BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 24/11/2008

SERVE UN ALBO O UN ORDINE PER I MANAGER? ASSOLUTAMENTE NO

di Lauro Venturi

L’ultimo numero di Harvard Business Review Italia (11/2008) è dedicato interamente alla professione del manager. Tra gli altri articoli spicca quello di Rakesh Kurana e Nitin Noria, entrambi docenti della Harvard  Business School. Il titolo non lascia molti dubbi: “E’ ora che il management diventi una professione”.
Gli autori partono dalla innegabile constatazione che i manager perdono costantemente legittimazione a fronte del crollo della fiducia nelle imprese, soprattutto per i casi eclatanti come Enron, e non solo.
Mi verrebbe da dire che ci sono non pochi distinguo tra la realtà di immense aziende multinazionali e la miriade di piccole e medie imprese che probabilmente, invece, sono ancora considerate come produttrici di valore non solo per gli azionisti ma anche per la comunità ospitante: ma è un altro argomento.
Mi verrebbe anche da dire che occorre distinguere tra alcune centinaia di manager super pagati come calciatori o personaggi dello spettacolo e migliaia di manager che invece operano davvero per creare valore con un quotidiano lavoro di decisioni, assunzione di rischi, piani di sviluppo intrisi di visione a lungo termine e concretezza giornaliera. Ma anche questo è un altro discorso.
Nell’articolo viene suggerito che i manager non si focalizzino solamente sulla massimizzazione del valore per gli azionisti, operando invece per rendere virtuosa la relazione con tutti gli stakeholder, E su questo, nel mio caso sfondano una porta aperta: orientamento al business e sincero interesse per le persone non sono obiettivi contrapposti, bensì due elementi che si mettono virtuosamente in circolo.
La mia esperienza mi porta a dire che essere corretti e trattare bene le persone non è solo una cosa buona e giusta (che comunque non guasta in questo mondo un po’ troppo cinico, che oscilla tra depressione ed aggressività), serve anche per creare un risultato sostenibile nel tempo, che non sia solo orientato alla speculativa e compulsiva valutazione delle trimestrali.
Poi però gli autori propongono una soluzione che non mi convince, e cioè che occorra anche per il management un sistema di codici che dovrebbero dare vita ad un contratto implicito con la società. Si fanno espliciti riferimenti agli ordini dei medici e degli avvocati, per intenderci.
A mio parere gli albi tendono quasi geneticamente a chiudersi in se stessi, a difendersi, più che ad aprirsi.
C’è sicuramente bisogno di una superiore qualità del management, soprattutto per ciò che attiene il “saper essere”. I comportamenti devono essere coerenti e rispettosi con la cultura aziendale e con ciò che si dichiara. Per diffondere questo concetto di “responsabilità” non servono codici o albi. Occorre un intimo convincimento di ognuno di noi, occorre mantenere vivo un confronto su questi argomenti, creare occasioni di discussione e di incontro, scriverne, parlarne, confrontarsi. Quello che serve, a mio avviso, è un immane lavoro di presa di coscienza, all’interno di una cornice che rappresenti l’ossessione per una classe dirigente di qualità, e non una casta di privilegiati. Servono cultura  e qualità personale, non leggi e regolamenti.
La rivista pone infine otto domande ai lettori, aprendo così un forum che mi sembra interessante. Di seguito riporto le mie risposte, come contributo a questa discussione che, pur risentendo dell’urgenza (così come dopo tangentopoli si iniziò a parlare dell’etica del management, oggi pare ci si debba rifare una verginità alla luce dello sconquasso finanziario mondiale), può essere utile.

  1. Siete d’accordo con l’affermazione che nell’ultimo decennio il business e il management delle aziende hanno perso fiducia e legittimità presso l’opinione pubblica, a causa di eventi quali Enron e Parmalat, e in seguito anche alla disastrosa gestione della recente crisi finanziaria?

Assolutamente d’accordo. I manager fanno parte della cosiddetta classe dirigente e quindi sono tenuti a comportamenti virtuosi, soprattutto con l’esempio. Purtroppo, per casi particolari (tra i quali inserirei anche alcuni presidenti delle ferrovie italiane o della nostra compagnia aerea) tutta la categoria viene messa alla gogna, così che manager diventa sinonimo di maneggione.

