GLI UNTORI E L'ANTRACE COME PESTE
Non di rado scopriamo
che un romanzo ha già detto più di quanto leggiamo sui giornali.
L'antrace come peste -oscura minaccia-, il terrore, l'incredulità, la
tardiva organizzazione, ecc. Qualcosa di quanto accade oggi negli Stati Uniti
era già successo altrove. Per esempio a Milano nel 1600.
Rileggere oggi Manzoni è istruttivo.1
Alessandro Manzoni
Nasce il 7 marzo 1795 , figlio di Giulia Beccaria e del nobiluomo lecchese
Pietro Manzoni (o forse no: la madre, costretta al matrimonio contro la sua
volontà, fu legata ad altri uomini). La madre segue a Parigi il nuovo
compagno. Alessandro passa da un collegio all'altro. Cresce in un ambiente anticlericale;
e dell'educazione religiosa conserva solo i sensi di colpa. La conversione è
tardiva: matura sull'onda del matrimonio con Enrichetta Blondel, nata calvinista,
e in conseguenza di stimoli legati all'ambiente parigino.
La fede di Manzoni resterà indelebilmente segnata dall'impronta del giansenismo,
quella corrente religiosa che percorse il cattolicesimo francese dal 1600 alla
metà del 1800: l'uomo è invincibilmente portato al male; solo
la grazia può salvarlo. La grazia, concessa solo ad alcuni da un impescrutabile
disegno divino.
Di questo parlano innanzitutto I promessi sposi, il primo vero romanzo
della letteratura italiana: il drammatico e tormentato corso della storia sembra
non lasciare spazio alla speranza. Macchinazioni tenebrose, fame, guerra, epidemie.
Ma il pessimismo non è mai disperato, perché dietro le tenebre
splende pur sempre la luce della fede in Dio. L'autore non è indifferente:
mostra indignazione, orrore, compassione. E la lotta tipicamente romantica tra
Bene e Male, Giustizia e Sopruso, Vittime e Oppressori vede entrare in gioco
alla fine la divina Provvidenza.
Un libro religioso, ma non solo: come amava sostenere lo stesso Manzoni, un
bal pour les pauvres, un libro democratico, che qualcuno doveva pur scrivere
nell'Italia risorgimentale, e che Gramsci considererà modello di letteratura
nazional-popolare.
Manzoni è un maturo poeta quando nel 1821 mette mano al romanzo. Che
avrà una lenta e complessa gestazione. Solo vent'anni dopo verrà
data alle stampe l'edizione definitiva, riscritta in una lingua calcata sulla
parlata toscana.
La sua vita continuerà ad essere tormentata. Morirà nel 1873.
Un anno dopo la morte sarà ricordato con la Messa di Requiem di
Verdi.
Il marchio di gloria nazionale, e anche la lettura scolastica obbligatoria,
imbalsamano Manzoni. Ci rendono più difficile cogliere la sua lucidità
di giudizio ed il suo acume sociologico, che sono grandi.
Con il termine "peste", nelle culture di origine greco-latina, si
designarono a lungo genericamente tutte le malattie epidemiche a carattere letale.
Non a caso il latino pestis discende dalla stessa radice di peius, 'peggio',
proprio ad indicare 'la peggior malattia': è la malattia per antonomasia,
che colpisce misteriosamente e senza rimedio. Che segna un'epoca. Azzerando
lo sviluppo economico e sociale, e lasciando la popolazione decimata.
La storia ricorda la grande peste ateniese del 429 a. C. (che fu però
in realtà un'epidemia di tifo). Mentre fu vera 'peste bubbonica' quella
che colpì Roma nel 66 d. C. e che fu descritta da Tacito.
Enormi le conseguenze dell'epidemia che si manifestò in tutto il bacino
del Mediterraneo nel 542. Ugualmente gravi, e più note, le conseguenze
della peste che si abbatté su mondo occidentale tra il 1347 e il 1350:
la 'morte nera', che trovò in Boccaccio (nel Decameron) un eccezionale
testimone.
Profonde furono allora le conseguenze sulla sensibilità collettiva. I
temi del "trionfo della morte", della "danza macabra", del
"dialogo tra morto e defunto" diventarono centrali nella produzione
letteraria e artistica. Ma sopratutto motivarono comportamenti di massa di tipo
psicopatologico. Ignorando le origini dell'epidemia, se ne cercavano origini
mitiche e superstiziose: le stelle, i demonio. Non solo: l'accusa di avere originato
l'epidemia fu occasione di scoppi di violenza e di eccidi: gli ebrei, accusati
di aver diffuso il male, furono sterminati.
