BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 27/10/2003

CAMBIAMENTO:SOFFERENZA E RESPONSABILITA' INDIVIDUALE

di Francesco Varanini

Prendiamo una situazione tipica. Il mercato, l’equilibrio del conto economico, scelte strategiche impongono di cambiare. Il cambiamento organizzativo è stato deciso, progettato.

Il responsabile dello sviluppo organizzativo, o del progetto di cambiamento, sente il peso del compito, e razionalizza così: ‘io mi impegnerò al massimo, ma il raggiungimento del risultato non dipende solo da me. Dipende innanzitutto dal vertice aziendale, dai responsabili della line. E poi dipende da tutti i lavoratori, da tutti coloro che sono toccati dal cambiamento. Se il vertice e la line non sponsorizzano in progetto in modo esplicito, se non lo sostengono, se non ci credono, e se la gente rema contro, non si va da nessuna parte’.

Il responsabile dello sviluppo organizzativo, o del progetto di cambiamento, così ragionando attorno alla committenza ed al contesto, ha certo le sue ragioni. Ha diritto al sostegno, a non essere mandato allo sbaraglio. Ha motivo di richiedere condizioni adeguate perché il cambiamento si realizzi.

I responsabili di linea, però, ed il vertice aziendale, pur consapevoli della necessità del cambiamento, spesso non sono capaci di innescarlo e di gestirlo. Per questo, non a caso, attribuiscono responsabilità del progetto a un professionista. Spesso, diciamocelo, i nostri capi sono meno capaci di quanto dovrebbero essere. E spesso chi sta al vertice, ricordiamolo, lungi dall’essere in grado di sostenere ed aiutare gli altri, ha bisogno di essere sostenuto ed aiutato. Così, con ragione, dal suo punto di vista, il management dirà: ‘sappiamo che il cambiamento comporta difficoltà, proprio per questo abbiamo affidato il progetto alla persona più brava. Noi faremo la nostra parte, ma le gatte da pelare innanzitutto sono sue.’

E la ‘gente’, prima di rinunciare all’esistente, dirà: ‘vediamo da che parte tira il vento. Ma non sono problemi nostri. Sono loro che sono pagati per decidere’. Del resto, impiegati ed operai, avendo visto molti progetti di cambiamento decollare con squilli di tromba per poi finire in niente, ed avendo, perché no, i piccoli personali interessi da difendere, perché mai dovrebbero stavolta crederci veramente e mettersi in gioco?

La sofferenza individuale, l’impossibilità soggettiva di fare di più, di assumersi ulteriori pesi, da una parte e dall’altra, spinge a scaricare su altri il peso. Si innesca così un circolo vizioso dove ognuno tende a scaricare su altri la responsabilità del processo di cambiamento, dove ognuno si giustifica con il fatto di non essere stato messo nelle condizioni che sente soggettivamente necessarie. 

E’ così che i progetti falliscono.

Tra gli attori, però, ce n’è uno che ha differenza degli altri non può scaricare su altri la responsabilità, non può contentarsi dell’autogiustificazione. E’ il responsabile dello sviluppo, il capoprogetto. Può anche darsi che, nel caso non raggiunga il risultato, sia ugualmente premiato. Ma lui, in cuor suo, se si confronta con se stesso, si sentirà soddisfatto solo se il cambiamento –almeno in parte, in un modo o nell’altro– si realizza.

C’è dunque una particolare solitudine, una particolare sofferenza, nel ruolo di responsabile dello sviluppo. Non basteranno certo a lenirla, e a fornire reale sostegno, strumenti tecnici come Project Management: nominare le attività; elencare gli eventi; esplicitare i tempi, i passaggi chiave; registrare gli avvenimenti: tutto questo è utile, o forse indispensabile. Ma non tocca il nocciolo duro della resistenza al cambiamento.

Qui voglio porre l’accento su un punto: la difficoltà del ruolo ha a che fare con la gestione della sofferenza.

