BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 22/10/2001

GLI UNTORI E L'ANTRACE COME PESTE

di Francesco Varanini

Non di rado scopriamo che un romanzo ha già detto più di quanto leggiamo sui giornali. L'antrace come peste -oscura minaccia-, il terrore, l'incredulità, la tardiva organizzazione, ecc. Qualcosa di quanto accade oggi negli Stati Uniti era già successo altrove. Per esempio a Milano nel 1600.
Rileggere oggi Manzoni è istruttivo.
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Alessandro Manzoni
Nasce il 7 marzo 1795 , figlio di Giulia Beccaria e del nobiluomo lecchese Pietro Manzoni (o forse no: la madre, costretta al matrimonio contro la sua volontà, fu legata ad altri uomini). La madre segue a Parigi il nuovo compagno. Alessandro passa da un collegio all'altro. Cresce in un ambiente anticlericale; e dell'educazione religiosa conserva solo i sensi di colpa. La conversione è tardiva: matura sull'onda del matrimonio con Enrichetta Blondel, nata calvinista, e in conseguenza di stimoli legati all'ambiente parigino.
La fede di Manzoni resterà indelebilmente segnata dall'impronta del giansenismo, quella corrente religiosa che percorse il cattolicesimo francese dal 1600 alla metà del 1800: l'uomo è invincibilmente portato al male; solo la grazia può salvarlo. La grazia, concessa solo ad alcuni da un impescrutabile disegno divino.
Di questo parlano innanzitutto I promessi sposi, il primo vero romanzo della letteratura italiana: il drammatico e tormentato corso della storia sembra non lasciare spazio alla speranza. Macchinazioni tenebrose, fame, guerra, epidemie. Ma il pessimismo non è mai disperato, perché dietro le tenebre splende pur sempre la luce della fede in Dio. L'autore non è indifferente: mostra indignazione, orrore, compassione. E la lotta tipicamente romantica tra Bene e Male, Giustizia e Sopruso, Vittime e Oppressori vede entrare in gioco alla fine la divina Provvidenza.
Un libro religioso, ma non solo: come amava sostenere lo stesso Manzoni, un bal pour les pauvres, un libro democratico, che qualcuno doveva pur scrivere nell'Italia risorgimentale, e che Gramsci considererà modello di letteratura nazional-popolare.
Manzoni è un maturo poeta quando nel 1821 mette mano al romanzo. Che avrà una lenta e complessa gestazione. Solo vent'anni dopo verrà data alle stampe l'edizione definitiva, riscritta in una lingua calcata sulla parlata toscana.
La sua vita continuerà ad essere tormentata. Morirà nel 1873. Un anno dopo la morte sarà ricordato con la Messa di Requiem di Verdi.
Il marchio di gloria nazionale, e anche la lettura scolastica obbligatoria, imbalsamano Manzoni. Ci rendono più difficile cogliere la sua lucidità di giudizio ed il suo acume sociologico, che sono grandi.