  1. Gli autori suggeriscono che, per riconquistare la fiducia persa, i leader aziendali dovrebbero porsi obiettivi che non si limitino a massimizzare il valore per gli azionisti, ma puntino a soddisfare i più ampi interessi dei diversi stakeholder. Siete d’accordo?

Sì. Nel mio libro L’educazione sentimentale del manager (Guerini 2005) la seconda parte si intitola “orientamento al business e sincero interesse per le persone”, proprio per evidenziare la necessità di non mettere in contrapposizione i profitti con le regole del gioco ed i valori. Sono convinto, ed ho evidenze, che non si tratti di un solo aspetto morale o “filantropico”, ma che alla fine i comportamenti non etici dei manager danneggino l’azienda rendendola sorda e cinica.

  1. Ritenete opportuno che i manager si dotino di un organo di autogoverno (un albo, un ordine) con specifici criteri di ammissione, che vigili sulla condotta dei membri, come nel caso di medici e avvocati?

Assolutamente no: I medici della clinica Santa Rita, ad esempio,  hanno giurato sulle parole di Ippocrate, ma ciò nonostante facevano interventi non necessari. Gli ordini e gli albi  ingessano le professioni, ho studiato per diventare counselor e vedo ancora discussioni infinite con l’ordine degli psicologi per stabilire paletti più o meno rigidi. Il manager ha già la sua associazione dei dirigenti, non ne servono altre.

  1. Ritenete opportuno che tale albo o ordine dei manager abbia il compito di fissare e fare rispettare dei requisiti professionali minimi a garanzia delle aziende e degli stakeholder?

No, sarà il board a valutare le performance del direttore generale e degli altri manager. Una leva di competizione ancora valida, vividdio, è la differenziazione e quindi spetta al mercato stabilire chi è o non è un bravo manager. Nel caso di aziende pubbliche occorre semmai un controllo più serio sui risultati.      

  1. La professione dei manager dovrebbe prevedere percorsi di formazione specifici e predisposti, oltre a successivi momenti di aggiornamento periodico obbligatori?

Assolutamente sì, le conoscenze evaporano con una velocità sorprendente. Per questa ragione un’azienda seria prevede programmi di formazione non estemporanei ma legati alle principali sfide da affrontare, spaziando anche in territori che possono sembrare distanti. Partecipai ad interessanti lezioni proposte da Istud, definite Analogie, che mi hanno arricchito e insegnato cose che ancora mi servono come riferimento. Obbligatori o no lo deve fissare l’azienda.

  1. Ritenete che un codice deontologico quale quello ipotizzato nell’articolo possa essere sufficiente a garantire la professionalità e l’etica del management, che sia del tutto inutile o, al contrario, del tutto insoddisfacente?

Nemmeno per sogno. Sono principi di buon senso, che non sono inutili, ma vanno considerati come spunti. La questione centrale attiene alle modalità di selezione e di carriera dei manager ed ai valori e alla cultura aziendali. In Enron, mi pare, c’era una straordinaria carta dei valori nella quale le parole “etica” ed “integrità” erano ripetute diverse volte. Se però si premiano solo i risultati delle trimestrali, allora tra il dire e il fare…altroché il mare!

  1. Siete d’accordo con chi sostiene che la professione del manager non si apprende nelle università, nei master e nelle business school ma, al contrario, si fondi essenzialmente sull’esperienza?

No, una preparazione di base è fondamentale. Certo, non è sufficiente, ma la sola esperienza è del tutto insufficiente in contesti turbolenti ed incerti come quelli che da anni attraversiamo. L’esperienza rischia di farci vedere le cose nuove come evoluzione di quelle vecchie, ma non è così. Certo, learning by doing vale sempre, ma non c’è nulla di più pratico di una buona teoria: credo nel modello blended, esperienza e studio costante creano il vero circolo virtuoso.

  1. Condividete il timore che un’educazione formalizzata dei manager ne potrebbe deprimere la creatività?

No. L’educazione formalizzata è come offrire a tutti lo stesso set di utensili, poi ognuno li utilizza a suo modo. Stessi attrezzi, stesse materie prime, stesse scuole, non significano sculture tutte uguali. Creatività e razionalità, locale e globale, breve e lungo termine non sono da contrapporre, ma da integrare.

Pagina precedente

Indice dei contributi