Contributi

L’etica come strumento di gestione. Dal Codice alla Carta, dal controllo all’autocoscienza

di Piero Trupia 22 Luglio 2012

Questo scritto è rivolto a uomini e donne che operano nella pratica, che inevitabilmente è culturalmente ispirata. L’intento è di riapre il discorso dell’etica come discorso razionale.
A partire da un’etica coerente con la cultura europea e con il genius loci italico, è possibile ripensare la gestione dell’impresa. Al management statunitense, tesi ad instaurare un clima emulativo-bellicistico, può essere sostituita con vantaggio una gestione orientata all’emulazione selettiva e alla responsabilità personale,  fondata su una Carta Etica aziendale da tutti condivisa.
Nessuno è escluso dal rispetto delle norme etiche. La responsabilità è però diversa secondo un fattore crescente in proporzione al ruolo. I dirigenti hanno l’obbligo etico di essere in prima linea nella testimonianza dell’impegno etico.

L’etica negli affari

Il dizionario di etica più completo è quello di Monique Danto-Sperber edito da Presses Universitaires de France nel 1996. Sessantatremila e cinquecento voci, millesettecentoventotto pagine. Il documento di un’azienda che ne formalizza l’impegno etico è in media uno smilzo libretto di quindici paginette per cinquemilasettecento battute spazi inclusi. Contiene però qualcosa che nessun dizionario, enciclopedia o trattato contiene, l’anima dell’azienda. Senza questo rispecchiamento, quel documento sarebbe uno scritto generico. In tal caso gli impegni etici più severi e illuminati non potrebbero essere di alcuna rilevanza per la gestione dell’azienda.
È questa la sfida oggi della cosiddetta Etica degli Affari. Non solenni professioni di correttezza, ma impegni miranti a ispirare e, se necessario, correggere, i comportamenti reali di tutta la compagine organizzativa.
L’etica si è manifestata in Italia all’inizio degli anni ’80 con alcune approssimazioni e non pochi equivoci. Il primo equivoco è l’espressione Etica degli Affari.
Il campo in cui entriamo è delicato. È bene quindi essere precisi.
L’impegno e il comportamento etici non possono che essere soggettivi, pertanto non attribuibili agli affari, bensì agli uomini d’affari. Il genitivo di appartenenza degli va quindi sostituito con quello locativo negli. Non gli affari ma il modo di farli, possono o no essere etici.
Non sono dettagli, stante lo statuto incerto per alcuni, labile per altri, semplicemente aperto per me, dell’etica.
Sono convinto che l’etica ha una sua razionalità, diversa da quella degli altri domini cognitivi.
Non che l’etica sia più approssimativa: Lo sono anche le altre discipline, ma solo nell’etica l’impossibile riquadratura del discorso in schemi rigidi è palese, nelle altre è nascosto o non lo si vuole scorgere.
Questo scritto è rivolto a uomini e donne che operano nella pratica, che inevitabilmente è culturalmente ispirata. Avverto che eviterò le note e i riferimenti filologici. Richiamerò le tesi altrui e avvertirò il lettore quando mi capiterà di presentarne di mie.

L’etica come discorso razionale
L’intento è di riapre il discorso dell’etica come scienza o meglio come discorso razionale. Tesi sostenibile, se si rigetta il principio positivista e neopositivista che razionale è solo ciò che può essere empiricamente verificato, il fatto.
Ma il fatto non nasce tale. Ciò che lo fonda è la percezione di qualcosa, una generica esperienza. È necessario un lungo e complesso procedimento di pura razionalità, perché possa essergli conferito lo statuto di ‘fatto’.
Non fu questo il caso dell’evidente esperienza della rotazione del sole intorno alla Terra, della Terra al centro dell’universo, della specie umana unico fine della creazione. Ci sono voluti mille e ottocento anni per accertare il vero stato dei fatti.
Eppure c’era chi aveva visto giusto. Aristarco da Samo (310 – 230 a. C.), prendendo sul serio le idee di Eraclide Pontico (390 – 310 a. C.), andò per forza di ragione oltre l’evidenza empirica e concepì l’eliocentrismo. Fu accusato di empietà e cassato dalla storia della cultura fino al Rinascimento. Altri filosofi e astronomi coevi che andarono oltre le apparenze ebbero guai con la giustizia. Anassagora di Clazemone fu condannato per empietà e salvato dal suo discepolo Pericle che tuttavia non poté opporsi al sentimento comune e democratico dominante.
Cerchiamo ora di accertare il fatto dell’etica.
L’etica è stretta tra le ganasce di una tenaglia. Da un lato, la sociologia. È etico ciò che viene ritenuto giusto, degno, umano da un popolo in un determinato periodo. È una concezione fortemente relativistica che non si concilia con il carattere di assolutezza che all’etica per una lunga tradizione è riconosciuta. Dall’altro lato, il diritto. È etico ciò che non infrange la legge. È stato l’errore di Socrate che si sottomise a un verdetto infondato. A ben guardare voleva però soltanto testimoniare la necessità assoluta di rispettare la legge, mettendo in imbarazzo le autorità che, per uscirne, desideravano la sua fuga.
Ma il gesto socratico fu squisitamente etico: far liberamente valere un principio supremo, il rispetto della legge, su un interesse personale ugualmente supremo, quello di salvare la propria vita.
Specifico dell’etica è la libertà del volere e della decisione personale.
È frequente l’errore del ritenere impraticabile una condotta etica in mancanza di un sistema sanzionatorio dei comportamenti devianti. È questa però una fallacia giuridicistica, quella di assimilare l’etica al diritto. Una fallacia che si è affermata con l’adozione indiscriminata del modello ‘codice etico’.

