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Pubblicato in data: 10/08/2009

 

BENEDUCE, FELTRINELLI E L'OCCASIONE MANCATA DELL'ECONOMIA ITALIANA

di Francesco Varanini

Alberto Beneduce: una manager ante litteram, un riformatore

Alberto Beneduce nasce a Caserta nel 1877 da una famiglia di modeste condizioni. Studia discipline matematiche a Napoli, si laurea nel 1900. Nel 1910 ha la cattedra di statistica e demografia  all'Università di Genova. L’anno seguente Francesco  Saverio Nitti, allora Primo Ministro, lo chiama a collaborare al progetto di un ente pubblico destinato a gestire monopolisticamente le assicurazioni sulla vita. L'anno successivo nasce così l'Istituto Nazionale delle assicurazioni, INA. Benedice è nel consiglio di amministrazione, fu probabilmente determinante.
La prima guerra mondiale si affaccia all’orizzonte. E’ una occasione imperdibile per la nascente grande industria italiana; ma c’è bisogno di sostegno allo sviluppo. Su incarico di Stringher, Governatore della  Banca d'Italia, Beneduce crea e guida il Consorzio per sovvenzioni su valori industriali. Nel 1916 lascia l’incarico per assumere  il ruolo di amministratore delegato dell'INA.
Si occupa di programmi di ricostruzione post-bellica e del reinserimento dei reduci nel mercato del lavoro. Concede una polizza di assicurazione gratuita ai combattenti. Fonda l'Opera nazionale combattenti, ONC.
E’ anche membro del Consiglio superiore di statistica e di quello per l'Istruzione  Commerciale, membro del Consiglio superiore del credito, del Consiglio superiore  della previdenza e assicurazioni sociali, del comitato permanente della  previdenza e assicurazioni sociali, e membro del Consiglio di amministrazione  della Cassa nazionale per gli infortuni sul lavoro.
Nel novembre del 1919 Beneduce si dimette da tutte le cariche e lascia l’Università. Si presenta alle elezioni politiche nel collegio  di Caserta, con il gruppo social-rifomista guidato da Ivanoe Bonomi. Deputato dal 1919 al 1923, è Presidente della Commissione Finanza  e Tesoro della Camera.
Favorevole alla collaborazione con i cattolici popolari don  Sturzo, nel 1921, con Bonomi Presidente del Consiglio è Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, dicastero di recente istituzione.
Mentre i nazionalisti lo giudicarono il nemico forse più pericoloso per il fascismo, Mussolini in persona ne loda pubblicamente le capacità sul Popolo d'Italia.
Insoddisfatto,  già nell'ottobre del 1921 si dimette. Respinte da Bonomi le dimissioni, resta in carico ancora per qualche mese.
Al momento del colpo di stato di Mussolini, Beneduce abbandona la vita politica. E’ schierato tra gli antifascisti, a fianco di Bonomi, Turati ad Amendola, prima e dopo il delitto Matteotti. Non si presenta alle elezioni del 1924.
Nel 1925 è tra coloro che sostengono utile una opposizione al fascismo più parlamentare che di piazza: è quindi favorevole al ritorno in aula degli Aventiniani. Nel corso dell’anno, di fronte al
rafforzamento del regime e alla frantumazione dell'opposizione antifascista, si allontana dalla scena politica.
L’anno dopo lo ritroviamo Presidente della Bastogi. Il nome è ancora quello della Società per le strade ferrate meridionali, ma ora si tratta di una finanziaria che gioca un ruolo centrale nel settore elettrico, in grandissima crescita, e volano fondamentale per lo sviluppo industriale del paese.
Nell'autunno del 1929 il crollo di Wall Street: la crisi globale del sistema finanziario-industriale è anni latente, ma quando scoppia trova quasi tutti impreparati.
L’Italia ha vissuto, con la guerra, una stagione di grande sviluppo. Ma la  nostra economia resta ancora marginale, e relativamente isolata. Subisce perciò un impatto meno duro di quanto accade in altri paesi europei. Eppure la crisi c'è, e vi si deve far fronte. Serve cambiare le regole.
Vigeva allora sul nostro mercato finanziario il modello delle Banche miste. Caso esemplare la Banca Commerciale. In sostanza accadeva che banche e industrie si controllassero  a vicenda: le prime ingerivano nella gestione industriale, mentre i gruppi industriali tentavano di acquisire i pacchetti azionari di controllo delle  banche più importanti per utilizzare i depositi dei risparmiatori come fonte di finanziamento.