Nel 1300 Milano -per via dell'isolamento politico e commerciale che viveva sotto
i Visconti- fu risparmiata. Non così nel 1576 (la cosiddetta 'peste di
San Carlo') e tra il 1629 e il 1630. Questa ultima volta -come ci racconta Manzoni-
l'epidemia colpisce con particolare violenza: la popolazione della città
ne è ridotta a un quarto.
Della peste -malattia infettiva acuta, a diffusione epidemica- solo alla fine
del secolo scorso è stata scoperta la genesi: è provocata da un
batterio parassita della pulce dei ratti. Da allora la peste (senza peraltro
scomparire del tutto) ha perso la sua natura di minaccia incontrollabile.
E però non è scomparsa -per la massa e per il singolo uomo- l'idea
della minaccia incombente. Un pericolo di fronte alla quale sembra impossibile
difendersi. E che provoca tipiche reazioni: il rifiuto della realtà,
che spinge a rifiutare le più semplici precauzioni; la ricerca del colpevole,
non importa se immaginario; la delega della ricerca della soluzione a un ente
pubblico, il Tribunale della Sanità nel 600 a Milano, il Ministero della
Sanità oggi.
In questo senso sono 'peste' l'Aids e il cancro. Ed in questo senso l'approntamento
e la gestione di efficaci sistemi di prevenzione e di controllo di fronte alla
'peste' ci appare come massima manifestazione di capacità organizzative.
Il flagello
La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar
con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata per davvero, com'è
noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò
una buona parte d'Italia. Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo
a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese,
s'intende, anzi in Milano quasi esclusivamente. (cap. XXXI, p.777)
Avvisaglie
Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall'esercito, s'era
trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in
questo, e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi a morire, persone, famiglie,
di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de' viventi.
C'erano soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que' pochi che potessero
ricordarsi della peste che, cinquantatré anni avanti, aveva desolata
pure una buona parte d'Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed
è tuttora, peste di San Carlo. (cap. XXXI, p. 780)
Diagnosi precoci
Il protofisico Lodovico Settala, che non solo aveva veduto quella peste,
ma n'era stato uno de' più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovanissimo,
de' più reputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava
all'erta e sull'informazioni, riferì , il 20 d'ottobre, nel tribunale
della sanità, come, nella terra di Chiuso (l'ultima del territorio di
Lecco, e confinante col bergamasco),
era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione,
come si ha dal Ragguaglio del Tadino. (cap. XXXI, p. 780)
Rassicurazioni
Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale
allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada
facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi
indicati. Tutt'e due, "o per ignoranza o per altro, si lasciarono persuadere
da un vecchio e ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non
era Peste" (Tadino, ivi; nota dell'autore); ma in alcuni luoghi,
effetto consueto dell'emanzioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto
de' disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale
assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare ne mettesse il cuore
in pace. (cap. XXXI, pp. 780-781)
Dunque le 'autorità preposte' fin dall'inizio hanno coscienza del
rischio. Eppure -per incuria; per il peso della responsabilità, che le
stesse autorità rifiutano fin dove è possibile- tende a prevalere
"quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste".
Dramma
Ma arrivando senza posa altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti
due delegati a vedere e a provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore del
tribunale. Quando questi giunsero, il male s'era già tanto dilatato,
che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca. (
) S'informarono
del numero de' morti: era spaventevole; vistarono infermi e cadaveri, e per
tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza. Diedero subito,
per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale,
al riceverle, che fu il 30 d'ottobre, "si dispose" dice il medesimo
Tadino, a prescriver le bullette, per chiuder fuori dalla città le persone
provenienti da' paesi dove il contagio s'era manifestato; "et mentre si
compilaua la grida" ne diede anticipatamente qualche ordine sommario ai
gabellieri. (cap. XXXI,. p. 781)
Quando le autorità si devono arrendere all'evidenza -la peste c'è-
è ormai tardi. Radicali interventi preventivi sono ormai superati dagli
eventi. "I delegati presero in fretta e in furia quella misure che parver
loro migliori, e se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero
bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso".
Priorità
Arrivati il 14 novembre, dato ragguaglio, a voce e di nuovo in iscritto,
al tribunale, ebbero da questo commissione di presentarsi al governatore, e
d'esporgli lo stato delle cose. V'andarono e riportarono: aver lui di tali nuove
provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento, ma i pensieri della
guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas. (
)
Due o tre giorni dopo, il 18 di novembre, emanò il governatore una grida,
in cui ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito
del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d'un gran concorso,
in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato
parlato di nulla. (cap. XXXI, p. 782)
Il governatore, Ambrogio Spinola, aveva un mandato preciso: "raddrizzar
quella guerra e riparare agli errori di don Gonzalo", suo predecessore.
Solo in seconda battuta la Spagna si aspettava che, oltre a combattere, governasse.
