Zara: Spagna batte Italia sul
suo terreno
Se c’è un mercato nel quale noi italiani ci sentiamo intimamente
leader, anche in questo momento di difficile congiuntura, è il mercato
della moda. Un primato, un primato fondato sul gusto, sulla creatività,
ma anche in un consolidato modello di business. Non si tratta solo, come ben
sappiamo, di alta moda, ma anche di moda rivolta al pubblico più largo.
Volumi di fatturato sviluppati in ogni paese del mondo – perché
in ogni luogo ci sono uomini e donne che cercano una guida per vestirsi alla
moda ed un luogo dove comprare a prezzi accessibili.
Disegno, innovazione, marketing, distribuzione, comunicazione – e alle
spalle un solido know how, una filiera, un modello produttivo e organizzativo
localizzato in particolare nel Nord-Est, un’area trainante, un modello
per l’Europa, un bacino di imprenditorialità creativa. Tessile
e abbigliamento, insomma, come manifestazione esemplare della nostra competitività.
Così, a partire da questi nostri punti di forza, guardiamo al mercato
globale. Ci confrontiamo con Francia, Germania, Regno Unito, o guardiamo più
lontano, verso Stati Uniti o Giappone. Poco propensi a guardarci alle spalle.
Poco propensi a guardare, per esempio, alla Spagna. Ai nostri occhi certo più
indietro rispetto a noi dal punto di vista del gusto, della capacità
di proporre o intercettare rapidamente i trend della moda. E anche dal punto
di vista dei modelli di business.
Difficile accettare di prendere lezioni in questo dalla Spagna. Eppure dovremmo.
Perché la Spagna, anzi da un’area periferica della Spagna, la Galizia,
ci propone un modello che mette in crisi le nostre residue certezze.
Amancio Ortega, figlio di un ferroviere, nasce nel ’36. A 14 anni consegna
a domicilio i prodotti della camiceria Gala, una delle più rinomate di
La Coruña. Presto si sposta alla merceria La Maja, dove già lavora
la sorella Josefa, e dove conosce la futura moglie Rosalía. Amancio osserva
che molte potenziali clienti non possono permettersi un certo tipo di vestaglia.
E si rende conto che –fondandosi su solide conoscenze, e su un ciclo controllato
in ogni dettaglio– è possibile produrre, distribuire e vendere
un modello simile, a basso costo.
E’ l’idea attorno alla quale Ortega costruirà il suo successo.
Il primo negozio Zara apre i battenti a La Coruña nel 1975. Alla fine
dell’ottobre scorso sono 1.818, in tutto il mondo. Ma non muta il modello,
verticale e strettamente integrato, che ha oggi il cuore e il cervello nell’unico,
grande centro logistico di Arteixo, nei pressi di La Coruña.
Nato dall’incontro tra un sapere pratico ed una vision, il modello Zara
emerge e si afferma a prescindere da ciò che sta scritto nei manuali
di management.
Il settore della confezione e dell’abbigliamento di prezzo medio-basso
è maturo. Bassi margini, competizione accesa. Secondo i manuali si dovrebbe
‘mungere la vacca’, utilizzando i flussi di cassa per investire
in altri settori. Zara invece continua, con successo, ad investire nel ramo.
Non solo in nuovi punti di vendita, ma anche e sopratutto in logistica, in organizzazione,
in tecnologie.
Gi investimenti sono tesi al miglioramento della fondamentale caratteristica
distintiva: rapida risposta agli stimoli del mercato, brevissimi cicli di produzione,
continuo rinnovo dell’assortimento, veloce rotazione sul punto vendita.
Il gusto si evolve di giorno in giorno, le tendenze sono frutto del genio dei
grandi stilisti, ma anche di comportamenti emergenti dal basso, frutto dell’inventiva
di chi gli abiti li indossa. Le rituali presentazioni semestrali delle collezioni,
il riassortimento stagionale dei negozi appaiono tardivi a chi interpreta la
moda come un gioco, e prova piacere a cambiare di frequente il proprio look.
Zara risponde a questa domanda con la promessa di articoli nuovi ogni settimana,
in ogni negozio del mondo. Dall’idea di un nuovo articolo alla sua presenza
sul punto vendita trascorrono dieci, quindici giorni. Nessun competitore è
lontanamente in grado di avvicinarsi a questa velocità di risposta.
