BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 20/07/1999

IL KNOWLEDGE, QUESTO SCONOSCIUTO

di Francesco Varanini

Le grandi mode della ricerca e degli interventi legati alle organizzazioni hanno spesso origini misteriose: si mischiano e si sovrappongono profonde riflessioni sociologiche, ragioni tecnologiche, più o meno meschine motivazioni di mercato. (La relativa novità del concetto è testimoniata anche dal fatto che c’è qualcuno –si tratta dei più– che dice il knowledege, e qualcuno che dice la knowledge).

Utile in ogni caso, in queste situazioni, cercare di guardare ‘dietro’ e ‘intorno’.

Primo avvicinamento: l’etimologia

La radice indoeuropea gn-/gen-/gne-/gno- parla di ‘accorgersi’, ‘apprendere con l’intelletto’, ‘sapere qualche cosa’, e quindi: ‘conoscere’.

Da qui il sanscrito janati, ‘conosce’. In greco gignoskein, ‘conoscere’, gnome, ‘giudizio’, gnorizo, ‘fare’, ‘conoscere’, gnosis, ‘conoscenza’. In latino co-gno-sco (dove co- sta per ‘con’, e -sco sa per ‘cominciare a’); gnarus, ‘che conosce’; ignarus, ‘che non conosce’; notum ‘conosciuto’; nobilis, ancora ‘noto’, ‘conosciuto’; notio, notitia, ‘conoscenza’. Nell’antico alto-tedesco dalla radice discendono solo verbi composti – -cnaen, cnahen –, ma è per questa via che arriviamo al tedesco moderno können, ‘sapere’, ‘potere’; e kennen, ‘conoscere’. Nell’antico inglese abbiamo il verbo gecnawan, poi cnawan, da cui know, ma anche l’ausiliario can, ‘sapere’, ‘potere’.

A knowledge, ‘act, state or fact of knowing’, si arriva (nel 1200) aggiungendo a cnawan -leacan, che ci parla dell’idea di ‘processo’, ‘procedimento’, ‘messa in pratica’. C’è quindi, come già nel latino cognosco (‘comincio ad accorgermi’), un richiamo dell’aspetto dinamico, costruttivo: la conoscenza, infatti, non esiste a priori, può essere solo colta nel suo farsi. Ma qui il richiamo è molto più forte: c’è, pienamente sviluppato, il senso del divenire, dell’accumulazione. E c’è anche a ben guardare l’idea del ‘sapere distintivo’, destinato a restare ‘riservato’, ed anzi in qualche misura ‘segreto’. Non a caso nel 1200 knowledge stava anche per ‘confessione’: il knowledge è conoscenza che si ammette, si confessa di possedere. Non è mai conoscenza che si ‘divulga’. Divulgare: ‘rendere noto a tutti’; alla lettera: ‘spandere tra la folla’ ci appare, non a caso, un gesto del tutto contrario al quello della ‘confessione’. (L’idea del ‘riconoscimento’ e dell’ammissione’, persa da knowledge dopo il 1200, si ritrova nel 1400 in acknowledge).

Un curioso aggancio sta, tornando al latino, nella gloria, parola dall’origine incerta, ma che qualcuno fa risalire alla indoeuropea gn-/gen. La gloria sarebbe dunque, in origine, l’onorevole situazione di ‘colui che può vantarsi di sapere’. Cosicché noi potremmo dire ora: la gloria contraddistingue chi possiede il knowledge.

Per arrivare al know-how dobbiamo lasciare passare vari secoli. Dobbiamo arrivare alla prima metà del 1800, quando si afferma la tecnologia: arti e mestieri si evolvono, perché trovano ora sostegno e fondamento in applicazioni pratiche delle scienze. Dove prima le conoscenze si trasferivano da artigiano ad apprendista, di fronte alla maggiore complessità si manifesta l’esigenza di conservare le informazioni relative al ‘come fare’. Stando all’Oxford Dictionary se ne parla per la prima volta sul New Yorker del 14 luglio 1838: "To do the duties of the office to the best of my know-how, and have a stouter man than myself to help me".

Dunque, potrebbe sembrare, knowledge e know-how ci parlano di ‘conoscenza scientifica’, codificata, proceduralizzata, descritta da rigorosi modelli, conservata in data bases. Ma non è così. Almeno, non è solo così. Dalla stessa radice indoeuropea deriva (attraverso gnarus, ‘esperto’) anche (g)narrare. Il modo migliore per perpetuare un ‘sapere distintivo’, per trasmettere il knowledge è forse il racconto, una pura narrazione.

Secondo avvicinamento: la narrazione

Il percorso è già implicito nella chiusura del paragrafo precedente. Si può dire, con apparente paradosso, che di fronte ad oggetti difficilmente conoscibili, rispetto ai quali si è per definizione ignari, il modo meno inefficace di descriverli è raccontarli.

Pensiamo proprio al racconto, innanzitutto orale, la modalità attraverso la quale da che mondo è mondo l’uomo ha saputo ‘darsi ragione’ e ‘comunicare agli altri’ sia i concetti più complessi, sia la modalità di funzionamento delle organizzazioni.