Nota amaramente Manzoni: "la storia ha descritte con molta diligenza le
sue imprese militari e politiche, lodata la sua previdenza, l'attività,
la costanza: poteva anche cercare cos'abbia fatto di tutte queste qualità,
quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura, o piuttosto
in balìa". La grida che doveva dare indicazioni ai gabellieri su
come bloccare gli ingressi alla città "risoluta il 30 d'ottobre,
non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il
29. La peste era già entrata in Milano".
Volontà di non sapere
Il terrore della contumacia e del lazzaretto aguzzava tutti gli ingegni:
non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti;
da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri,
s'ebbero, con denari, falsi attestati. (p. 787)
C'era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa
peste ci fosse. E perché, tanto nel lazzaretto, come per la città,
alcuni ne guarivano, "si diceua," (gli ultimi argomenti d'una opinione
battuta dall'evidenza son sempre curiosi a sapersi) "si diceua dalla plebe,
et ancora da molti medici partiali, non esser vera peste, perché tutti
sarebbero morti." (cap. XXXI, p. 798)
L'interesse -l'apparente interesse- a non vedere la realtà accomuna autorità
e cittadinanza.
"L'imperfezion degli editti" si somma alla "trascuranza nell'eseguirli"
e alla "destrezza nell'eluderli". Abiti e masserizie probabilmente
contaminati, che dovrebbero essere bruciati, sono oggetto di furto e di scambio.
E se "di quando in quando, ora in questo ora in quel quartiere" qualcuno
moriva "la radezza stessa de' casi allontanava il sospetto della verità".
Bersagli dell'ira
Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale
ordinava di bruciar robe, metteva sotto sequestro case, mandava famiglie al
lazzaretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro
di esso l'ira e la mormorazione del pubblico, "della Nobiltà, delli
Mercanti et della plebe", dice il Tadino, persuasi, com'eran tutti, che
fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. (cap. XXXI, p. 787)
Sul Tribunale della Sanità, che pur dopo resistenze ha compreso la situazione,
cadono strali da ogni parte. I pochi medici che agiscono con energia e con coraggio
sono oggetto di vero odio. Perché contraddicono la comoda, difensiva
pubblica opinione.
Negare l'evidenza
Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in quel
caso, voce di Dio?), deridevan gli aùguri sinistri, gli avvertimenti
minacciosi dei pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare
ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con
qualunque segno fosse comparso. (cap. XXXI, p. 787)
Di fronte all'atteggiamento concorde dell'opinione pubblica e del governo,
la stragrande maggioranza dei medici si adatta, confermando 'scientificamente'
l'assenza di pericolo.
La lenta marcia dell'evidenza, I
I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò
che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia,
divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di
febbri maligne, di febbri pestilenti; miserabile transazione, anzi trufferia
di parole, che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere
la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più
importava di credere, di vedere, che il male s'attaccava per mezzo del contatto.
(cap. XXXI, p. 790)
La lenta marcia dell'evidenza, II
Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste, andava naturalmente
cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, e si diffondeva
per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo essere
qualche tempo rimasto solamente tra' poveri, cominciò a toccar presone
più conosciute. (cap. XXXI, p. 794)
La teoria del complotto
Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente, e così
a lungo, che ci fosse vicini a loro, tra loro, un germe di male, che poteva,
per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il
propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que' mezzi (che sarebbe stato
confessare a un tempo un grand'inganno e una gran colpa), erano tanto più
disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse
messa in campo. Per disgazia, ce n'era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni
comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d'Europa: arti venefiche,
operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni
contagiosi, di malìe. Già cose tali, o somiglianti, erano state
supposte e credute in molte altre pestilenze, e qui segnatamente, in quella
di mezzo secolo innanzi. S'aggiunga che, fin dall'anno antecedente, era venuto
un dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo
ch'erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere
unguenti velenosi, pestiferi: stesse all'erta, se mai coloro fossero capitati
a Milano. Il governatore aveva comunicato il dispaccio al senato e al tribunale
della sanità; né, per allora, pare che ci si badasse più
che tanto. Però scoppiata e riconosciuta la peste, il tornar nelle menti
quell'avviso poté servir di conferma al sospetto indeterminato d'una
frode scellerata; poté anche essere la prima occasione di farlo nascere.
(cap. XXXI, pp. 794-795)
Il desiderio di non contraddire le posizioni già assunte e la paura di
una realtà che si preferirebbe non vedere spingono a cercare caparbiamente,
"contro la ragione e l'evidenza", spiegazioni che contraddicono i
dati di realtà.
Dagli all'untore!