Zara non fa pubblicità: con decine di migliaia di articoli disegnati
ogni anno, con un time to market così breve il tradizionale advertising
è impossibile, ma anche inutile: non serve fotografare il prodotto, presentarlo
sulle riviste di moda. Serve invece raccogliere in tempo reale, attraverso un
adeguato sistema informativo, le evoluzioni dei gusti dei consumatori per come
si manifestano sul punto vendita. Servono stilisti capaci di fare ‘cool
hunting’, capaci di scovare precocemente i trend e di tradurli rapidamente
in scelta dei tessuti ed in disegno. Servono stabilimenti flessibili e logistica
veloce.
I competitori confezionano dovunque, nel Magreb o in Romania o nel Bangladesh,
o in Estremo Oriente. Zara concentra la produzione in Galizia e nel nord della
Spagna. Lavora anche con fabbriche della zona, ma produce in fabbriche proprie
oltre il 60%. I negozi sono tutti di proprietà.
Zara è il marchio più noto, la punta di diamante, ma alle spalle
c’è Inditex, gruppo quotato in borsa dal 2001, in costante crescita,
attivo in tutte le fasi del ciclo del tessile e dell’abbigliamento. Amancio
Ortega, oggi lo spagnolo più ricco, resta saldamente al comando. Fedele
a sé stesso, gran lavoratore, schivo, lontano dai media e dalla politica,
quasi invisibile. Di lui è disponibile una sola fotografia.
Wal-Mart: se la Bestia di Bentonville
arriva in Italia
Parigi nella seconda metà del 1800. Si aprono i grandi boulevard, si
lavora alla metropolitana, si inaugurano le gallerie coperte, luogo di passeggio
e di shopping. Nel 1852 Aristide Boucicaut entra al Bon Marché
come socio di M. Videau. Sotto il suo impulso la vecchia merceria all’angolo
tra rue Sèvres e rue du Bac, che dava lavoro a una dozzina di commessi,
si trasforma nel primo Grande Magazzino. Il volume d’affari cresce esponenzialmente:
450.000 franchi nel 1852; 5 milioni nel 1860; 7 milioni nel 1863; 21 milioni
nel 1869; 67 milioni nel 1877; 80 milioni nel 1882; 123 nel 1888. Il 2 aprile
1872 si era inaugurato il nuovo maestoso edificio, che abbraccia l’intero
isolato delimitato da rue Bac, rue de Sèvres, rue de Babilonie, rue Velpeau.
Meglio di qualsiasi guru del management, Zola racconta la vicenda e descrive
la strategia in un romanzo, Au bonheur des dames, 1883 (in italiano
Il Paradiso delle signore): vendere di tutto in un unico luogo, vera e
propria ‘cattedrale del consumo’, “vendere al massimo buon
mercato permette di “vendere molto, e il vendere molto consente l'ottimo
prezzo”. Il produttore di tessuti si vede imporre i prezzi dal buyer;
“non arriva a guadagnare neppure venti centesimi; ma intanto fa andare
i telai”. Conclude Zola: “La guerra era vinta; frantumato il commercio
al minuto”.
Saltiamo al giorno d’oggi. 256.000 milioni di dollari di fatturato, più
di Exxon Mobil, di General Motor, di General Eelctric. Una cifra simile al PIL
della Svizzera. Nemmeno un immaginario competitore che sommasse le forze degli
altri leader della distribuzione statunitense -Sears, Targer, J. C. Penney,
Safeway, Kroger- raggiungerebbe le dimensioni e la massa d’urto di Wal-Mart.
Di gran lunga il leader del mercato mondiale del retail.
Come si è arrivati a tanto? Wal-Mart compare a Rogers (Arkansas) nel
1962, non a caso lo stesso anno che vede nascere anche Kmart, Woolworth e altri
operatori dediti alla strategia dei prezzi scontati. Ma nessuno percorre questa
via con la pervicacia e la durezza e l’estrema coerenza di Wal-Mart. Always
low prices. Always, lo stesso motto che guidava le scelte di Sam
Walton, il fondatore, sta alla base delle scelte del management di oggi.