La modalità conoscitiva tipica della ricerca antropologica non è nient’altro che questo: ascoltare un racconto orale, inquadrarlo nel suo contesto, tentare si costruirne una sintesi comprensibile e fruibile per chi vive al di fuori della ‘cupola culturale’ all’interno della quale quel sapere, quella visione del mondo si è generata.

L’antropologo non può ‘somministrare questionari’, non può utilizzare metodi formalizzati, perché quei metodi verificati in un contesto culturale, buoni per portare alla luce gli aspetti significativi di una realtà organizzativa, non è detto che siano adatti a portare alla luce gli aspetti significativi di un’altra realtà organizzativa. Anzi, probabilmente i metodi validi in un contesto sono fuorvianti in un altro. (Questa non è teoria, è esperienza di antropologo).

Come l’antropologo ascolta la voce degli abitanti di un villaggio, il ricercatore o il consulente che si propone di conoscere una organizzazione deve porsi in atteggiamento di ascolto, sapendo che sta osservando un mondo attraverso gli occhi di persone che vivendo all’interno dell’organizzazione ne conoscono il funzionamento, e sanno raccontarne il funzionamento. Però, come sono ‘interne’ a quel mondo le persone che raccontano, altrettanto è interno a quel mondo il loro linguaggio. Linguaggio che l’antropologo potrà capire solo in parte. Sia che goda del contributo di un ‘traduttore’ (una persona che si sforza di spiegare un mondo a chi non lo vive), sia che traduca da solo (sia che compia questo sforzo di lettura da solo) saprà portare fuori solo una immagine distorta, parziale. Nel suo ‘racconto’ il ‘contenuto originario’ sarà solo parzialmente rispettato.

Valga l’esempio di come giunge a noi condizionato da innumerevoli passaggi un testo scritto in tempi lontani: I Ching, o la Bibbia. D’altronde, l’illusione del filologo di ripristinare il testo originale (l’archetipo) è vana. È un esercizio positivistico che lascia il tempo che trova: non tanto nel senso che il testo originale è ormai perso, e quindi le sue ricostruzioni non possono essere certe, ma in un senso più radicale: il testo originale non esiste: la produzione dei contenuti è un processo, il momento in cui una porzione di contenti si è consolidata in un testo (orale, codificato dalla rima) o scritto, è solo un momento nella storia della costruzione del sapere, del knowledge.

Ne risulta che ogni pretesa ‘ricostruzione scientifica’ del sapere di una organizzazione non è che un parziale ed opinabile tentativo di leggere questo sapere. Ne risulta anche che –probabilmente– offrirà la ricostruzione, o l’immagine, migliore –nel senso di meno imprecisa, più efficace– non chi si preoccupa di ri–usare metodi standard, già usati altrove, ma chi si abbandona empaticamente all’oggetto, cercando di raccontarlo senza trascurare –anzi dando il massimo valore– alle proprie emozioni, ai propri dubbi, senza mai dimenticare che ciò che sta restituendo è una immagine parziale e soggettiva. Dunque non praxis, ‘azione’ scientificamente orientata a conoscere, ma poiesis: ‘fare’, ‘produzione’ (nel senso di ‘io produco la mia –parziale– conoscenza) e al contempo ‘poesia’: capacità di raccontare commuovendo e suscitando emozioni.

Dovendo ognuno confrontarsi con la propria capacità di lasciarsi emozionare dall’oggetto di indagine, dovendo ognuno scoprire e costruire, o meglio: lasciar emergere– la propria capacità empatica, ci appaiono inutili i tentativi di trasformare in metodo l’‘etnografia organizzativa’ (vedi Claudia Piccardo e Angelo Benozzo, Etnografia organizzativa, Milano, Cortina, 1996).

E appaiono insoddisfacenti anche i ben più stimolanti e profondi tentativi di ‘narrare le organizzazioni’ (vedi Barbara Czarniawska, Narrating the Organization, Dramas of Institutional Identity, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1997). Perché l’acuta autrice osa troppo poco: si confronta con il critico letterario, forse anche con il filologo, e cerca nel lavoro del critico e del filologo la radice della ‘narrazione’. Come dire: solo il critico ed il filologo –esperti legittimati– sono in grado di ‘leggere il testo’. Nel nostro caso: solo il ricercatore che sa usare gli strumenti del critico letterario e del filologo può guardare con la speranza di comprenderli ai fatti organizzativi. È vero, ma è troppo poco. Il vero modello al quale il ricercatore dovrebbe avvicinarsi non è il critico (‘conoscitore scientifico’), ma il puro narratore (romanziere o poeta, ‘conoscitore empatico’).

Czarniawska ricorda l’inevitabilità della mediazione dell’osservatore: l’oggetto può essere conosciuto solo attraverso la mediazione dell’osservatore ( è un fondamentale punto epistemologico sottolineato anche in altri contesti della ricerca scientifica, vedi per esempio la nota esplicitazione di questo ragionamento che sta in Humberto Maturana & Francisco Varela, Autopoiesis and Cognition. The Realization of the Living Dordrecht, Holland: D. Reidel Publishing Company, 1980; tad. it Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente Venezia, Marsilio, 1985). Ma considera la mediazione dell’osservatore necessaria e positiva. Accetta come arricchente la mediazione del critico, dell’esperto, dell’interprete legittimato. Di chi gode di un certo status accademico professionale.