Il responsabile dello sviluppo soffre perché ha sulle spalle un peso che non può condividere con nessuno. Ed anzi si trova scaricati sulle spalle pesi altrui.

Perché non solo il responsabile dello sviluppo soffre. L’organizzazione soffre. [1] La sofferenza dell’organizzazione è la somma delle sofferenze individuali. Ogni persona porta con se il suo bagaglio di dolore. Il dolore è frutto della storia di vita individuale, e allo stesso tempo di esperienze maturate da ognuno nel mondo del lavoro. Se siamo di fronte ad una situazione di cambiamento, significa che si siamo vicini alla soglia oltre la quale la situazione attuale non è più sopportabile. La sofferenza, quindi, è particolarmente alta: sono fonti di sofferenza i malfunzionamenti, i maltrattamenti, il timore di un futuro incerto, la paura di veder morire l’organizzazione nella quale si vive e con la quale ci si identifica. La situazione, ricordiamolo, porta a galla e rimette in scena, di fronte ad una situazione reale, i timori e le paure e le sofferenze latenti che ognuno, ogni lavoratore e ogni manager, e potremmo dire anche ogni cliente ed ogni fornitore, porta con sé.

Ora, questo bagaglio complessivo di sofferenza si traduce di solito in resistenza al cambiamento. Sto soffrendo, ho paura, quindi mi difendo.

Nella situazione di sofferenza, ognuno scarica le energie giocandole contro se stesso, deprimendosi e perdendo entusiasmo e fiducia. Oppure, le energie vengono scaricate in conflitti privi di vero scopo: per tutto quello che non va si cerca un colpevole, un capro espiatorio.

In cosa sta in fondo la leadership del cambiamento? Sta nella capacità di rovesciare la depressione legata ad un oggi insoddisfacente nella fiducia in un domani che, quanto meno, non può essere peggiore. Non è una promessa vana: ricordiamo che il futuro delle organizzazioni è il frutto di un investimento collettivo. Ricordiamo che l’impresa non è mai solo come vogliono che sia i capi ed i padroni, l’impresa è il risultato condiviso dei progetti individuale di chi vi lavora. Il domani della nostra azienda, quindi, è la conseguenza di quanto ognuno di noi ha creduto in un possibile futuro.

Cosa dunque può fare il bravo responsabile dello sviluppo? Può lavorare sulle proprie emozioni, non reprimendole, ma anzi considerandole un fattore di successo fondamentale. Può lavorare sulle emozioni di ogni altro soggetto, fino a convincerlo a cederci. Può ‘allenarsi’ a portare il peso della sofferenza. Ricordando che la sofferenza è fatta di energia mal giocata, e che questa energia può sempre essere indirizzata verso un diverso, più costruttivo scopo.

Non bisogna pensare che questo lavoro sul dolore costituisca una diminuzione, un carico eccessivo, una rinuncia alla libertà, un allontanamento dalla giusta ricerca del piacere o, più semplicemente, dalla giusta ricerca della soddisfazione professionale. Non si costruiscono nuovi mondi senza fatica.

Basti qui ricordare il misterioso ma profondo legame che la Bibbia ci propone parlando al contempo del ‘portare la propria croce’ e dell’‘essere come dio’.



[1] Una di quelle società di consulenza americane superspecializzate, ODR, www.odrinc.com, si occupa esclusivamente di processi di cambiamento. Interviene in progetti magari affidati ad altre società di consulenza, magari le solite major, McKinsey o Accenture, promettendo di lavorare sul clima, sulle pulsioni, sulle energie collettive.

ODR semplifica e forse banalizza, ma pone al centro dei suoi interventi due aspetti chiave, certo non nuovi, ma che meritano tutta la nostra attenzione: appunto, la gestione della sofferenza (pain management) e la leadership del cambiamento. (Non mi propongo qui di presentare il modello ODR, ma ragionando liberamente attorno a questi temi, noto la coincidenza).

 

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