Strutture di peccato
‘Codice’ è categoria giuridica e nulla ha da spartire con l’etica.
L’origine di questa confusione è nei regolamenti di disciplina militari, detti anche ‘codici d’onore’. L’onore è categoria etica, il codice no; un onore controllato e sanzionato in caso d’inosservanza è un fatto giuridico non etico.
La confusione si è propagata nel mondo aziendale ove si parla esclusivamente di codice etico e nel caso d’inosservanza presunta s’imbastiscono processi interni, destituiti di fondamento etico e giuridico per una procedura priva delle più elementari garanzie.
Detto ciò, resta valido il principio ‘nessuna norma senza sanzione’. La differenza riguarda la natura della sanzione che nel caso dell’etica non può essere irrogata da altri se non dallo stesso trasgressore.
È questa una sanzione inconsistente?
Si può rispondere con una doppia tautologia: è debole se è debole, è forte se è forte. Dipende dal soggetto nella cui coscienza la sanzione prende vita.
Torna utile una categoria elaborata dai due gesuiti Sergio Bastianel e Bartolomeo Sorge, le ‘strutture di peccato’ e, inversamente, quelle di bene, peccato da intendere qui senza connotazione religiosa.
Una cultura sociale che premia la furbizia ed esalta il particulare è una struttura di peccato. In un mondo di furbi la grande maggioranza cerca di essere furba; in un mondo di virtuosi non saranno tutti virtuosi, ma non c’è la necessità di essere furbi per sopravvivere.
Il nostro riferimento è il sistema produttivo industriale, il quale dispone di una buona autonomia organizzativa. Ci sono ampi spazi per configurarlo come un mondo in cui si premi la virtù invece che il vizio elevato a virtù. Non dico che basta volerlo. Occorre volere che il vizio non sia indotto dal sistema.
Una struttura retributiva che prevede una differenza da uno a cinquecento tra la massa degli addetti e l’amministratore delegato è una struttura di peccato.
Con un paradosso. In una struttura di tal fatta si pecca più al vertice che alla base Basta pensare ai conflitti d’interesse e alla pratica di dopare l’azienda per valorizzare le proprie option, venderle e levare le tende con una principesca liquidazione appena ritoccata dall’interessato prima del disastro.
Altra struttura di peccato organizzativa è quella dell’emulazione darwiniana interpersonale, ritenuta, erroneamente, motore di efficienza.