Ma due fatti, l'uno di cieca e indisciplinata paura, l'altro di non so quale
cattività, furon quelli che convertirono quel sospetto indeterminato
d'una attentato possibile, in sospetto, e per molti in certezza, d'un attentato
positivo, e d'una trama reale. Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera
del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito, che serviva a dividere
gli spazi assegnati a' due sessi, fecero, nella notte, portar fuori della chiesa
l'assito e una quantità di panche rinchiuse in quello. (
) Quel
volume di roba accatastata produsse una grand'impressione di spavento nella
moltitudine. (
)
La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo
colpì gli occhi e le menti de' cittadini. In ogni parte della città,
si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise
di non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne.
O sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso
e più generale, o sia stato un più reo disegno d'accrescer la
pubblica confusione, o non saprei che altro; la cosa è attestata in maniera,
che ci parrebbe men ragionevole l'attribuirla a un sogno di molti, che al fatto
d'alcuni: fatto, del resto, che no sarebbe stato, né il primo né
l'ultimo di tal genere. (
)
La città già agitata ne fu sottosopra: i padroni delle case, con
paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti; i passeggieri si fermavano,
guardavano, inorridivano, fremevano. I forestieri, sospetti per questo solo,
e che allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle
strade dal popolo, e condotti alla giustizia. (cap. XXXI, pp. 795-797)
S'era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte
d'edifizi pubblici, usci di case, martelli (
)
Nella chiesa di sant'Antonio un giorno un giorno di non so quale solennità,
un vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni,
volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. "Quel
vecchi unge le panche!" gridarono a una voce alcune donne che vider l'atto.
La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon
per i capelli, bianchi com'erano; lo carican di pugni e calci; parte lo tirano,
parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascicarlo, così
semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture. (Cap. XXXII, pp. 807,
808)
"Chi avesse negata l'esistenza di una trama" , commenta Manzoni,
"passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d'uomo
interessato a stornar dal vero l'attenzione del pubblico, di complice, d'untore".
Il vocabolo diviene presto d'uso comune, "solenne", "tremendo".
Perché all'uomo "irritato dall'insistenza del pericolo" -e
qui Manzoni cita l'illuminista Pietro Verri- "piace più d'attribuire
i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette,
che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro che da rassegnarsi".
Estremi rimedi: l'evento contro
l'opinione
Per levare ogni dubbio, trovò il tribunale della sanità un
espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi, quale i
tempi potevano richiederlo o suggerirlo. In una delle feste della Pentecoste,
usavano i cittadini di concorrere al cimitero di San Gregorio, fuori di porta
Orientale, a pregar per i morti dell'altro contagio, ch'eran sepolti là;
e, prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo,
ci andavano, ognuno più in gala che potesse. Era in quel giorno morta
di peste, tra gli altri, un'intera famiglia. Nell'ora del maggior concorso,
in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella
famiglia furono, d'ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto,
sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio
manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s'alzava per tutto
dove passava il carro; un lungo mormorio regnava dove era passato; un altro
mormorio lo percorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava
acquistando fede da sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima
non dové servir poco a propagarla. (cap. XXXI, pp. 789-799)
L'evento è una realtà forzata. E' una realtà resa evidente
attraverso la sua spettacolarizzazione. Ciò che non si vuol vedere, si
è costretti a vederlo se è 'messo in scena' di fronte ai nostri
occhi.
Il passaggio del carro è un evento costruito ad arte; potrebbe essere
'falso' . Eppure è più convincente della cruda evidente realtà
quotidiana. Convincente -si spera- anche agli occhi di coloro che "contro
la ragione e l'evidenza", invece di rispondere alle drammatiche circostanze
con azioni conseguenti, badano a cercar complotti.
Le parole ed i fatti
In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito
anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l'idea s'ammette
per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì,
ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare
un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già
ci s'è attaccata un'altra idea, l'idea del venefizio e del malefizio,
la quale altera e confonde l'idea espressa dalla parola che non si può
più mandare indietro. (cap. XXXI, p. 799)
Le descrizioni di ciò che accade, condizionate da paure ed interessi,
sono sempre solo parzialmente veritiere, giungono sempre in ritardo, "stornano
dal vero l'attenzion del pubblico".
Nel frattempo però, nota con sdegno Manzoni, le persone muoiono davvero.
E' perciò che le capacità organizzative e di governo dovrebbero
combattere, con i fatti, contro le parole.
Riferimenti bibliografici.
L'edizione definitiva de I promessi sposi apparve a dispense, a spese
dell'autore, tra il 1840 e il 1842 (Milano, tipografia Guglielmini e Redaelli).
I numeri di pagina rimandano all'edizione curata da Giuseppe Giacalone (Roma,
Signorelli, 1980).
Note:
1
Il testo qui riproposto č apparso su Sviluppo & Organizzazione,
marzo-aprile 1998 (rubrica Il Principe di Condé). Una raccolta di testi apparsi
nella rubrica (che non comprende il testo qui ripubblicato) č: Francesco
Varanini, Romanzi per i manager, Marsilio, 2000.