Contributi

Territorio della comunicazione e comunicazione del territorio

di Ludovico Ristori 22 Febbraio 2013

Glocalizzazione, territorio e comunicazione

Parlare di un’unica società, un unico mercato, un solo modo di concepire il progresso ad oggi fa tanto old digital; quasi come affermare che il miglior videogioco di sempre è Tomb Raider e forse suggerisce pure immagini un po’ inquietanti alla Blade Runner.

Al contrario nelle parole “Think global, act local”, ovvero nel termine glocalizzazione – per dirla con Zygmunt Bauman (2005) – è, probabilmente, più facile riconoscere un modello di sviluppo più a misura d’uomo.

Ma quali visioni e problematiche si porta dietro il concetto di  glocal e perché, al suo interno, gli elementi della comunicazione e del territorio sono così importanti?

Modelli di Sviluppo Locale

Glocal è evidentemente la contrazione delle parole global e local ed è un modo di vedere lo sviluppo locale che, per molti aspetti, risulta in forte discontinuità con le visioni che l’hanno preceduto.

Tramontate le previsioni sia di tipo neoclassico che keynesiano, le idee di sviluppo lineare e di convergenza molti sono a chiedersi a che tipo di crescita possa ambire oggi un paese occidentale ad economia matura (quasi anziana, verrebbe da dire) come l’Italia. Caratterizzato da una popolazione fra lo stabile e il decrescente, dall’oggettiva difficoltà di intervenire sia da parte dello stato, con finanziamenti, sia da parte delle imprese, con una ulteriore diminuzione dei costi unitari di produzione. Chiamato a competere, infine, in un mercato globale, in un contesto di strutturale scarsità o imminente esaurimento delle risorse produttive interne (il territorio in primis).

Posto così il problema sembrerebbe impossibile da risolvere, ma forse è proprio il modo di guardare le cose il punto focale. Siamo sicuri che i fattori produttivi siano soltanto i classici capitale e lavoro? E’ ancora vera la predominanza del capitalismo materiale sull’immateriale[1]? La centralizzazione e le produzioni di massa possono essere ancora fattori chiave di competitività? E’ ancora possibile pensare di indirizzare lo sviluppo a colpi di espropri e pianificazioni top down? L’ambiente può ancora essere pensato come un pedone sacrificabile, nella grande partita a scacchi della macroeconomia?

Ecco quindi il nuovo modello di sviluppo: pensare di vincere la competizione – necessariamente globale – non come un unico esercito nazionale ma come insieme comunità locali, un po’ come ai tempi della battaglia di Legnano, se mi si passa il paragone. Guidati da modelli di soft economy, produzioni limitate e con elevata attenzione alla qualità e alla tipicità. Cercando sostanzialmente di vendere non solo prodotti ma idee e caratteristiche uniche di territori o comunità, sviluppati con approcci il più possibile partecipativi e condivisi.

C’è chi ha parlato di Capitale Creativo (Florida, 2002), Sociale (Putnam, 1993) o Territoriale (Camagni, 2002); chi di distretti culturali (in contrapposizione all’idea dei distretti produttivi dell’epopea negli anni 80-90); chi di Experience Economy (Pine-Gilmoure, 1999) o di Dream Society (Jensen, 2001).

La sostanza è che, in un mondo caratterizzato da una elevata mobilità di persone e di capitali, occorre inventarsi qualcosa di molto diverso da quanto fatto finora per garantire anche solo il mantenimento degli standard attuali. E che in tutto questo il territorio e i centri urbani medio-piccoli con tutto quanto gli ruota attorno giocano un ruolo senza precedenti.

Pianificazione Strategica e Marketing Territoriale

Lo scenario più corretto a cui pensare è, quindi, la ricerca della competitività non attraverso grandi operazioni top down a livello nazionale, ma principalmente di tipo bottom up, auto organizzate da comunità periferiche a uso e consumo delle stesse.