Con il termine "peste", nelle culture di origine greco-latina, si designarono a lungo genericamente tutte le malattie epidemiche a carattere letale. Non a caso il latino pestis discende dalla stessa radice di peius, 'peggio', proprio ad indicare 'la peggior malattia': è la malattia per antonomasia, che colpisce misteriosamente e senza rimedio. Che segna un'epoca. Azzerando lo sviluppo economico e sociale, e lasciando la popolazione decimata.
La storia ricorda la grande peste ateniese del 429 a. C. (che fu però in realtà un'epidemia di tifo). Mentre fu vera 'peste bubbonica' quella che colpì Roma nel 66 d. C. e che fu descritta da Tacito.
Enormi le conseguenze dell'epidemia che si manifestò in tutto il bacino del Mediterraneo nel 542. Ugualmente gravi, e più note, le conseguenze della peste che si abbatté su mondo occidentale tra il 1347 e il 1350: la 'morte nera', che trovò in Boccaccio (nel Decameron) un eccezionale testimone.
Profonde furono allora le conseguenze sulla sensibilità collettiva. I temi del "trionfo della morte", della "danza macabra", del "dialogo tra morto e defunto" diventarono centrali nella produzione letteraria e artistica. Ma sopratutto motivarono comportamenti di massa di tipo psicopatologico. Ignorando le origini dell'epidemia, se ne cercavano origini mitiche e superstiziose: le stelle, i demonio. Non solo: l'accusa di avere originato l'epidemia fu occasione di scoppi di violenza e di eccidi: gli ebrei, accusati di aver diffuso il male, furono sterminati.
Nel 1300 Milano -per via dell'isolamento politico e commerciale che viveva sotto i Visconti- fu risparmiata. Non così nel 1576 (la cosiddetta 'peste di San Carlo') e tra il 1629 e il 1630. Questa ultima volta -come ci racconta Manzoni- l'epidemia colpisce con particolare violenza: la popolazione della città ne è ridotta a un quarto.
Della peste -malattia infettiva acuta, a diffusione epidemica- solo alla fine del secolo scorso è stata scoperta la genesi: è provocata da un batterio parassita della pulce dei ratti. Da allora la peste (senza peraltro scomparire del tutto) ha perso la sua natura di minaccia incontrollabile.
E però non è scomparsa -per la massa e per il singolo uomo- l'idea della minaccia incombente. Un pericolo di fronte alla quale sembra impossibile difendersi. E che provoca tipiche reazioni: il rifiuto della realtà, che spinge a rifiutare le più semplici precauzioni; la ricerca del colpevole, non importa se immaginario; la delega della ricerca della soluzione a un ente pubblico, il Tribunale della Sanità nel 600 a Milano, il Ministero della Sanità oggi.
In questo senso sono 'peste' l'Aids e il cancro. Ed in questo senso l'approntamento e la gestione di efficaci sistemi di prevenzione e di controllo di fronte alla 'peste' ci appare come massima manifestazione di capacità organizzative.

Il flagello
La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata per davvero, com'è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d'Italia. Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s'intende, anzi in Milano quasi esclusivamente. (cap. XXXI, p.777)

Avvisaglie
Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall'esercito, s'era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo, e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de' viventi. C'erano soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que' pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatré anni avanti, aveva desolata pure una buona parte d'Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, peste di San Carlo. (cap. XXXI, p. 780)

Diagnosi precoci
Il protofisico Lodovico Settala, che non solo aveva veduto quella peste, ma n'era stato uno de' più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovanissimo, de' più reputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava all'erta e sull'informazioni, riferì , il 20 d'ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l'ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco),
era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione, come si ha dal Ragguaglio del Tadino. (cap. XXXI, p. 780)

Rassicurazioni
Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt'e due, "o per ignoranza o per altro, si lasciarono persuadere da un vecchio e ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste" (Tadino, ivi; nota dell'autore); ma in alcuni luoghi, effetto consueto dell'emanzioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de' disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare ne mettesse il cuore in pace. (cap. XXXI, pp. 780-781)
Dunque le 'autorità preposte' fin dall'inizio hanno coscienza del rischio. Eppure -per incuria; per il peso della responsabilità, che le stesse autorità rifiutano fin dove è possibile- tende a prevalere "quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste".

Dramma
Ma arrivando senza posa altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e a provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore del tribunale. Quando questi giunsero, il male s'era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca. (…) S'informarono del numero de' morti: era spaventevole; vistarono infermi e cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza. Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d'ottobre, "si dispose" dice il medesimo Tadino, a prescriver le bullette, per chiuder fuori dalla città le persone provenienti da' paesi dove il contagio s'era manifestato; "et mentre si compilaua la grida" ne diede anticipatamente qualche ordine sommario ai gabellieri. (cap. XXXI,. p. 781)
Quando le autorità si devono arrendere all'evidenza -la peste c'è- è ormai tardi. Radicali interventi preventivi sono ormai superati dagli eventi. "I delegati presero in fretta e in furia quella misure che parver loro migliori, e se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso".

