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La Foxconn è qui. Ovvero il luogo della fabbrica e gli inganni dell’esternalizzazione

di Francesco Varanini 20 Marzo 2012

Laggiù, in un luogo lontano, in uno stabilimento cinese, abbiamo esportato la fabbrica. Mentre da noi licenziamo, innanzitutto chi lavora in fabbrica, ed ogni posto di lavoro salvato, ed eventualmente creato, appare un successo ai sindacati, e anche a chi, lavorando alla Direzione del Personale, continua ad avere a cuore la vita delle persone, mentre ci sentiamo comunque soddisfatti per tutto questo, in Cina, negli stabilimenti Foxconn -lì dove si fabbricano l’iPhone e l’iPad Apple, l’Amazon Kindle, la PlayStation 3 Sony, l’Xbox 360 Microsoft, il Wii Ninitendo- appare normale l’obiettivo di passare da un milione di dipendenti a un milione e trecentomila.
Mentre noi ci balocchiamo discutendo se e come allargare a una più ampia popolazione i diritti acquisiti da una parte dei lavoratori, oppure se, per raggiungere un più alto livello di diritti per tutti, è opportuno abbassare la soglia dei diritti di coloro che oggi, nei fatti, appaiono rispetto agli alti privilegiati, mentre noi discutiamo in pubblico e in privato, in azienda e nelle sedi della contrattazione o anche in Parlamento o nel Governo o nei salotti televisivi, lasciamo nei fatti che le fabbriche si spostino altrove. In un altrove dove i diritti riconosciuti ai lavoratori sono notevolmente inferiori ai diritti riconosciuti da noi.
Dico altrove, prima che dire in Cina. Il punto è che ciò che conta sembra essere ‘esternalizzare’.
Nel luogo dove vivo, immerso nel mio mondo, vivo una realtà che mi pesa, sono oppresso da tutto quello che so, da quello che non posso fare a meno di vedere. Meglio perciò collocare lontano da noi ciò che ci pare difficile da gestire. In quei luoghi lontani vengono spesso oggi esternalizzati– ‘portati fuori’, lontano da qui- la produzione ed il lavoro.
L’idea che ci sia un qualche legame tra il luogo dove si produce e la qualità è negata. Gli stabilimenti possono essere senza problemi lontani. Di volta in volta la fabbrica può essere in in Romania o in Serbia, in Bangladesh o in Cina.
Leggo sul corpo del mio iPhone, fabbricato in uno stabilimento Foxconn: “Designed by Apple in California Assembled in China”.Un tempo su ogni oggetto, su ogni cosa fabbricata, leggevamo: made in. Oggi il fare è sfaldato in fasi di lavorazione che si svolgono in luoghi diversi, tanto che non può più dirsi con precisione il dove. Più che ad un luogo di produzione, si deve ormai guardare alla supply chain- la catena di fornitura, la filiera, la rete dell’indotto, l’insieme dei subcontractor. Diversi termini descrivono in inglese questa costante spostamento della produzione verso luoghi via via più convenienti: relocation, offshoring, outsourcing. Ma il termine centrale è delocalization (o delocalisation). Una definizione di cui si apprezza la chiarezza è proposta dall’UNIDO (United Nations Industrial Development Organisation). “Delocalisation refers to a geographical movement or transfer of productive activities, as a result essentially of a more advantageous cost price”.
Possiamo cogliere un’intima contraddizione tra questo “geographical movement or transfer” e l’idea stessa della fabbrica, che necessariamente sta in un posto preciso, perché lì stanno le persone e gli impianti. Impiantare: in origine: ‘piantare’, conficcare’; si ricordi l’inglese plant, ‘pianta, ma anche ‘impianto’, ‘stabilimento’ .
Il senso sta nella radice indoeuropea stha-: ‘stare in piedi’. Status: ‘atto dello stare fermo’. Statione: ‘stare fermo’, e quindi il ‘luogo’, il ‘posto’, da cui sia la stagione, il ‘fermarsi in un luogo’ che la stazione, il ‘luogo di sosta’. Di qui non a caso anche stabilimentum, in origine ‘appoggio’, ‘sostegno’.
Questo stare, con la sua inequivocabile fermezza, sembra fornirci un appiglio di fronte all’impossibilità di definire il luogo. Tanto che qualcuno vuole far discendere il latino locus, attraverso un preteso antico latino stlocus, dalla stessa radice stha-. Le fonti più accreditate, però, dichiarano di non saper ricostruire l’origine del latino locus, così come l’origine del greco tópos.
Per definire l’esperienza del consumatore -che trascorre il tempo in centri commerciali, luoghi virtuali, metafisici, privi di collocazione culturalmente percepibile-, l’etnologo Marc Augé ha coniato l’espressione non luoghi. Analogamente, a maggior motivo, possiamo dire che la produzione delocalizzata non si svolge altrove, in un ‘altro luogo’, ma si svolge invece in un non luogo.
C’è una idea già ben espressa dal senso originario di industria: endo- ‘all’interno’, ‘di nascosto’, -struos, ‘costruito in profondità’. L’industria, è un luogo nascosto, non importa che appaia, ed anzi è meglio che non appaia. Ciò che sembra contare, ciò che deve essere visto è il lusso delle show room. Ma le fabbriche sono allontanate dal nostro sguardo. Di volta in volta, possiamo dire, le fabbriche sono portate lontano sono portate lontane da ogni sguardo critico. C’è una tendenza a portarle dove non possono essere viste.
Ma è troppo facile seguire l’onda di una tendenza, pur diffusa a livello planetario. Possiamo sempre rovesciare il discorso e dire: siamo noi, è ognuno di noi che che non sa, non vuole vedere la bellezza della fabbrica. Siamo noi, è ognuno di noi che preferisce dimenticare la centralità della produzione.Esternalizzare le fabbriche, allontanarle dai nostri occhi, portare tutti ad immaginare che le fabbriche operino in un non luogo è la strategia più semplice ed efficace a disposizione di chi pratica la politica dell’estrazione di valore. Fabbriche lontane, fabbriche invisibili fanno comodo a chi considera le imprese produttive vacche da mungere a favore della finanza speculativa.
Perciò, chiunque consideri che l’etica risiede nell’attenzione alla costruzione, e non alla mera estrazione del valore, dovrebbe avere a cuore ciò che accade in fabbrica. In quei luoghi dove, in realtà, il valore si crea.
Chi ha interesse a concentrare la produzione dei devices Apple negli stabilimenti cinesi della Foxconn, non sono i clienti Apple, né i lavoratori Apple. Né si può sostenere il fatto che i devices siano prodotti in Cina aiuti la Apple a garantire il proprio futuro.
E’ ben vero che gli stabilimenti Foxconn offrono una flessibilità che nessuno stabilimento americano o europe è oggi in grado di offrire. Ma ciò non toglie che tra i motivi che spingono a produrre i devices in Cina abbia un posto importante la necessità di soddisfare i crescenti appetiti del mercato finanziario. Insomma, trae vantaggio dall’esternalizzazione della produzione il titolo di borsa Apple molto più dell’azienda Apple e dei clienti Apple. Anche se è prodotto nello stabilimento Foxconn, l’iPhone continua a costare caro, più dei prodotti con cui compete.Il nostro cellulare, nostro palmare, il nostro tablet ci ricordano che il lavoro può essere ridotto a sfruttamento, e che la fabbrica, anche esternalizzata, delocalizzata, collocata più lontano possibile, in un non luogo, è comunque vicina a noi, e ci riguarda.

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