Pensiero europeo e genius loci italico
A questo modello sono organiche altre due formule organizzative: il modello premio-punizione differenziale che scontenta premiati e puniti, e la pratica perversa di fissare gli obiettivi produttivi individuali al di sopra del raggiungibile. Lo scopo dichiarato è di spingere l’impegno individuale; quello reale è diffondere uno stato di colpa per inadeguatezza.
Questo modello di gestione delle risorse umane, ultima espressione di taylorismo e fordismo, oltre che ingiusto è intrinsecamente inefficiente. Scoraggia i timidi virtuosi, i disadattati geniali e dà spazio agli aggressivi distruttivi. In ogni caso l’emulazione selettiva è incompatibile con le esigenze organizzative del post-industriale che richiedono cooperazione e iniziativa personale responsabile.
L’aggressivo è tale non soltanto verso il compagno; lo è anche nei confronti del sistema. Lo sono sistematicamente i top manager.
Il clima emulativo-bellicistico è un carattere antropologico del capitalismo dello scientific management. L’ultima versione di questo modello è stata il toyotismo che si è rivelato un’esasperazione del vecchio sotto due aspetti.
Sul piano dell’organizzazione aziendale, l’identificazione mistica del lavoratore a qualsiasi livello con l’azienda; sul piano della politica industriale e del mercato internazionale, il sistematico dumping a sostegno delle esportazioni.
Dobbiamo affrancarci da ogni tipo di egemonismo e promuovere la centralità del genius loci italico con l’umanesimo che lo caratterizza.
La cultura industriale e manageriale americana è fondata su quattro filosofie, le uniche nate in loco. Non sono però vere filosofie, poiché escludono per principio il problema della verità.
Sono: il darwinismo sociale, da cui l’emulazionismo. Il pragmatismo, per il quale è ‘vero’ ciò che funziona: ma dove? In quale contesto? Per quanto tempo?, con quali effetti collaterali? Il comportamentismo, da cui il modello stimolo-risposta che Skinner voleva estendere tal quale dalle cavie di laboratorio agli umani. L’operazionismo o strumentalismo che cerca la verità della cosa nelle operazioni necessarie per costruirla o elaborarla concettualmente, con l’esclusione, inevitabile, di ciò che non è ancora configurato o è configurabile fuori degli schemi correnti cioè l’innovazione.
Il perché l’Europa abbia accettato e subisca questa egemonia, è stato indicato da Edmund Husserl nella sua Crisi delle scienze europee (1936): si è fatta abbagliare dalla promessa della prosperity.
Il Novecento europeo ha un posto nella storia dell’umanità per le sue decisive acquisizioni di filosofia vera anche ad opera di quella diaspora generata da Fascismo e Nazismo. Ha prodotto, in particolare, il correttivo della hybris della deriva scientista, con i due teoremi d’incompletezza di Kurt Gödel. Asseriscono che ogni sistema formale (logico) non può essere logicamente chiuso, nel senso che esso contiene almeno una proposizione indimostrabile all’interno del sistema, vale a dire con la sua logica e con le sue tesi. Ne segue che per dare una coerenza pratica ai sistemi formali, occorre statuire fuori del sistema, con una libera decisione, non legata alla logica del sistema, la verità di alcune sue tesi.

Fondamenti della Carta Etica

Considero, non a caso, il sistema giuridico.
Esso è fondato sulla responsabilità personale delle azioni delittuose, ma questa responsabilità e la stessa definizione di persona responsabile è dubbiosa; non è una proposizione giuridica. Da qui il carattere pratico della decisione giuridica, con il principio del libero convincimento del giudice.
Ne discendono due conseguenze per l’epistemologia del discorso etico.
La prima, che la sua logica è in larga parte costruttiva e non deduttiva. Si costruisce un sistema normativo come una serie di impegni, praticamente coerenti, da offrire all’accoglimento e alla cura del singolo, alla custodia del tribunale della sua coscienza.
È questa una struttura logicamente debole, pertanto non razionale? Non più dei sistemi scientifici a tutto tondo –la matematica, la fisica– esposti all’incompletezza di Gödel e, in ogni caso, fondati su assiomi indimostrabili.
Questo il motivo per cui chiamare ‘codici’ i sistemi etici non li rafforza; li snatura. Ho preferito ricorrere all’antico termine di Charta, oggi Carta, Carta Etica.
Si caratterizza, in primo luogo, per un’aderenza alla realtà del sistema che si vuole eticamente normare.
In secondo luogo, per un’accettazione preliminare e volontaria della Carta da parte di tutti gli individui del sistema senza distinzione di rango o di grado, un patto etico.
In terzo luogo, per una pulizia anche terminologica del linguaggio. Ad esempio, non dipendenti e dirigenti, ma tutti collaboratori.
In quarto luogo, per l’impegno della dirigenza nel favorire la soluzione pacifica di tutte le tensioni e vertenze interne al sistema.
L’obiettivo che qualifica un impegno etico è il perseguimento e, in prospettiva, l’instaurazione nel sistema della pace al posto della guerra. Pertanto niente emulazione selettiva, responsabilità personale al posto del controllo e della sanzione, tribunale della coscienza al posto di un qualche improvvisato tribunale aziendale.
Una Carta Etica vuole essere uno strumento di gestione nel segno della pace che costa meno della guerra e rende di più.