Il poeta o il romanziere sono invece, per definizione, dilettanti della conoscenza. Non negano mai di aggiungere o togliere qualcosa all’oggetto. (Questo è vero anche per la narrativa che si sforzava di essere ‘naturalista’ e ‘positivista’, alla Zola). Non negano mai di lasciarsi trascinare dalle emozioni. Da tutto ciò nasce una descrizione dell’oggetto –una ‘narrazione’ del knowledge che caratterizza una organizzazione– più ricca ed efficace delle descrizioni agganciate a qualsiasi canone ‘scientifico’ e (nelle pretese) ‘oggettivo’.

Terzo avvicinamento: i nuovi ‘tempi e metodi’

Scendendo dai cieli della ‘produzione estetica’, torniamo terra terra. Anzi, potremmo dire, sottoterra, nei sotterranei dell’organizzazione, in quei luoghi trascurati per lo più dalle ricerche, in quei luoghi dove ‘si fa la produzione’, dove ‘girano le macchine’, nei magazzini, negli anfratti meno visitati. Anche lì vivono persone.. Il ‘conoscitore scientifico’ raramente si ‘sporca le mani’ per andare a parlare con queste persone, raramente visita questi luoghi. L’antropologo può e deve farlo. Perché lì vive cresce e si manifesta l’‘organizzazione latente’, l’‘organizzazione di fatto’.

Non ci pare peregrino un parallelo: il più serio tentativo (ancorché ormai universalmente considerato superato) di conoscere ‘scientificamente’ l’organizzazione si fonda proprio sulla conoscenza di cosa accade ‘nel ventre dell’organizzazione’. Dell’organizzazione scientifica non contano tanto i modelli di elaborazione, le statistiche, le razionalizzazioni delle informazioni. Conta poco la mitologia del ‘cattivo’ analista che col camice bianco ed il cronometro in mano controllava i comportamenti delle persone. Conta la ricerca di base su cui si fondava il metodo.

L’analista osservava il lavoratore, ogni lavoratore, anche il più umile, cercava di comprendere la sua ‘vera presenza’. L’approccio alla conoscenza si fondava sull’eliminazione di ogni possibile mediazione. Osservare l’operaio al lavoro, registrare e dare valore ad ogni suo gesto. Su questo si è fondato per decenni il knowledge, la conoscenza delle organizzazioni.

Quando sono cambiate le cose? Quando una parte significativa del lavoro ha iniziato ad essere svolta da macchine. Macchine non più intese come protesi delle braccia umane. Macchine che sostituivano l’uomo nel governare e coordinare il lavoro. Macchine, per di più dotate di una loro ‘sapere codificato’ (il software) e di una memoria (la registrazione di ogni operazione o azione svolta).

A ben guardare, il knowledge management è questo: ri–scoprire, ri–leggere e possibilmente riorganizzare ed utilizzare in modo più efficace il sapere conservato nella memoria delle macchine. Operazione a ben vedere analoga a quella svolta dall’analista che si sforzava di ri–scoprire, ri–leggere e possibilmente riorganizzare ed utilizzare in modo più efficace il ‘sapere operaio’.

Se questo è vero, si dovrà porre attenzione ad un aspetto: l’uomo non è scomparso dalla scena organizzativa e produttiva; buona parte del sapere e della conoscenza restano nascoste nelle menti delle persone, in cassetti inviolati, nel disco fisso del mio personal computer.

Non basta quindi recuperare ed organizzare il sapere contenuto nelle basi dati.

A lato di questa ricerca, è necessaria una ricerca che si rivolga a socializzare la conoscenza latente delle persone. (Qui l’approccio antropologico appare non solo necessario, ma indispensabile).

In conclusione, potremmo dire che lì –nel luogo in cui si afferma come mercato emergente il knowledge management– lì dove sembra aprirsi un discorso tutto interno all’Information & Communication Technology –nel senso che l’affermarsi dell’I&CT rende necessario il knowledge management, e al contempo lo rende possibile–, in questo luogo che pare totalmente dominato dalle ‘tecnologie avanzate’ si apre un enorme spazio di conoscenza che può essere colmato solo con l’uso di strumenti conoscitivi antichissimi, legati a tecnologie antichissime: il racconto orale, la poesia, la narrazione scritta.

Ancora, potremmo aggiungere che un processo conoscitivo che appare a prima vista esclusivamente legato all’uso di tecniche codificate si fonda invece sull’interazione tra persone, sul consenso, sull’identità culturale, sulla disponibilità a socializzare.

Infatti, solo una organizzazione dove tutti i membri si sentano disposti a condividere con gli altri il loro personale sapere, la loro personalissima porzione di cose apprese, solo lì si potrà parlare veramente di knowledge management.

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