Allora Sam Walton aveva 44 anni. Nato in un piccolo centro dell’Oklahoma,
sud conservatore e religioso, aveva fatto lo strillone, aveva venduto libri
porta a porta e hamburger. Per lui i prezzi bassi, sempre più bassi,
sono più che una filosofia, sono una missione: una benedizione per il
popolo, un richiamo alle virtù del risparmio. Nessuno aveva conosciuto
il suo volto fin quando, nel 1985, Forbes lo celebrò come uomo
più ricco del paese. “Ribasseremo il costo della vita per tutti,
non solo in America; daremo al mondo l’opportunità di poter risparmiare
e di raggiungere un futuro migliore per tutti”, afferma nel 1992, quando,
pochi mesi prima di morire, viene insignito da Bush senior con la Medaglia della
Libertà.
Difficile Walton lo sapesse, ma sono proprio le stesse parole che Zola fa dire
a Octave Mouret, il fondatore dei grandi magazzini Au bonheur des dames.
Le intenzioni sono, cediamo, sincere. Alla Wal-Mart i dipendenti sono chiamati
‘associati’. In ogni negozio si è accolti da un people
greeter, che ricalca i comportamenti del vecchio negoziante di quartiere:
consiglia, chiacchiera, ricorda il nome dei clienti fedeli.
E’ l’etica rigorosa, ma contraddittoria, che guida ancora oggi le
azioni di Rob Walton e dei suoi manager. Sam non apriva i negozi la domenica,
e si rifiutava, nei primi anni, di vendere bevande alcoliche. Oggi si vende
ogni tipo di superalcolico, e si sta allargando l’orario di apertura a
24 su 24, 7 giorni su 7. E ancora oggi non si vendono riviste pornografiche,
e si impongono copertine speciali, più caste, a riviste e cd, e si sostiene
la vendita di libri religiosi. Ma allo stesso si è leader nella vendita
di armi.
Negli anni novanta, con una famosa campagna nazionalista, Wal-Mart si fa paladina
del Buy America. Ma poi ha progressivamente incrementato gli acquisti
nei paesi asiatici: in Bangladesh, in India, in Indonesia, in Cina (oggi il
10% delle importazioni statunitensi dalla Cina sono opera di Wal-Mart).
Prezzi sempre più bassi: una spirale per certi aspetti virtuosa, la grandemente
rischiosa. Impossibile fermarsi. Margini sempre ridotti e tempi di consegna
sempre più brevi sono invariabilmente annunciati ai fornitori ad ognuna
delle due convention annuali (dette “i nidi dei serpenti”). Anche
i marchi importanti si devono adeguare. Un paio di jeans Levi’s si vende
a 30 dollari nei negozi Levi’s, e a 20 da Wal-Mart.
E bassi salari. (Ovvia la battuta: ‘Da Wal-Mart si può comprare
qualsiasi cosa. Ma a una condizione: non lavorare alla Wal-Mart). Siccome ai
bassi salari si aggiunge il divieto ad iscriversi al sindacato, ecco apparire
un’altra contraddizione. Wal-Mart incontra difficoltà ad insediarsi
nelle regioni degli States dove il sindacato è più radicato. Ma
ha difficoltà con i sindacati e con le normative sul lavoro anche in
altri paesi, ad esempio in Germania e in Cina.
Eppure, la crescita continua. Attualmente, 100 milioni di clienti alla settimana,
5.000 punti di vendita di cui 1.300 fuori dagli States, in una decina di paesi.
Leader della distribuzione in Messico, con oltre 600 punti vendita, e in Canada.
Wal-Mart è entrata sul mercato giapponese nel 2002 con l’acquisto
di una quota di Seiyu; ed è ora all’attacco in Europa. In Germania
ha comprato le catene Wertkauf e Interspar; nel Regno Unito ha assorbito ASDA.
Infaticabile voracità che ha meritato a Wal-Mart l’appellativo
di “Bestia di Bentonville”. Bentonville: città dell’Arkansas
dove ha sede l’impresa, simboleggiata dal suo centro logistico e informatico,
che non ha pari al mondo.
Le enormi dimensioni e la schiacciante forza del modello di business, dunque,
portano con se un triplice rischio.