Questo sistema -che aveva in Toepliz, presidente  della Banca Commerciale, il più acceso sostenitore- si era dimostrato efficace: stava alla base del processo di industrializzazione del paese. Ma già fin nel 1921 il crack della Banca Italiana di Sconto aveva reso evidente a molti, tra i quali Beneduce, che la banca mista era troppo esposta al rischio. Beneduce, ed altri, sostenevano fosse necessario, andando contro l'ostinata convinzione di Toepliz, separare il credito ordinario e credito industriale: una sola banca non poteva fare al contempo l'interesse del piccolo risparmiatore e della grande impresa.
Dal 1930 al 1933 la crisi andò progressivamente peggiorando, dimostrando una volta per tutte che il sistema della banca mista era giunto all'epilogo. Inoltre, nel tentativo di sostenere le imprese in difficoltà, le banche invece di smobilizzare i propri capitali, intervenivano ancora più pesantemente con l'acquisto di nuove partecipazioni azionarie, innescando un circolo vizioso pericolosissimo.
Immissioni di liquidità della Banca d'Italia -che solo dal 1926 era l'unica titolare del diritto di emissione e di controllo dello stock monetario, nonché  di controllo sul resto del sistema creditizio- evitano il crollo dell'intero  sistema bancario, ma si rivelano misure dal fiato corto: non possono risolvere una crisi che è strutturale.
Beneduce riceve da Mussolini l'incarico di gestire l'intervento statale a sostegno del sistema bancario – nel suo complesso a rischio di crack. Beneduce ha mano libera. Le sue scelte sono sostanzialmente in linea -negli aspetti essenziali- con le scelte operate da altri tecnici riformatori, in altri paesi.
Ricordiamo le parole di Keynes: non importa il colore politico, importa l'emergere di un nuovo ceto, di nuove figure: i manager, capaci di governo non solo dell'economia finanziaria, ma anche dell'economia aziendale. Beneduce è il primo e forse il più illustre manager italiano.
Beneduce, così come i manager chiamati a dettare nuove regole in altri paesi, sostiene che il settore pubblico, una volta messi a disposizione i capitali necessari al salvataggio, debba acquisire i titoli e le partecipazione industriali delle banche.
Di qui nasce l'Istituto per la Ricostruzione Industriale, IRI. Il cui modello, i cui meccanismi di funzionamento, destano l'ammirazione dei commentatori, a livello planetario.
L'IRI è gestita da Beneduce con criteri privatistici, con la cautela necessaria a mantenere l'intervento statale nei limiti del controllo finanziario, senza sconfinare nell'ambito della gestione e della programmazione. L'IRI di Beneduce non detta la linea ai manager, ma anzi cerca manager che non si lascino dettare la linea.
Presieduto dallo stesso Beneduce, costituito per Regio Decreto il 23 gennaio 1933, l'IRI, finanziato dalla Banca d'Italia e dal Tesoro e si assume l'immane compito di smobilizzare le partecipazioni delle banche miste nelle aziende industriali. Questo porta l'IRI a possedere azioni  in un numero assai notevole di aziende nei più disparati settori: dalla telefonia alle armi, dalla chimica all'agricoltura, dal tessile alla meccanica.
Caso particolare quello del settore bancario: finiscono così in mano pubblica la quasi totalità delle azioni che costituiscono i capitali sociali di Banca Commerciale, Banca di Roma e Credito Italiano, che si vengono così a trovare sotto controllo pubblico.
Ciò che però allontanò davvero il timore di nuove crisi fu la normalizzazione dell'attività creditizia che seguì la legge bancaria del 1936, l'ultimo capolavoro di Beneduce, di cui la costituzione dell'IRI era stata la premessa indispensabile. Datata 12 marzo 1936 (ed emendata nel 1937 e nel 1938), la riforma bancaria distingue il credito a breve da quello a lungo termine. Solo banche dotate di specifica vocazione posso rispondere divergenti alle aspettative dei risparmiatori e delle imprese.
Si definisce così il ruolo degli istituti di credito ordinario: le tre banche pubbliche (chiuse all'azionariato estero), le casse rurali e di risparmio, le banche popolari, le ex banche di emissione (che avevano fino a pochi anni prima il diritto di stampare lire): tre queste San Paolo, Monte dei Paschi, i Banchi di Napoli e Sicilia.
Il credito industriale invece, diviene competenza esclusiva di IMI, CREDIOP  e ICIPU. La legge disciplina la raccolta e non gli impieghi. Niente e nessuno impedisce a questi istituti investimenti ad altissimo rischio. Però un Comitato interministeriale, e la Banca d'Italia - divenuta completamente pubblica, divenuta la banche delle banche-, hanno mandato per esercitare il controllo sul rapporto raccolta/impieghi.
La finanza, insomma, è messa nelle condizioni di fare il suo lavoro e di non invadere campi altrui.
Storia esemplare, troppo poco studiata, storia di cui è sottovalutata l'importanza. Avremmo bisogno  di un Beneduce.

