IL KNOWLEDGE, QUESTO SCONOSCIUTO
Le grandi mode della ricerca e degli interventi legati alle organizzazioni hanno spesso origini misteriose: si mischiano e si sovrappongono profonde riflessioni sociologiche, ragioni tecnologiche, più o meno meschine motivazioni di mercato. (La relativa novità del concetto è testimoniata anche dal fatto che cè qualcuno si tratta dei più che dice il knowledege, e qualcuno che dice la knowledge).
Utile in ogni caso, in queste situazioni, cercare di guardare dietro e intorno.
Primo avvicinamento: letimologia
La radice indoeuropea gn-/gen-/gne-/gno- parla di accorgersi, apprendere con lintelletto, sapere qualche cosa, e quindi: conoscere.
Da qui il sanscrito janati, conosce. In greco gignoskein, conoscere, gnome, giudizio, gnorizo, fare, conoscere, gnosis, conoscenza. In latino co-gno-sco (dove co- sta per con, e -sco sa per cominciare a); gnarus, che conosce; ignarus, che non conosce; notum conosciuto; nobilis, ancora noto, conosciuto; notio, notitia, conoscenza. Nellantico alto-tedesco dalla radice discendono solo verbi composti -cnaen, cnahen , ma è per questa via che arriviamo al tedesco moderno können, sapere, potere; e kennen, conoscere. Nellantico inglese abbiamo il verbo gecnawan, poi cnawan, da cui know, ma anche lausiliario can, sapere, potere.
A knowledge, act, state or fact of knowing, si arriva (nel 1200) aggiungendo a cnawan -leacan, che ci parla dellidea di processo, procedimento, messa in pratica. Cè quindi, come già nel latino cognosco (comincio ad accorgermi), un richiamo dellaspetto dinamico, costruttivo: la conoscenza, infatti, non esiste a priori, può essere solo colta nel suo farsi. Ma qui il richiamo è molto più forte: cè, pienamente sviluppato, il senso del divenire, dellaccumulazione. E cè anche a ben guardare lidea del sapere distintivo, destinato a restare riservato, ed anzi in qualche misura segreto. Non a caso nel 1200 knowledge stava anche per confessione: il knowledge è conoscenza che si ammette, si confessa di possedere. Non è mai conoscenza che si divulga. Divulgare: rendere noto a tutti; alla lettera: spandere tra la folla ci appare, non a caso, un gesto del tutto contrario al quello della confessione. (Lidea del riconoscimento e dellammissione, persa da knowledge dopo il 1200, si ritrova nel 1400 in acknowledge).
Un curioso aggancio sta, tornando al latino, nella gloria, parola dallorigine incerta, ma che qualcuno fa risalire alla indoeuropea gn-/gen. La gloria sarebbe dunque, in origine, lonorevole situazione di colui che può vantarsi di sapere. Cosicché noi potremmo dire ora: la gloria contraddistingue chi possiede il knowledge.
Per arrivare al know-how dobbiamo lasciare passare vari secoli. Dobbiamo arrivare alla prima metà del 1800, quando si afferma la tecnologia: arti e mestieri si evolvono, perché trovano ora sostegno e fondamento in applicazioni pratiche delle scienze. Dove prima le conoscenze si trasferivano da artigiano ad apprendista, di fronte alla maggiore complessità si manifesta lesigenza di conservare le informazioni relative al come fare. Stando allOxford Dictionary se ne parla per la prima volta sul New Yorker del 14 luglio 1838: "To do the duties of the office to the best of my know-how, and have a stouter man than myself to help me".
Dunque, potrebbe sembrare, knowledge e know-how ci parlano di conoscenza scientifica, codificata, proceduralizzata, descritta da rigorosi modelli, conservata in data bases. Ma non è così. Almeno, non è solo così. Dalla stessa radice indoeuropea deriva (attraverso gnarus, esperto) anche (g)narrare. Il modo migliore per perpetuare un sapere distintivo, per trasmettere il knowledge è forse il racconto, una pura narrazione.
Secondo avvicinamento: la narrazione
Il percorso è già implicito nella chiusura del paragrafo precedente. Si può dire, con apparente paradosso, che di fronte ad oggetti difficilmente conoscibili, rispetto ai quali si è per definizione ignari, il modo meno inefficace di descriverli è raccontarli.
Pensiamo proprio al racconto, innanzitutto orale, la modalità attraverso la quale da che mondo è mondo luomo ha saputo darsi ragione e comunicare agli altri sia i concetti più complessi, sia la modalità di funzionamento delle organizzazioni.