Priorità
Arrivati il 14 novembre, dato ragguaglio, a voce e di nuovo in iscritto, al tribunale, ebbero da questo commissione di presentarsi al governatore, e d'esporgli lo stato delle cose. V'andarono e riportarono: aver lui di tali nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento, ma i pensieri della guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas. (…)
Due o tre giorni dopo, il 18 di novembre, emanò il governatore una grida, in cui ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d'un gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato parlato di nulla. (cap. XXXI, p. 782)
Il governatore, Ambrogio Spinola, aveva un mandato preciso: "raddrizzar quella guerra e riparare agli errori di don Gonzalo", suo predecessore. Solo in seconda battuta la Spagna si aspettava che, oltre a combattere, governasse. Nota amaramente Manzoni: "la storia ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua previdenza, l'attività, la costanza: poteva anche cercare cos'abbia fatto di tutte queste qualità, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura, o piuttosto in balìa". La grida che doveva dare indicazioni ai gabellieri su come bloccare gli ingressi alla città "risoluta il 30 d'ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano".

Volontà di non sapere
Il terrore della contumacia e del lazzaretto aguzzava tutti gli ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s'ebbero, con denari, falsi attestati. (p. 787)
C'era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci fosse. E perché, tanto nel lazzaretto, come per la città, alcuni ne guarivano, "si diceua," (gli ultimi argomenti d'una opinione battuta dall'evidenza son sempre curiosi a sapersi) "si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali, non esser vera peste, perché tutti sarebbero morti." (cap. XXXI, p. 798)

L'interesse -l'apparente interesse- a non vedere la realtà accomuna autorità e cittadinanza.
"L'imperfezion degli editti" si somma alla "trascuranza nell'eseguirli" e alla "destrezza nell'eluderli". Abiti e masserizie probabilmente contaminati, che dovrebbero essere bruciati, sono oggetto di furto e di scambio. E se "di quando in quando, ora in questo ora in quel quartiere" qualcuno moriva "la radezza stessa de' casi allontanava il sospetto della verità".

Bersagli dell'ira
Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva sotto sequestro case, mandava famiglie al lazzaretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l'ira e la mormorazione del pubblico, "della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe", dice il Tadino, persuasi, com'eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. (cap. XXXI, p. 787)
Sul Tribunale della Sanità, che pur dopo resistenze ha compreso la situazione, cadono strali da ogni parte. I pochi medici che agiscono con energia e con coraggio sono oggetto di vero odio. Perché contraddicono la comoda, difensiva pubblica opinione.

Negare l'evidenza
Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in quel caso, voce di Dio?), deridevan gli aùguri sinistri, gli avvertimenti minacciosi dei pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso. (cap. XXXI, p. 787)
Di fronte all'atteggiamento concorde dell'opinione pubblica e del governo, la stragrande maggioranza dei medici si adatta, confermando 'scientificamente' l'assenza di pericolo.

La lenta marcia dell'evidenza, I
I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti; miserabile transazione, anzi trufferia di parole, che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s'attaccava per mezzo del contatto. (cap. XXXI, p. 790)

La lenta marcia dell'evidenza, II
Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste, andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo essere qualche tempo rimasto solamente tra' poveri, cominciò a toccar presone più conosciute. (cap. XXXI, p. 794)

La teoria del complotto
Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicini a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que' mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un grand'inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa in campo. Per disgazia, ce n'era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d'Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe. Già cose tali, o somiglianti, erano state supposte e credute in molte altre pestilenze, e qui segnatamente, in quella di mezzo secolo innanzi. S'aggiunga che, fin dall'anno antecedente, era venuto un dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo ch'erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse all'erta, se mai coloro fossero capitati a Milano. Il governatore aveva comunicato il dispaccio al senato e al tribunale della sanità; né, per allora, pare che ci si badasse più che tanto. Però scoppiata e riconosciuta la peste, il tornar nelle menti quell'avviso poté servir di conferma al sospetto indeterminato d'una frode scellerata; poté anche essere la prima occasione di farlo nascere. (cap. XXXI, pp. 794-795)
Il desiderio di non contraddire le posizioni già assunte e la paura di una realtà che si preferirebbe non vedere spingono a cercare caparbiamente, "contro la ragione e l'evidenza", spiegazioni che contraddicono i dati di realtà.