L’impegno di tutti e gli obblighi dei dirigenti

La guerra, anche se proclamata unilateralmente, è sempre bilaterale.
Nella guerra contro il crimine, ad esempio, la delinquenza non si limita a difendersi. La corruzione sistematica dell’avversario è un’arma sottile di grande efficacia.
In azienda un controllo gerarchico contro le deviazioni organizzative suscita contromisure sabotative, alcune tese a indurre un’attenuazione del controllo, altre puramente velleitarie. Tipica l’interruzione dello scorrimento della carta nelle rotative tipografiche con il semplice uso di un ago.
Esprimo questa complessa situazione con una formula: P/S = K (P ed S variabili, K costante).
P, la pressione del controllo e della repressione, è inversamente proporzionale ad S, il sabotaggio. Con una conseguenza aggiuntiva: P è palese, S è invisibile.
Ne risultano alcune conseguenze operative.
Tutti i collaboratori sono impegnati nel rispetto delle norme etiche, nella convinzione, da diffondere attivamente nel sistema, che esse sono un fattore importante per il raggiungimento dei risultati aziendali. La responsabilità attuativa è però diversa secondo un fattore crescente in proporzione al ruolo. I dirigenti hanno l’obbligo etico di essere in prima linea nella testimonianza dell’impegno etico. Testimonianza anche formale che è però sostanziale ai fini della comunicazione interna e del mantenimento del clima.
Immediati i risvolti sul comportamento.
I dirigenti eviteranno di condurre vita separata anche sul piano meramente formale. Ascensore dedicato, lunch servito nello studio, posteggio riservato e altri simboli del potere.
È incredibile quanto questi semplici formalismi siano radicati e strenuamente difesi, ad esempio anche all’interno di quelle chiese ove vige il principio della fratellanza universale.

Azienda come comunità conviviale

Segue, da quanto detto, una riconfigurazione dell’azienda come comunità conviviale.
La convivialità è la svolta confusamente proclamata, ma non operativizzata, del post-industriale.
L’obiettivo è un’efficienza che superi quella securizzante del meccano organizzativo e promuova appartenenza, condivisione, cooperazione.
La vecchia logica industrialista si è rivestita nel tempo di parole e di modelli considerati naturali e scientifici, quando invece illustrano una filosofia divenuta pensiero unico. Un solo esempio.
Componente centrale dell’impresa taylorista e fordista, una vera e propria istituzione, è l’organigramma.
Secondo l’ètimo greco, gramma sta per schema; organo per organon, strumento. Se ricordiamo l’origine militare della scienza manageriale, ci viene in mente la denominazione dell’artigliere come servente il pezzo. Tutti ‘serventi’ nella batteria: dal capopezzo al caricatore, puntatore, tiratore, armiere. Allora, nell’impresa post-industriale conviviale lo status comune è quello di collaboratore e lo schema dei ruoli è il Personigramma.
Conseguenze gestionali emergenti dalla svolta etica sono l’azzeramento dei costi del controllo e la pratica d’imparare dall’errore. Non sarà più celato o sistematicamente attribuito ad altri.
L’analisi dell’errore rientra nel controllo di gestione, la sua corretta e non strumentale individuazione richiede un’azione cooperativa.
Il valore gestionale dell’errore è quello di rivelare un lato oscuro del funzionamento organizzativo o del modello di gestione. In alcune aziende viene già praticata l’analisi del near miss, lo studio dell’errore mancato.
Centrale nell’impresa conviviale è una rimodulazione della gerarchia da comando a leadership.
Il leader non è un capo cortese e comprensivo, non un coach, non un counsellor, non un saggio anziano. Il leader è una guida sulla strada dell’innovazione produttiva e organizzativa, della crescita personale e del mantenimento del clima aziendale. Rende bene l’idea l’espressione inglese per cedere il passo, “Please, lead the way!”.
Circa la questione delicata se sia praticabile una convivenza etica, senza un effettivo e tangibile sistema di sanzioni dei comportamenti devianti, una forma di controllo non sanzionatorio è stata escogitata per la Carta Etica di Boehringer Ingelheim Italia.
Il controllo è affidato a un Comitato di Verifica Esterno Indipendente, formato da saggi non retribuiti e dotato di potere ispettivo. I risultati della verifica sono riportati al numero uno dell’azienda che è eticamente obbligato a eliminare le inadempienze. Egli è il leader dei leader, non nel senso del comando supremo, bensì in quello della suprema responsabilità.