La modalità conoscitiva tipica della ricerca antropologica non è nientaltro che questo: ascoltare un racconto orale, inquadrarlo nel suo contesto, tentare si costruirne una sintesi comprensibile e fruibile per chi vive al di fuori della cupola culturale allinterno della quale quel sapere, quella visione del mondo si è generata.
Lantropologo non può somministrare questionari, non può utilizzare metodi formalizzati, perché quei metodi verificati in un contesto culturale, buoni per portare alla luce gli aspetti significativi di una realtà organizzativa, non è detto che siano adatti a portare alla luce gli aspetti significativi di unaltra realtà organizzativa. Anzi, probabilmente i metodi validi in un contesto sono fuorvianti in un altro. (Questa non è teoria, è esperienza di antropologo).
Come lantropologo ascolta la voce degli abitanti di un villaggio, il ricercatore o il consulente che si propone di conoscere una organizzazione deve porsi in atteggiamento di ascolto, sapendo che sta osservando un mondo attraverso gli occhi di persone che vivendo allinterno dellorganizzazione ne conoscono il funzionamento, e sanno raccontarne il funzionamento. Però, come sono interne a quel mondo le persone che raccontano, altrettanto è interno a quel mondo il loro linguaggio. Linguaggio che lantropologo potrà capire solo in parte. Sia che goda del contributo di un traduttore (una persona che si sforza di spiegare un mondo a chi non lo vive), sia che traduca da solo (sia che compia questo sforzo di lettura da solo) saprà portare fuori solo una immagine distorta, parziale. Nel suo racconto il contenuto originario sarà solo parzialmente rispettato.
Valga lesempio di come giunge a noi condizionato da innumerevoli passaggi un testo scritto in tempi lontani: I Ching, o la Bibbia. Daltronde, lillusione del filologo di ripristinare il testo originale (larchetipo) è vana. È un esercizio positivistico che lascia il tempo che trova: non tanto nel senso che il testo originale è ormai perso, e quindi le sue ricostruzioni non possono essere certe, ma in un senso più radicale: il testo originale non esiste: la produzione dei contenuti è un processo, il momento in cui una porzione di contenti si è consolidata in un testo (orale, codificato dalla rima) o scritto, è solo un momento nella storia della costruzione del sapere, del knowledge.
Ne risulta che ogni pretesa ricostruzione scientifica del sapere di una organizzazione non è che un parziale ed opinabile tentativo di leggere questo sapere. Ne risulta anche che probabilmente offrirà la ricostruzione, o limmagine, migliore nel senso di meno imprecisa, più efficace non chi si preoccupa di riusare metodi standard, già usati altrove, ma chi si abbandona empaticamente alloggetto, cercando di raccontarlo senza trascurare anzi dando il massimo valore alle proprie emozioni, ai propri dubbi, senza mai dimenticare che ciò che sta restituendo è una immagine parziale e soggettiva. Dunque non praxis, azione scientificamente orientata a conoscere, ma poiesis: fare, produzione (nel senso di io produco la mia parziale conoscenza) e al contempo poesia: capacità di raccontare commuovendo e suscitando emozioni.
Dovendo ognuno confrontarsi con la propria capacità di lasciarsi emozionare dalloggetto di indagine, dovendo ognuno scoprire e costruire, o meglio: lasciar emergere la propria capacità empatica, ci appaiono inutili i tentativi di trasformare in metodo letnografia organizzativa (vedi Claudia Piccardo e Angelo Benozzo, Etnografia organizzativa, Milano, Cortina, 1996).
E appaiono insoddisfacenti anche i ben più stimolanti e profondi tentativi di narrare le organizzazioni (vedi Barbara Czarniawska, Narrating the Organization, Dramas of Institutional Identity, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1997). Perché lacuta autrice osa troppo poco: si confronta con il critico letterario, forse anche con il filologo, e cerca nel lavoro del critico e del filologo la radice della narrazione. Come dire: solo il critico ed il filologo esperti legittimati sono in grado di leggere il testo. Nel nostro caso: solo il ricercatore che sa usare gli strumenti del critico letterario e del filologo può guardare con la speranza di comprenderli ai fatti organizzativi. È vero, ma è troppo poco. Il vero modello al quale il ricercatore dovrebbe avvicinarsi non è il critico (conoscitore scientifico), ma il puro narratore (romanziere o poeta, conoscitore empatico).
Czarniawska ricorda linevitabilità della mediazione dellosservatore: loggetto può essere conosciuto solo attraverso la mediazione dellosservatore ( è un fondamentale punto epistemologico sottolineato anche in altri contesti della ricerca scientifica, vedi per esempio la nota esplicitazione di questo ragionamento che sta in Humberto Maturana & Francisco Varela, Autopoiesis and Cognition. The Realization of the Living Dordrecht, Holland: D. Reidel Publishing Company, 1980; tad. it Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente Venezia, Marsilio, 1985). Ma considera la mediazione dellosservatore necessaria e positiva. Accetta come arricchente la mediazione del critico, dellesperto, dellinterprete legittimato. Di chi gode di un certo status accademico professionale.