L’annullamento della diversità. I competitori sono costretti
a lottare sullo stesso terreno: nuovi e più grandi punti di vendita,
prezzi più bassi, incremento del giro di affari. Così Tesco nel
Regno Unito, e così il Bailian Group in Cina, recente fusione dei due
principali retailer, Lianhua e Huilan.
L’impossibilità di rallentare la corsa. La corsa di Wal-Mart
non può fermarsi, pena il crollo. Ecco quindi accreditate voci di interessamento
per Esselunga in Italia, Carrefour e Auchan in Francia, Daiei o Aeon in Giappone.
E sotto osservazione –abitudini di consumo, sistemi logistici, punti di
distribuzione- il mercato russo.
L’intrinseca debolezza dei grandi sistemi. Le enormi dimensioni
e la rigidità del modello sono pericolose. In queste condizioni basta
un granello di sabbia; un singolo evento inatteso può generare, a cascata,
effetti catastrofici. Così da un lato Wal-Mart annuncia che la sua politica
espansiva prevede l’assunzione di 800.000 persone nei prossimi dieci anni.
Ma dall’altro la grande casa è citata in giudizio da sei impiegate,
con l’accusa di discriminazione salariale nei confronti di 1.500.000 lavoratrici.
La causa tiene col fiato sospeso gli analisti.
Tata: la sfida indiana e un
nuovo concetto di ‘automobile’
La sfida cinese è al centro dei nostri timori: come competere con un
gigante che cresce ad un ritmo del 9% o più all’anno, che gode
di un enorme mercato interno ancora tutto da sfruttare, che attrae capitali,
che offre costi di mano d’opera e quindi servizi di manifattura a costi
incomparabilmente più bassi dei nostri.
Ma forse, anche per ragionare su come competere con la Cina, giova soffermarsi
sullo sviluppo ugualmente vorticoso dell’altro gigante asiatico.
L’India, rispetto a molti indicatori, manifesta un tasso di crescita paragonabile
a quello cinese. Ma si muove in base ad un modello totalmente diverso. La Cina
si è mossa lungo la tradizionale strada dello sviluppo attraverso la
manifattura. Da manifattura a basso valore aggiunto e non specializzata, dove
contano innanzitutto, o solo, i volumi ed i costi, verso produzioni sempre più
raffinate e tecnologicamente impegnative. L’India, al contrario, ha generato
ricchezza attraverso attività di ‘new economy’: software,
tecnologie avanzate, servizi connessi. L’‘accumulazione originaria
di capitale’, motore dello sviluppo indiano, sta in attività già
in origine tecnologicamente avanzate. Una via allo sviluppo mai percorsa prima,
diversa anche dal cammino percorso a suo tempo dal Giappone. Il Giappone aveva
saputo sviluppare modelli organizzativi snelli e aveva intercettato flussi di
domanda –elettronica di consumo, automobili–. Il Knowledge Management
–il passaggio dalla ricerca di base alla tecnologia di produzione–
era sostenuto dal MITI, il Ministero per il Commercio estero e lo sviluppo,
ed era orientato verso conoscenze utili per la manifattura: manifattura sofisticata,
di alta qualità, ma sempre manifattura.
L’India si muove su un piano diverso: Knowledge come conoscenza pura,
software, asset intangibili prima che asset tangibili. Con costi più
bassi e capacità specifiche più alte, anche perché rinforzate
dalla cultura, ha i migliori knowledge worker del mondo. Ha così sostituito
nel trainare l’Information & Communication Technology la californiana
Silicon Valley.
Produce e vende innanzitutto ‘capitale intellettuale’. Così
che dal punto di vista del potenziale, della disponibilità di
cervelli e di idee per l’economia di domani, l’India non ha rivali.
Ci si può ragionevolmente chiedere: come si innesterà la manifattura
su questa così ricca base?
Ecco un esempio. Interessante perché riguarda un settore maturo, dove
domina la competizione globale fondata sui costi e dove si combatte con la tendenziale
sovrapproduzione. Pensiamo al settore automobilistico.
In questo settore l’India sta progredendo, secondo modalità tradizionali.
Appartiene già al ristretto club di mercati che acquistano oltre un milione
di auto all’anno (insieme a Giappone, Stati Uniti, Francia, Germania,
Spagna, Corea del Sud, Brasile, Cina). Il segmento low price vede primeggiare,
con l’indiana Maruti, la coreana Hyundai, la giapponese Suzuki.
