveduto immediatamente a privatizzare l’intera economia per venderla a TNCs amiche. Fiduciosi nella politica del fatto compiuto (I – creare il proprio mercato con ogni mezzo; II – introdurre regole da una posizione di vantaggio), i registi della transizione confidavano proprio nella capacità delle TNCs di sostituirsi nel medio termine alla mano pubblica, con ciò intendendo anche l’autonomia nel proteggere i propri affari. Il fatto che il disegno stia incontrando ostacoli più alti del previsto non inficia la potenza della visione alle sue spalle.
Di nuovo, sorge la questione dei limiti etici a tale condotta degli affari: proprio perché limiti politici, giuridici, economici non sussistono o sono facilmente ignorabili, l’impresa, che s’è mossa in questi anni verso l’extraterritorialità e verso il riconoscimento della propria sopravvivenza come fonte unica normativa, può riconoscersi altresì portatrice di preferenze morali? Se, fino a poco tempo fa, erano marginali convinzioni come quelle di Serge Latouche sull’essere la teoria economica basata sull’indifferenza etica; sulle leggi morali (quali regole di condotta) come le leggi giuridiche destinate a regolare il comportamento dei soggetti ma non in materia economica; oggi il sentimento della crisi è sempre più condiviso. Ormai tutti i soggetti che operano oltre frontiera (anche le PMFs) si son dati codici etici ma, di fatto, non affrontano il valore etico delle proprie strategie, in particolare il nodo sempre più stretto della loro militarizzazione. Si può trovare un modo per invertire questo corso delle cose?
Intanto, nel compiersi del tragitto della parabola evocato prima, l’integrazione fra TNCs e PMFs (di cui la ex compagnia del vicepresidente americano Cheney – la Halliburton – è il caso più avanzato e, quindi, paradigmatico) fa presagire il ritorno delle compagnie-stato, con potere di vita e di morte nei territori a esse assegnati o (ed è una prospettiva assai più spaventosa ma parimenti realistica) da esse conquistati.