Oltre il pensiero unico liberista

Un cenno infine alla struttura culturale e politica che sorregge il sistema industriale, la dottrina economica liberista, un pensiero unico che impedisce di scorgerne le insufficienze, le contraddizioni e gli assunti datati. Oggi una ‘struttura di peccato’.
Il testo fondativo, La Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith (1776), è stato ed è il riferimento dell’economia industriale. Essa è la dottrina organica al nazionalismo e all’imperialismo, allora rivoluzionario.
Occorrerà ritornare sull’argomento. Bastano ora due osservazioni.
La prima, sul concetto di ricchezza, cui Smith assegna il valore di obiettivo dell’attività economica, mentre per Aristotele, inventore del termine ‘economia’, il suo fine era la “vita buona”. In questa chiave ritengo necessario un radicale superamento, assegnando all’attività economica il fine di assicurare la ‘provvista’ per una vita buona.
Intanto oggi la ricchezza in forma finanziaria ha determinato una duplice distorsione, Una finanza che produce finanza e non beni e servizi e una logica dell’investimento finanziario che da meccanismo assicurativo è diventato scommessa. Da qui la strutturale formazione di bolle speculative e le ricorrenti crisi globali.
Una terza osservazione sull’impostazione smithiana riguarda la considerazione e il trattamento del fattore lavoro.
La rivoluzione necessaria è anche qui radicale: il lavoro diventi da fattore ‘attore’. L’obiettivo è superare la moderna cultura economica e, al seguito, sociale e politica della separazione del lavoro dal lavoratore, la teoria del “lavoro astratto” condivisa da Marx, e la differenziazione del reddito in relazione al fatto che sia salario, profitto o rendita.
Si parla ancora oggi di ‘mercato del lavoro’, di una sua ‘liberalizzazione’, di ‘lavoro dipendente’ e della necessaria sua ‘flessibilità’ con il precariato che l’ha già realizzata. Ma al seguito del lavoro non diventa flessibile anche la vita del lavoratore? Non diventa essa stessa un bene di mercato? E che dire del destino della vecchiaia secondo gli auspici e gli aruspici del sistema pensionistico contributivo invece di quello retributivo in assenza di una capacità contributiva di precari, disoccupati di lunga durata e occupati intermittenti?
Sono domande per una nuova dottrina economica. Anche a queste non si potrà dare una risposta umana senza un’ispirazione etica.
È un processo che passa attraverso la riformulazione del concetto e della figura del mercato e di ciò che può essere considerato bene di mercato.
L’abolizione della schiavitù, proclamata dalla. Convenzione Nazionale, limitatamente alle colonie francesi nel 1794, cancellata da Napoleone nel 1802, fu sancita definitivamente in USA nel 1865. Quivi, prima della Guerra di Secessione, gli imprenditori del Nord ritennero necessaria all’organizzazione della produzione industriale una manodopera di liberi.
Interessante la falsa coscienza del liberista Adam Smith: per principio contro la schiavitù, ma per ragioni di razionalità economica convinto che il lavoro fosse un fattore, il lavoratore una merce sottoposta alla legge della domanda e dell’offerta e il salario razionale quello di sussistenza.
Questa posizione veniva giustificata in sede accademica da Claudio Napoleoni ancora negli anni ’60.

Questo testo è apparso come articolo su Persone & Conoscenze, 75, gennaio 2012, e costituisce la traccia delle docenze tenute da Piero Trupia nel percorso formativo ‘La direzione etica’, organizzato da Assoetica.

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Piero Trupia. Linguista, cognitivista, filosofo del linguaggio. Studi di matematica, economia, scienza della politica. Dirigente industriale fino al 1996. S’interessa di arte figurativa che studia e colleziona. Il suo approccio critico si avvale delle forme più avanzate di semiotica e semantica della figura. In materia ha pubblicato saggi nella collana Analecta Husserliana, Kluwer, Dordrecht, Nederland. Appena uscito, Piero Trupia, Perché è bello ciò che è bello. La nuova semantica dell’arte figurativa. Con un saluto di Santo Versace e una riflessione di Renzo Piano, Franco Angeli 2012. Blog La Chimera: http://pierotrupia.blogspot.com

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