Ma ecco il progetto ‘diverso’.
Tata Group è una conglomerata a conduzione familiare, che festeggia i
cento anni, e che spazia dalle piantagioni di thé alle telecomunicazioni,
dalla siderurgia alle costruzioni navali, dalle attività edili al turismo
alberghiero ed alla grande distribuzione. Senza trascurare l’informatica
e, ora, anche le biotecnologie. E naturalmente l’auto.
Ecco ora la sfida, considerata impossibile dai concorrenti. E considerata allo
stesso tempo –anche per le sue implicazioni simboliche– un punto
di svolta nello sviluppo del paese. Pensate agli enormi divari socioeconomici
che caratterizzano l’India, pensate al reddito di una famiglia che vive
nella campagna. Pensate all’impatto di un’auto messa in vendita
a 100.000 rupie, qualcosa come 1.600 euro.
Un veicolo certo lontano dagli standard occidentali, ammette Ratan Tata. Ma
“It will look like a car and have proper seating-stretched canvas seats
would not, for example, be acceptable. It would be all right for it to be a
bit more noisy than an ordinary car, but it has to be both simple and safe”.
Ora, produrre un auto siffatta richiede un progetto originale e raffinato, che
butti a mare le assodate convinzioni di chi è nato e cresciuto all’interno
del settore automotive. Infatti, non mancano di affermare la Maruti, l’
Hyundai, la Suzuki, quelli della Tata non ce la faranno mai. Ma ormai è
una scommessa, sulla quale la Tata si gioca una parte significativa della sua
immagine.
Si dovranno utilizzare, in parte, componenti che si rifanno più alla
cultura dell’industria motociclistica che a quella dell’industria
automobilistica. Ma soprattutto si dovrà organizzare il processo in modo
nuovo, facendo largo ricorso al contributo del software per tenere insieme un
ciclo produttivo largamente decentrato. I componenti –tutti di produzione
indiana– saranno prodotti in stabilimenti diversi. L’assemblaggio
sarà realizzato i diversi stabilimenti distribuiti nel paese, vicino
ai luoghi di vendita, utilizzando mano d’opera locale.
Si pensa, oltre che al mercato nazionale, a Vietnam, Malaysia, Indonesia. Ma
ciò che è interessante sottolineare è la qualità
culturale ed il valore strategico del progetto: coniugare sofisticati modelli
produttivi basati sul software con la manifattura di massa; e soprattutto: usare
il ‘capitale intellettuale’ per far crescere un modello di sviluppo
non imitativo.
Se si investe in conoscenza, si può forse evitare di subire passivamente
gli effetti della globalizzazione.
SenseCam Microsoft: A chi affidiamo
la nostra memoria
Un ciondolo da portare al collo, o alla cintura. Spara fotogrammi di ogni nostro
istante di esistenza.
La SenseCam, registratore audio-video dalle dimensioni di una carta di credito,
è in grado di scattare fino a 2.000 fotografie ogni 12 ore, entra in
azione in seguito a una programmazione legata alla data e all’ora, ma
anche in base ad impulsi esterni: cambio di luce, di temperatura, o anche differenti
posture o gesti delle persone nei paraggi.
Poi, tornati a casa, si collega la SenseCam al computer e si scarica il materiale
registrato. In modo da creare una memoria digitale per immagini di tutte le
nostre giornate. E, giorno dopo giorno, della nostra intera esistenza.
Chi ha avuto modo di usare l’aggeggio, dice che funziona benissimo.
Ma non è finita: il prossimo passo sarà quello di ‘insegnare’
alla SenseCam a scattare foto non solo al cambio di parametri esterni, ma anche
al mutra degli atteggiamenti della persona: per esempio, la variazione dei battiti
cardiaci, della frequenza respiratoria, della temperatura corporea e altro.
In questo modo, dicono i ricercatori della Microsoft, la macchina si accorgerà
da sola dei momenti più emozionanti della nostra vita, e allora inizierà
a scattare.
Andando ancora oltre, si studia di sostituire la macchina fotografica con una
telecamera.