Carlo Feltrinelli: imprenditore e finanziere
Per raccontare questa storia dobbiamo risalire all’inizio del 1800. A Gargnano, sulla sponda occidentale del lago di Garda nasce una piccola azienda, “Legnami Feltrinelli”. I Fratelli Feltrinelli hanno colto una opportunità di business: le limonaie da Salò a Limone sono serre, chiuse d’inverno da pareti di legno, serve materia prima, castagno e rovere.
Nell’Ottocento il cuore delle attività resta legato al legname, ma i fratelli sono aperti a nuove iniziative: edilizia, arredamento navale, finanza, ferrovie. E poi alla fine del secolo il cotonificio. E poi centrali idroelettriche. Il campo d’azione spazia dalla Stiria e dalla Carinzia a Vienna, a Salonicco, Turchia, Roma, Sicilia.
Il centro dell’attività non può non spostarsi a Milano. E così in via Andegari –a pochi metri da via Manzoni, allo sbocco di Brera- il 12 marzo 1896 viene fondata la società in nome collettivo Fratelli Feltrinelli.
Una forte presenza nella finanza appare indispensabile per l’equilibrio del gruppo. Nel 1905 viene fondata a Milano la società in nome collettivo Banca Feltrinelli, tra i firmatari, assieme ad altri parenti, Giacomo, il leader della famiglia, e l’astro nascente Carlo, classe 1881, nipote di Giacomo, figlio di Giovanni e della contessa austriaca Maria von Pretz.
Il carattere di Giacomo, e un po’ di tutta la famiglia, può essere riassunto in questo aneddoto. Giacomo viaggia in treno, fuma tranquillo la pipa , è redarguito da un distinto signore che perde la pazienza: “Io sono Gabriele D’Annunzio e la prego di smetterla con quella dannata pipa”. Giacomo: “Gabriele D’Annunzio? Mai sentito nominare”
Quando Giacomo muore, il 26 febbraio 1913, il Corriere della Sera apre la pagina della cronaca locale ricordandolo come l’uomo “che godeva della fama di essere il più ricco di Milano, mentre è certo ch’egli iniziò la sua carriera senza alcun bene di fortuna, provvisto solo di carattere tenace e ardito e di una pronta, lucida intelligenza”.
Intanto, la banca Feltrinelli è determinante –insieme alla Banca Commerciale– nel finanziare l’Edison italiana, che deve affrancarsi dalle pesanti condizioni poste dalla casa madre americana, e che è chiamata a svolgere un ruolo strategico fornendo l’energia necessaria per lo sviluppo economico.
La prima guerra mondiale porta problemi. I Feltrinelli hanno beni e  attività in Stiria, Carinzia e altre zone dell’Impero Austro Ungarico, sono falcidiati dalla prima guerra mondiale. La famiglia esce dalle difficoltà liquidando la vecchia società  e aprendone una nuova.
Carlo Feltrinelli prende il governo degli affari di famiglia.  Nel dicembre 1919 la società in nome collettivo Banca Feltrinelli è sciolta. Viene fondata la Società Anonima Banca Unione, sede in via Bigli. Che acquista una posizione di rilievo nel Credito Italiano, accanto a Giovanni Agnelli e a Alberto Pirelli.
Intanto crescono anche le attività immobiliari ed edilizie a Milano: la società ‘Quartieri del Duomo’ ha proprietà in Corso Vittorio Emanuele, tra piazza del Duomo, via S. Raffaele e via Foscolo.
