BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 26/09/2005
IL CASO IAQUINTA E IL CASO BERGOGLIO

di Francesco Varanini 

Caso Iaquinta

Vincenzo Iaquinta, un calciatore, un attaccante, nel pieno della fase ascendente del rendimento e ella consapevolezza dei propri mezzi, in forma, è messo fuori squadra, fuori rosa, per esplicito volere del presidente.

Giampaolo Pozzo, il presidente dell’Udinese, ha le sue ragioni. Il valore dell’asset costituito dal calciatore, stante le attuali forme contrattuali, si azzera in pochi anni. Ed è un merito dell’Udinese avere i conti in ordine, e anche avere calmierato il costo dei contratti. Buoni giocatori, o forse ottimi, come Iaquinta, sono pagati un decimo o meno di ostentati campioni – e certo il loro rendimento non è dieci volte inferiore.

Ma il presidente ha rifiutato di cedere Iaquinta ad altre squadre, che avrebbero certo offerto al calciatore un ingaggio più alto. E ora pretende che il calciatore rinnovi adesso il contratto in scadenza nel 2007. Perché altrimenti allora il calciatore potrà andarsene dove vorrà senza che all’Udinese ne venga una lira.

Il giocatore non parla, ma si suppone che vorrebbe giocare, anche per non perdere il posto in nazionale. Il presidente, per forzarlo ad accettare il rinnovo del contratto, gli impedisce di giocare. Cioè, gli impedisce di lavorare, di esercitare la propria professionalità.

Ci sono analogie con una situazione che si verifica frequentemente in azienda. Quando il vertice aziendale vuole sbarazzarsi di un dirigente, adotta comportamenti tesi a demotivare la persona. L’obiettivo deve essere raggiunto, non si lesinano i mezzi. Si emargina il dirigente, lo sposta ad altre attività, magari si trasferisce la sua scrivania in luoghi periferici. Ma agli atteggiamenti ‘punitivi’ si associano quasi sempre incentivi economici all’uscita. Sulla base di una più o meno fondata convinzione che quel dirigente non serva più, si forza la situazione, si adotta una strategia di pressione psicologica, sapendo che in ogni caso si andrà a una trattativa.

Anche nel caso di Iaquinta si cerca la trattativa. Ma qui c’è il paradosso che si forza la situazione non perché si vuole allontanare una persona inadeguata, ma al contrario perché la si vuole trattenereuna persona troppo adeguata, e quindi appetita dalla concorrenza. Nel caso dei dirigenti, è stato formulato un giudizio negativo nei loro confronti, qui invece la forzatura nasce da un pieno riconoscimento del valore del giocatore.

Nessuna azienda tratterebbe una persona di valore come fa l’Udinese. Cercherebbe di trattenerla, godendo dei risultati che la persona procura (gol, partite vinte), o la lascerebbe andare.

Ma appunto qui sta la differenza: l’azienda ha interesse ad usare le capacità delle persone, perché è attraverso l’uso di queste capacità che raggiunge i risultati positivi. Mentre per la società sportiva, che però è una società per azioni, il calciatore non è una persona, ma un asset, un bene patrimoniale – come un impianto, o un marchio. La società sportiva non perde valore se perde le partite, perde valore se perde i giocatori.

Il presidente Pozzo così agendo si mostra quindi imprenditore oculato. Peccato si tratti però persone, e non di macchine. 

Caso Bergoglio

Jorge Mario Bergoglio, sessantanovenne, argentino, figlio di emigrati piemontesi, Arcivescovo di Buenos Aires, “a conservative Jesuit,known for his humility”. Uomo di preghiera, comunicativo, schivo, “Vive in un appartamentino e si cucina da sé”, “colto e insieme dotato di polso”. “In patria gode di una stima altissima e diffusa”. “Al sinodo dei vescovi del 2001, richiesto all’improvviso di far da primo relatore, stupì tutti per la sua bravura”.

A 36 anni è già provinciale dei gesuiti argentini. Ma ha i suoi nemici. Si legge su giornali argentini: “Si arrivò all’estremo di isolarlo dal mondo recludendolo in un convento di Córdoba, nel 1985, dove non gli passavano neanche le telefonate”. Da questa specie di esilio lo riscatta Giovanni Paolo II.

Ora, rivelazioni apparse sulla rivista Limes, anticipate da telegiornali, riprese da tutti giornali del mondo, ricostruiscono le vicende del Conclave dal quale esce, fatto papa, il cardinale Ratzinger.

Nella terza votazione mentre Ratzinger aveva 72 voti, Bergoglio raggiunse i 40, causando una situazione di stallo. Cosa portò, alla successiva votazione agli 84 voti di Ratzinger?

Si legge che il cardinale Bergoglio si impaurì, o comunque si rese conto che avrebbe potuto anche essere eletto e, non sentendosi pronto per un tale compito, si ritirò. Scongiurò i suoi elettori di smettere di votarlo.

Ma sembra che i suoi elettori, più che dalle sue richieste, rimasero impressionati dall’apprensione, o dal terrore, che lessero sul suo volto. Il dubbio, mi sembra di poter dire, più che sulla possibilità che Bergoglio non accettasse il mandato, stava nel timore che, assunta la carica, non sapesse reggere allo stress.

È su questo che mi sembra interessante riflettere. Ritrovo in questo caso esemplare interessanti spunti per ragionare sui perché di certe scelte. Spesso ci chiediamo: perché quel tipo lì è stato scelto per quell’incarico pubblico. Oppure, perché è quel dirigente, o quel tipo di dirigente, che va ad assumere le posizioni di responsabilità.

Spesso le persone più adatte a coprire un ruolo di responsabilità e di potere sono coloro che con più lucidità vedono le difficoltà, sentono le pressioni, patiscono il peso del potere. Lontani da ogni forma di paranoia, si interrogano, come è giusto, delle proprie capacità. Ma proprio per questo sono adeguati. Copriranno il ruolo, probabilmente, senza arroganza, dubitando continuamente, disposti a mettersi in discussione, attenti agli altri.

Sull’altro fronte, un altro tipo di candidati. Vincenti, sicuri di sé, disposti sempre a candidarsi, orientati alla carriera, attenti a nascondere le proprie debolezze, corazzati di fronte allo stress. Questi non sono necessariamente candidati peggiori, ma certo persone che devono consumare più energie per alimentare la propria corazza, per tenere a bada le proprie emozioni.

E poi c’è l’atteggiamento degli elettori, di coloro che devono scegliere, o devono favorire o indirizzare una scelta. Per loro, scegliere un candidato del primo tipo è una doppia responsabilità. Perché appunto potrebbe tirarsi indietro, perché si tratta di una scelta non comoda, che andrà difesa. E anche perché, probabilmente, arrivata a coprire la posizione, quella persona li coinvolgerà e li chiamerà a partecipare. Mentre si sa che spesso si sceglie –si scelgono anche i propri capi– per deresponsabilizzarci e per allontanare da noi ogni tipo di rogna.

Così meglio andare su sicuro scegliendo il candidato decisionista e (apparentemente) sicuro di sé.

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