In un futuro più lontano (ma non lontanissimo) si arriverà a individuare
e memorizzare perfino gli odori che sentiamo, in modo da rivivere le esperienze
in modo ancora più intenso.
Il nuovo dispositivo, appena uscita dai laboratori della Microsoft di Cambridge,
frutto di un gruppo di lavoro capeggiato dalla ricercatrice Lyndsay Williams
(laureata in Biomedical Electronics, creatrice nel 1987 della prima scheda audio
per Personal Computer) “consentirà a chiunque di registrare ogni
momento della propria vita” ha dichiarato Lyndsay Williams, “consentendo
alle future generazioni di ricordare gli attimi più significativi dei
propri antenati”.
Lyndsay Williams la considera “la prima ‘scatola nera’ del
corpo umano”. Lo strumento che permetterà di costruire l’archivio
digitale della quotidianità degli uomini del ventunesimo secolo.
Precisa un altro tecnico Microsoft, Gordon Bell: “significa avere una
esatta percezione di ciò che i tuoi genitori o figli hanno fatto durante
la giornata. I miei discendenti potranno conoscermi come non era mai stato possibile
in passato”. E Ken Wood, responsabile dei progetti di interazione tra
uomo e computer e di comunicazione multimediale aggiunge: “ti consente
di rivivere tutta la tua vita, quando vuoi. Ed eventualmente di condividere
con qualcun altro le tue esperienze".
Ancora all’interno dei laboratori Microsoft troviamo altro. C’è
una strategia ben precisa, di cui la SenseCam è solo uno degli ultimi
tasselli. Jim Gemmell, un altro ricercatore, sta lavorando a MyLifeBits: trasportare
su computer non solo i nostri ricordi, ma anche il nostro lavoro, la musica
che ascoltiamo, le conversazioni telefoniche, le pagine preferite dei libri
preferiti, gli appunti di viaggio, i programmi radiofonici e televisivi preferiti,
la rete di amicizie.
Portati sul computer anche questi pezzi di vita prima affidati alla nostra mente,
a conversazioni, a pezzi di carta, a compact disk, a telefonate, o a qualsiasi
altro supporto, tutta la nostra vita sarà conservata dalla macchina.
Perché contemporaneamente il computer conserva ogni cosa che abbiamo
scritto, ogni mail spedita e ricevuta, ogni pagina web visitata.
Dove sta il problema?
Vannevar Bush, un visionario e anticipatore ricercatore, aveva immaginato qualcosa
di simile quando ancora non esistevano i computer, alla metà degli anni
’40. Poi il Personal Computer e il Web ci hanno sempre più avvicinato
a questo luogo utopico dove ogni traccia di vita, ogni traccia di conoscenza,
può essere conservata e gestita e organizzata, in una enorme rete che
tutti e tutto abbraccia. La visione di una rete omnicomprensiva di conoscenze,
e di memoria, di cui ognuno di noi fa parte, potrà sorprenderci e risultare
difficile da accettare, ma non ha motivo di apparirci, di per sé, minacciosa.
Ognuno resta libero di dimenticare, e in cambio ha a disposizione più
conoscenze – perciò, è più ricco.
Allora, appunto, dove sta il problema? Il problema, credetemi, è Bill
Gates.
Non c’è da meravigliarsi se, come dicono, quando ha visto funzionare
la SenseCam si è entusiasmato. Un tassello in più del suo disegno
è andato a posto.
Nella visione gatesiana delle cose, la vita affettiva e lavorativa di ogni persona;
e la soluzione dei problemi economici, e politici di ogni stato; e l’organizzazione
di ogni impresa; e il funzionamento strategici e logistici di ogni esercito
– tutto deve fondarsi sull’uso software Microsoft, di codice sul
quale Bill Gates vanta diritti di proprietà.
Il problema è che la SenseCam funziona secondo standard Microsoft.
La differenza tra uno standard proprietario e un protocollo magari meno evoluto,
ma aperto, pubblico, è abissale. Il protocollo si fonda sul consenso,
sull’interesse condiviso a godere di punti di riferimento comuni. Lo standard
proprietario, anche quando fosse accessibile gratuitamente, è la gentile
concessione del sovrano, sempre revocabile e modificabile. Non possiamo e non
dobbiamo affidare la nostra memoria all’onestà e alla correttezza
di Bill Gates.