Nel  1924 Carlo è scelto da Mussolini come membro –per conto del Governo italiano–  del Consiglio di amministrazione della Reichsbank. Prima di accettare Carlo attende un telegramma di sollecito di Mussolini. Ma sembra certo che Mussolini ha indicato Feltrinelli solo perché questa era l’indicazione dello stesso Presidente della Banca tedesca.
Ancora azioni nel campo della finanza, promosse da Carlo: fusione per incorporazione della Banca Nazionale del Credito nel Credito Italiano, maggiore concentrazione della storia bancaria del paese.
Ma la crisi del ’29 mette fine a un ciclo. La drammatica congiuntura internazionale aggrava la situazione del sistema bancario italiano, già in difficoltà. Si rende necessario l’intervento dello Stato, che si conclude con un completo riassetto del sistema, che porta nel ‘31 alla costituzione da parte del governo fascista dell’IMI, Istituto Mobiliare Italiano, e più tardi porta le principali banche – le Banche di interesse nazionale, tra cui il Credito Italiano– sotto il controllo dell’IRI, Istituto Ricostruzione Industriale. Regista dell’operazione è Alberto Beneduce, eminenza grigia della finanza italiana, contraddittoria lucida mente, prima socialista, poi sostanziale compagno di strada del regime fascista.
Nel 1933 resta così a Carlo Feltrinelli il 2,4% del Credito Italiano. È comunque di gran lunga il primo azionista privato. Ma gli spazi nella finanza, per lui, si sono ridotti drasticamente. Non per questo Carlo –liberista, banchiere e industriale, legato ad ambienti internazionali, connivente per certi versi con il regime ma non sempre ligio alle disposizioni politiche– rinuncia a perseguire i propri interessi con spregiudicatezza. Nel ‘32 la società anonima Fratelli Feltrinelli aveva acquistato l’esclusiva per l’Italia del commercio di legnami dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
La situazione si inasprisce. Nel ‘34 Mussolini, in un discorso alla Camera, inveisce contro “certi signori miserabili tanto più quando siano signori” che esportano capitali all’estero. Tra gli altri allude, sembra certo, a Feltrinelli.
È l’uomo più ricco di Milano, forse d’Italia, quando cessa di vivere il 6 novembre 1935, a 54 anni. Era Presidente della Federazione Nazionale Fascista degli Industriali del Legno, della Edison, del Credito Italiano, della Fratelli Feltrinelli, della Banca Unione. Era nel consiglio di amministrazione, tra le altre, della Snia Viscosa, della Pirelli, della Falck, delle Ferrovie Nord.
Quel giorno Carlo Feltrinelli –sempre muovendosi in quel centro di Milano, tra via Andegari e piazza Cordusio, quel centro che ora appare più stretto, via via che la città si allarga oltre la cerchia dei Navigli– esce dalla sua casa per incontrarsi, nella sede della Bastogi, con Alberto Beneduce. E’ un colloquio drammatico. Beneduce chiede a Feltrinelli, a nome del governo, la rinuncia a tutte le cariche.
Feltrinelli, a quanto è dato di sapere, non cede. Ma appena tornato a casa è colto da un malore.
I giornali –quasi certamente pilotati dal regime– prima danno il minimo risalto alla notizia, e quindi
ricamano sulla morte improvvisa: si allude al suicidio. Si vuole screditare la sua memoria.

