BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 18/03/2002

ENNE RAGIONI PER NON DIRE MAI QUANT'ALTRO

di Francesco Varanini

Leggo una mia intervista su una rivista specializzata. “L’accesso alle informazioni, il livello di partecipazione alla conoscenza condivisa, l’organizzazione del lavoro e quant’altro”. Mi dico: cavolo, non me n’ero accorto, sono caduto anch’io sul quant’altro.

Poi però volto qualche pagina, un’altra intervista. Un altro intervistato elenca: “Ruolo, competenze, skill expertise, offerta economica”. E continua: “benefit, iter di carriera potenziale e”, indovinate cosa, “e  quant’altro”.

Mi tranquillizzo, la coincidenza mi permette di pensare che probabilmente il quant’altro non è uscito dalla mia bocca. Forse neanche dalla bocca del secondo intervistato. Magari è frutto della penna del giornalista, di  un malinteso desiderio di buona scrittura. Oppure, più verosimilmente, neanche il giornalista voleva quei quant’altri. Eppure eccola lì questa espressione passe-partout, questa locuzione ombrello. Vi auguro di essere caduti raramente sul quant’altro, ma pensateci un attimo: sicuramente nell’arco della scorsa settimana avete ascoltato nel corso di riunioni di lavoro almeno una decina di quant’altri.

Se non ci avete fatto caso fin’ora, fateci caso d’ora in poi. Vi accorgerete che il quant’altro, a di là della sua apparenza di linguaggio forbito, provoca nell’ascoltatore un sottile fastidio. Come quando un gesto o lo sguardo contraddice il senso di quanto il nostro interlocutore ci sta dicendo con le parole. Come un elemento incongruo incuneato nei contenuti della conversazione.

Mi viene così da formulare questa ipotesi. Questo quant’altro ha all’interno dei nostri discorsi lo stesso nefasto ruolo di un bug nascosto tra le righe di codice. E’ un subdolo virus che si diffonde di bocca in bocca e si insinua nei nostri discorsi e li corrompe. Come quelle frasi apparentemente amichevoli che ammiccano nell’oggetto di certe mail, e che poi (chi di noi non ne ha fatto amara esperienza) nascondono un attacco ai contenuti del nostro disco fisso.

Quando fa irruzione il quant’altro? Quando ci troviamo a descrivere una serie non chiusa, quando ci troviamo ad elencare enne fattori.

Borges parlava di ‘enumerazione caotica’, e ne faceva largo uso nelle sue poesie. Non servono aggettivi accattivanti, gli elenchi di cose e di nomi parlano da soli, dice Borges. Le enumerazioni sono, alla lettera, poesia. Poesia, ce lo dice l’origine dalla parola, sta per ‘creazione’, progettazione, costruzione di nuovi mondi. Quando parlo costruisco un mondo possibile. Mentre mi esprimo so, di quel mondo, ancora poche cose; intravedo il senso dell’insieme, ma non sono in grado di descrivere tutto. Poi, anche con il contributo delle persone con cui dialogo, l’immagine si consolida e si arricchisce di dettagli. Ma, sempre, il tutto è inattingibile.

Di qui il profondo senso dell’eccetera. Locuzione che si usa per concludere l’enunciazione di un elenco che è impossibile concludere. L’affacciarsi sulla soglia dell’infinito, dell’indicibile. In latino et cetera, così come in greco kài  tà hálla, afferma l’esistenza di tutto l’‘altro’ che non è stato, e che non può, essere detto (ceteri, ‘gli altri’).

E’ ben vero che ‘quanto’ porta con se una remota idea di apertura a ‘ciò che non si sa ancora’; risale infatti alla madre di tutti gli interrogativi, il sanscrito kah, da cui le espressioni italiane 'chi?', 'quanto?', 'quale?', 'cosa?', 'perché?’. Ma nella domanda sta l’aspettativa di una risposta. La convinzione di poterla avere. La convinzione di poter chiudere il discorso.

Ben diverso il senso del latino et: ci riporta al sanscrito áti, ‘al di là’. Tutto ciò che sta  oltre le nostre possibilità di controllo.

Ecco qui. Non pensate che sia una questione di lana caprina. L’eccetera è come una musica che sfuma in fade, ‘fino a dissolversi’. Il quant’altro, invece, ci parla di un brutale troncamento. L’elenco è impossibile da concludere, gli elementi sono innumerevoli, eppure a un certo punto pretendo di misurare e di inquadrare l’‘altro’, ‘tutto il resto’. Mi illudo così che i problemi non esistano. Contrabbando l’infinito per finito. Affermo vanamente la pretesa di misurare ciò che non può essere misurato. Per non pormi il problema, dichiaro facile ciò che è difficile.

Io posso e devo, nell’elencazione, nella descrizione di un mondo fermarmi a un certo punto. Nella descrizione di un mondo incognito così come nella costruzione di una base dati destinata a contenere le informazioni sui miei clienti, non tutto può essere detto. Non tutto è possibile sapere. Esisterà sempre dell’altro. Ma se io dico eccetera lascio aperto il mio sistema, prendo in considerazione la difficoltà di prevedere gli effetti della presenza di elementi ‘altri’.

Se io dico quant’altro parlo di un sistema illusoriamente chiuso. E vado incontro a una disfatta progettuale. Allontano, per timore o per presunzione, la mia lettura del mondo dal mondo com’è. Decido di ignorare le difficoltà che potrò incontrare. Mi difendo rinunciando a confrontarmi veramente con l’altro.

Con l’eccetera accetto i miei limiti soggettivi, l’impossibilità di dire e di comprendere il tutto. Con il quant’altro eludo la questione pretendendo di chiudere il discorso, di semplificarlo ad ogni costo. E lo faccio –ed è questo a provocare massimamente il fastidio– occultando l’ingiustificata semplificazione dietro una locuzione apparentemente colta, raffinata. Proprio come quando un tecnico, un esperto, si nasconde dietro i sottocodici della sua comunità professionale per nascondere, anche a se stesso, il fatto di non avere idee chiare.

D’accordo, mi direte. Ma perché un virus. Perché non voglio pensare ad una cattiva volontà. Penso che si tratti piuttosto di cattiva educazione. Diremo quant’altro invece di eccetera se avremo magari involontariamente subito l’influenza di una ‘cultura’ che ci si presenta per televisione sotto forma di quiz, di fronte a una domanda la risposta racchiusa all’interno di quattro alternative secche.  

Questa modalità di apprendere, questo modo di ‘venire a conoscere’ sta all’opposto dell’educazione (che è ‘condurre’, ‘portare avanti’). Il quiz rassicura, l’apprendimento è faticoso. Quant’altro è un rapido, deresponsabilizzante modo di nominare e svalutare e di ridurre e di portare lontano da noi tutto ciò che non sappiamo e che non riusciamo a capire.

Se il mondo, banalizzato, è tutto un quiz, in questo mondo il quant’altro aleggia su di noi e nostro malgrado si infiltra nei nostri discorsi per banalizzarli adattandoli al mondo. Un discorso critico e costruttivo può, attraverso la banalizzazione delle espressioni, essere vanificato. Saremo così involontariamente spinti ad abbassare la guardia, ad adattarci ad un contesto dove non si premia la diversità ed il cambiamento, dove non si valorizza il ‘portare avanti’, dove si preferisce ignorare l’‘altro’. E dove invece si premia l’accettazione supina, la giustificazione degli insuccessi. L’adattarsi al mondo così com’è.

I modi di esprimersi non sono mai neutrali. Guardatevi perciò dal quant’altro.

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