Dagli all'untore!
Ma due fatti, l'uno di cieca e indisciplinata paura, l'altro di non so quale cattività, furon quelli che convertirono quel sospetto indeterminato d'una attentato possibile, in sospetto, e per molti in certezza, d'un attentato positivo, e d'una trama reale. Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito, che serviva a dividere gli spazi assegnati a' due sessi, fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l'assito e una quantità di panche rinchiuse in quello. (…) Quel volume di roba accatastata produsse una grand'impressione di spavento nella moltitudine. (…)
La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti de' cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne. O sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia stato un più reo disegno d'accrescer la pubblica confusione, o non saprei che altro; la cosa è attestata in maniera, che ci parrebbe men ragionevole l'attribuirla a un sogno di molti, che al fatto d'alcuni: fatto, del resto, che no sarebbe stato, né il primo né l'ultimo di tal genere. (…)
La città già agitata ne fu sottosopra: i padroni delle case, con paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti; i passeggieri si fermavano, guardavano, inorridivano, fremevano. I forestieri, sospetti per questo solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia. (cap. XXXI, pp. 795-797)
S'era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d'edifizi pubblici, usci di case, martelli (…)
Nella chiesa di sant'Antonio un giorno un giorno di non so quale solennità, un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. "Quel vecchi unge le panche!" gridarono a una voce alcune donne che vider l'atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com'erano; lo carican di pugni e calci; parte lo tirano, parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascicarlo, così semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture. (Cap. XXXII, pp. 807, 808)
"Chi avesse negata l'esistenza di una trama" , commenta Manzoni, "passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d'uomo interessato a stornar dal vero l'attenzione del pubblico, di complice, d'untore". Il vocabolo diviene presto d'uso comune, "solenne", "tremendo". Perché all'uomo "irritato dall'insistenza del pericolo" -e qui Manzoni cita l'illuminista Pietro Verri- "piace più d'attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro che da rassegnarsi".

Estremi rimedi: l'evento contro l'opinione
Per levare ogni dubbio, trovò il tribunale della sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi, quale i tempi potevano richiederlo o suggerirlo. In una delle feste della Pentecoste, usavano i cittadini di concorrere al cimitero di San Gregorio, fuori di porta Orientale, a pregar per i morti dell'altro contagio, ch'eran sepolti là; e, prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, ci andavano, ognuno più in gala che potesse. Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un'intera famiglia. Nell'ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d'ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s'alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorio regnava dove era passato; un altro mormorio lo percorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistando fede da sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla. (cap. XXXI, pp. 789-799)
L'evento è una realtà forzata. E' una realtà resa evidente attraverso la sua spettacolarizzazione. Ciò che non si vuol vedere, si è costretti a vederlo se è 'messo in scena' di fronte ai nostri occhi.
Il passaggio del carro è un evento costruito ad arte; potrebbe essere 'falso' . Eppure è più convincente della cruda evidente realtà quotidiana. Convincente -si spera- anche agli occhi di coloro che "contro la ragione e l'evidenza", invece di rispondere alle drammatiche circostanze con azioni conseguenti, badano a cercar complotti.

Le parole ed i fatti
In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l'idea s'ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s'è attaccata un'altra idea, l'idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l'idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro. (cap. XXXI, p. 799)
Le descrizioni di ciò che accade, condizionate da paure ed interessi, sono sempre solo parzialmente veritiere, giungono sempre in ritardo, "stornano dal vero l'attenzion del pubblico".
Nel frattempo però, nota con sdegno Manzoni, le persone muoiono davvero. E' perciò che le capacità organizzative e di governo dovrebbero combattere, con i fatti, contro le parole.

Riferimenti bibliografici.
L'edizione definitiva de I promessi sposi apparve a dispense, a spese dell'autore, tra il 1840 e il 1842 (Milano, tipografia Guglielmini e Redaelli). I numeri di pagina rimandano all'edizione curata da Giuseppe Giacalone (Roma, Signorelli, 1980).


Note:
1 Il testo qui riproposto č apparso su Sviluppo & Organizzazione, marzo-aprile 1998 (rubrica Il Principe di Condé). Una raccolta di testi apparsi nella rubrica (che non comprende il testo qui ripubblicato) č: Francesco Varanini, Romanzi per i manager, Marsilio, 2000.

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