BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 17/01/2000

La skill del 'fare carriera'

di Francesco Varanini

Chi è che fa carriera? Non c’è lavoratore che una volta o l’altra non sia posto questa domanda –ma come ha fatto a fare carriera quello lì?– ragionando sui motivi della promozione di un collega, o riflettendo sulle lacune dei dirigenti.

C’è di mezzo ovviamente, da parte di chi critica ‘dal basso’,  l’invidia ed il rifiuto di ammettere i propri limiti. Ma resta vero che non sempre fa carriera il più meritevole o il più bravo. Non sempre fa carriera né la persona più dotata di conoscenze professionali, né la persona più capace di innovare, indirizzare, creare ricchezza, gestire gli uomini.

Si può sostenere che la capacità di fare carriera è una abilità, una attitudine individuale, una skill. Un qualcosa che rende una persona diversa dall’altra. A parità di altre capacità, c’è chi possiede la capacità di fare carriera, e chi no.

E si può sostenere anche che si tratta di una capacità ‘laterale’, ‘residuale’, e cioè una capacità che cresce indistintamente in contesti culturali diversi, e che accomuna tra loro persone diversissime per atteggiamenti e competenze.

È un capacità che, probabilmente, può essere coltivata. Ma sopratutto sembra essere una capacità che si sviluppa come reazione del soggetto all’assenza di altre capacità distintive. Per dirla altrimenti: una capacità che non di rado possiedono –riescono a sviluppare– proprio coloro che meno dispongono di altre capacità. Una sorta di compensazione, di auto–risarcimento.

Come a dire: ‘non riconoscendomi doti particolari, doti che mi permetterebbero di distinguermi dagli altri, dovrò far ricorso allo sfruttamento delle circostanze, dovrò capitalizzare ogni piccola opportunità di mettermi in mostra, dovrò sgomitare’. Mentre all’opposto accade che ci ha la consapevolezza di avere dei talenti, delle capacità, dei meriti, tenda ad aspettarsi che il proprio valore venga riconosciuto dagli altri, e perciò ‘si dà meno da fare’.

Il lettore dirà: l’attenzione smodata alla propria carriera si manifesta in persone dotate, assolutamente in grado di affermarsi a partire dai propri talenti. È vero, ma questa verità non sconferma la tesi che qui sosteniamo. Il fatto è che con i propri talenti è difficile convivere. Impostare su questi la propria affermazione è oneroso. I talenti esigono lavoro, vanno coltivati, fatti fruttare. E poi vanno imposti in un contesto presumibilmente dominato da persone prive di talenti, che appunto costruiscono la propria affermazione sull’autoconvinzione che i talenti non sono necessari per affermarsi. Chi è dotato di talenti troverà così comodo o rintanarsi nel suo cantuccio, rinunciando ad entrare in competizione, alimentando il proprio equilibrio attraverso la lamentela: ‘sono qui nell’angolo perché nessuno capisce il mio valore’. Oppure troverà comodo accettare le regole del facile gioco dell’atteggiamento arrogante: la moneta cattiva scaccia quella buona, i talenti resteranno nel cassetto, e la gara si giocherà attorno alla capacità di sgomitare e di mettere in cattiva luce l’altro.

È così che spesso chi è meno dotato prevale – e se è il dotato che prevale, prevale non in base alle sue doti, ma solo perché ha usato gli stessi strumenti di affermazione che avrebbe usato il meno dotato. Entrambi fanno ricorso ad un atteggiamento caratteriale che gli antichi greci chiamavano hybris. Potremmo tradurre ‘arroganza del potere’, una forma particolare di cinismo implicitamente violento e oltraggioso che spinge a non rispettare gli altri e a non preoccuparsi del contesto, badando solo a se stessi.

Consolazione, e motivo di riflessione, potremo trovare nel giudizio negativo che la cultura dell’antica Grecia riserva all’hybris. L’orgogliosa tracotanza che porta l’uomo a presumere della propria potenza e fortuna, è immancabilmente punita dagli dèi. All’hybris corrisponde sempre una nemesi. Nemesi è la personificazione della giustizia politico–sociale, fatale punitrice dell’egocentrismo e dell’arroganza del potere. La nemesi non si fonda su ragionamenti morali –nessuno può imporci di essere ‘buoni’ e ‘rispettosi degli altri’–. Si fonda, invece, su ragioni che oggi potremmo definire ‘ecologiche’. Se aggredisco l’ambiente, l’ambiente si ribella, e si innesca la spirale perversa del disordine, dell’inquinamento, fino al punto che l’ambiente diventa invivibile. Allo stesso modo: se aggredisco l’ambiente sociale il mio personale dominio, l’ambiente sociale si ribella; sarò capo, ma non godrò mai di un vero consenso, non sarò mai veramente riconosciuto come capo.

Chi si chiede ‘come ha fatto a diventare capo quello lì’ potrà trovare dunque conforto in questo pensiero: gli dèi dell’organizzazione vegliano su di noi. Nessuna organizzazione sopporta passivamente un tasso eccessivo di arroganza e di ingiustizia.

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