What if

Le 'ipotesi controfattuali' e le u-cronie non sono solo materia per scrittori di science fiction, sono seri strumenti per 'studiare la storia' e per 'leggere il presente'.
6 novembre 1935. In quella data un evento in apparenza marginale ha segnato, secondo me, le sorti dell'economia italiana. Nel geometrico, tragico incrocio tra due grandi personaggi, vince Beneduce, perde Feltrinelli. E’ molto più che lo scontro tra due forti personalità: è lo scontro tra due modelli.
Guardiamo questo momento con l’attenzione che merita. E’ un vero momento topico –punto di svolta, discontinuità, biforcazione tra due ‘storie possibili. Due immagini dell’Italia contemporanea –economico-finanziaria, imprenditoriale, ma anche di conseguenza, politica e culturale– due immagini si contrappongono nelle opposte visioni di Beneduce e Feltrinelli.
Beneduce parte da Keynes per progettare un modello ‘nazionale’, tendenzialmente ripiegato su se stesso, dove la politica e l’impresa, il pubblico e il privato, sono frammisti e legati ad uno stesso destino.
Feltrinelli non inventa niente: come ogni vero imprenditore considera bussola etica il proprio interesse, tratta e negozia e scende a patti, ma non collude. La sua rete di relazioni è la business community internazionale: così si guadagna credito e spazi d’azione.
Il 'modello Beneduce', credo, merita oggi una attenzione che non gli viene riconosciuta. Ma ha avuto almeno la fortuna di vivere – fino all'agonia delle Partecipazioni Statali, in anni non lontani da noi. Anzi, aldilà dei cambiamenti apparenti e delle velature di immagine, è un modello ancora vivo: se non c'è più l'IRI, Finmeccanica è viva e vegeta. E anche l'ENI è figlia di quella storia.
Invece, per assenza di eredi o sodali all’altezza il ‘modello Feltrinelli’ non ha trovato seguito. Non è solo una tragica vicenda familiare - il figlio Giangiacomo, allora, ha nove anni. Gli Agnelli, i Pirelli, i Falck erano lungi dal godere della reputazione internazionale e dell'autonomia e dalla visione strategica di Carlo Feltrinelli. Del fine e ed efficace punto di incontro tra impresa e finanza di cui Carlo Feltrinelli era testimone il nostro paese sente tuttora la carenza.
Anche nel campo dell'impresa privata Beneduce avrà un erede che porta il suo stile – riservatezza, discrezione, visione strategica, protezione di equilibri di potere: è Enrico Cuccia, il presidente di Mediobanca, che ha sede in via Filodrammatici, ancora a pochi passi da via Manzoni. Cuccia è allievo di Beneduce e ne sposa la figlia, il cui nome porta traccia della antica militanza: Idea Socialista. Il 'modello Mediobanca', nel dopoguerra, è così una sorta di espansione nel mondo dell'impresa privata del 'modello Beneduce', perché quel mondo era vuoto di modelli.
Posso supporre che la compresenza del 'modello Feltrinelli' avrebbe garantito equilibrio al nostro sistema economico, avrebbe favorito la crescita di un'impresa non connivente con la politica.
Così, credo, anche il management italiano avrebbe avuto un proprio modello, un fondamento omogeneo, un respiro ampio, e non sarebbe  cresciuto, come è invece è accaduto, come prodotto di singoli sottomondi chiusi in se stessi: le Partecipazioni Statali, l'Olivetti, la Fiat, la Pirelli, e poco altro.
Perciò ora, mentre scrivo sono passati settantaquattro anni, ricordare cosa accadde quel giorno di è particolarmente interessante per chi è interessato a comprendere la crisi che attanaglia la nostra economia, la nostra impresa. Abusi di posizione dominante, veri e presunti. Crac della borsa. Sostegno dato -per salvaguardare i risparmiatori- a finanzieri immeritevoli, penalizzando forse i meritevoli. Interrogativi a proposito del futuro. Ragionamenti sulla 'diversità' italiana, che è un limite, ma che allo stesso tempo ci preserva dall'impatto dei modelli globali. Cultura d'impresa e modelli di governo delle organizzazioni – che non sappiamo dove andare a cercare.
Formulo una ipotesi: se quel giorno una persona non fosse morta (non morte violenta, almeno in apparenza, morte tranquilla in poltrona, nella lussuosa casa, nel centro di Milano), se quel giorno una persona non fosse morta l'assetto economico e politico del nostro paese sarebbe diverso.

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