Il poeta o il romanziere sono invece, per definizione, dilettanti della conoscenza. Non negano mai di aggiungere o togliere qualcosa alloggetto. (Questo è vero anche per la narrativa che si sforzava di essere naturalista e positivista, alla Zola). Non negano mai di lasciarsi trascinare dalle emozioni. Da tutto ciò nasce una descrizione delloggetto una narrazione del knowledge che caratterizza una organizzazione più ricca ed efficace delle descrizioni agganciate a qualsiasi canone scientifico e (nelle pretese) oggettivo.
Terzo avvicinamento: i nuovi tempi e metodi
Scendendo dai cieli della produzione estetica, torniamo terra terra. Anzi, potremmo dire, sottoterra, nei sotterranei dellorganizzazione, in quei luoghi trascurati per lo più dalle ricerche, in quei luoghi dove si fa la produzione, dove girano le macchine, nei magazzini, negli anfratti meno visitati. Anche lì vivono persone.. Il conoscitore scientifico raramente si sporca le mani per andare a parlare con queste persone, raramente visita questi luoghi. Lantropologo può e deve farlo. Perché lì vive cresce e si manifesta lorganizzazione latente, lorganizzazione di fatto.
Non ci pare peregrino un parallelo: il più serio tentativo (ancorché ormai universalmente considerato superato) di conoscere scientificamente lorganizzazione si fonda proprio sulla conoscenza di cosa accade nel ventre dellorganizzazione. Dellorganizzazione scientifica non contano tanto i modelli di elaborazione, le statistiche, le razionalizzazioni delle informazioni. Conta poco la mitologia del cattivo analista che col camice bianco ed il cronometro in mano controllava i comportamenti delle persone. Conta la ricerca di base su cui si fondava il metodo.
Lanalista osservava il lavoratore, ogni lavoratore, anche il più umile, cercava di comprendere la sua vera presenza. Lapproccio alla conoscenza si fondava sulleliminazione di ogni possibile mediazione. Osservare loperaio al lavoro, registrare e dare valore ad ogni suo gesto. Su questo si è fondato per decenni il knowledge, la conoscenza delle organizzazioni.
Quando sono cambiate le cose? Quando una parte significativa del lavoro ha iniziato ad essere svolta da macchine. Macchine non più intese come protesi delle braccia umane. Macchine che sostituivano luomo nel governare e coordinare il lavoro. Macchine, per di più dotate di una loro sapere codificato (il software) e di una memoria (la registrazione di ogni operazione o azione svolta).
A ben guardare, il knowledge management è questo: riscoprire, rileggere e possibilmente riorganizzare ed utilizzare in modo più efficace il sapere conservato nella memoria delle macchine. Operazione a ben vedere analoga a quella svolta dallanalista che si sforzava di riscoprire, rileggere e possibilmente riorganizzare ed utilizzare in modo più efficace il sapere operaio.
Se questo è vero, si dovrà porre attenzione ad un aspetto: luomo non è scomparso dalla scena organizzativa e produttiva; buona parte del sapere e della conoscenza restano nascoste nelle menti delle persone, in cassetti inviolati, nel disco fisso del mio personal computer.
Non basta quindi recuperare ed organizzare il sapere contenuto nelle basi dati.
A lato di questa ricerca, è necessaria una ricerca che si rivolga a socializzare la conoscenza latente delle persone. (Qui lapproccio antropologico appare non solo necessario, ma indispensabile).
In conclusione, potremmo dire che lì nel luogo in cui si afferma come mercato emergente il knowledge management lì dove sembra aprirsi un discorso tutto interno allInformation & Communication Technology nel senso che laffermarsi dellI&CT rende necessario il knowledge management, e al contempo lo rende possibile, in questo luogo che pare totalmente dominato dalle tecnologie avanzate si apre un enorme spazio di conoscenza che può essere colmato solo con luso di strumenti conoscitivi antichissimi, legati a tecnologie antichissime: il racconto orale, la poesia, la narrazione scritta.
Ancora, potremmo aggiungere che un processo conoscitivo che appare a prima vista esclusivamente legato alluso di tecniche codificate si fonda invece sullinterazione tra persone, sul consenso, sullidentità culturale, sulla disponibilità a socializzare.
Infatti, solo una organizzazione dove tutti i membri si sentano disposti a condividere con gli altri il loro personale sapere, la loro personalissima porzione di cose apprese, solo lì si potrà parlare veramente di knowledge management.