Ecco quindi la competizione fra ambiti locali: chi riesce a attrarre capitali e persone (turisti, ma anche talenti e nuovi residenti) o a costruirsi a livello mondiale un’immagine distintiva, vince, ossia riesce ad avviare un circolo virtuoso di migliore qualità della vita per la sua comunità e maggiore attrattività del territorio. Chi non ci riesce, perde: rimane oggi ai margini, con ottime prospettive di avviare un circolo vizioso costituito da decrescenti capacità di attrazione e degradazione complessiva.

In un contesto di questo tipo si comincia a parlare sempre di più del marketing territoriale[2] come di una leva primaria. La parola marketing richiama alla mente scenari aziendalistici e insiemi di attività tese a favorire la vendita di prodotti o servizi. Qui, però, le cose non stanno proprio allo stesso modo: “non devi chiedere ai fagioli se gli piace l’etichetta sulla scatola” (Olins, 1999) mentre è ovviamente fondamentale che la comunità locale si identifichi nell’immagine proposta e soprattutto con la vision da perseguire. Si è tutti d’accordo di voler diventare la nuova Sylicon Valley? Si è compatti nel voler affrontare oneri e onori di un tale progetto? E, infine, quanto si ha già in termini di competenze, potenzialità, reti di relazioni, rende il rapporto costo/beneficio atteso favorevole o no?

Ciò premesso l’idea di marketing territoriale non è affatto nuova. Van der Meer  (1990) ha definito il city marketing come “insieme di attività finalizzate ad accordare la fornitura di funzioni urbane con la domanda espressa dai residenti, dalle imprese locali, dai turisti e dagli altri utilizzatori del territorio”. Non è l’unica definizione disponibile ma ha il pregio di centrare alcuni punti chiave. Intanto chiarisce chi sono i clienti a cui ci si rivolge: persone (cittadini, lavoratori, turisti, nuovi residenti) e imprese (locali, esterne, investitori). Identifica il marketing non solo come una scatola con fiocchi e lustrini ma come qualcosa per facilitare  l’incontro fra la domanda e l’offerta delle funzioni urbane. Parliamo di servizi, infrastrutture, ma anche di ambiente, patrimonio culturale, accoglienza, reti di relazioni: tutto quello che alcuni studiosi hanno chiamato “something in the air”. Se queste funzioni ci sono già, probabilmente vanno migliorate. Se non ci sono, occorre far sì che la pianificazione urbanistica ne preveda lo sviluppo.

Branding Territoriale e Comunicazione

E’ evidente che, anche nel place marketing, la comunicazione abbia un’importanza fondamentale: non solo nel trovare i giusti messaggi ma anche, e soprattutto, nel processo di costituzione delle strategie partecipate, nel dialogo fra gli attori e così via. E’ altrettanto evidente, però, che il ruolo della comunicazione pura e semplice non possa essere prevalente rispetto al modello di città o comunità che si vuole o si può raggiungere.

Un buon piano marketing può, in altri termini, ben supportare nel medio periodo una buona pianificazione territoriale ma è assolutamente esposto al rischio di produrre clamorosi buchi nell’acqua (si veda ad esempio il caso di Etna Valley) se si pensa di rivitalizzare un territorio a prescindere da quali sono le sue reali potenzialità, vocazioni e capacità politico-istituzionali.

Discorso in parte diverso vale per quel sottoinsieme del marketing territoriale che è detto branding, in cui l’orizzonte è decisamente più breve e il cui scopo è, se si vuole, meno ambizioso. Etimologicamente brand significa “marchiato col fuoco” e l’obiettivo è quello di effettuare un burning nella mente del consumatore. Creare in altri termini un’associazione, per via emozionale o comunque solo parzialmente volontaria, fra un territorio e un logo, un prodotto, un’idea (Montalcino e il Brunello, Parma e il suo prosciutto e così via).

E’ ovvio che questo sia un po’ il paradiso della comunicazione, in quanto tutto o quasi si gioca sulla capacità dei comunicatori che strutturano la campagna. Tenendo sempre presente che, essendo il marketing territoriale uno strumento di natura relazionale, teso alla creazione di un rapporto di fiducia più che a una vendita one shot, anche in questo caso sono assolutamente sconsigliate le operazioni che si basano su scatole vuote.

Il branding territoriale è tipicamente classificato (Rizzi, 2010) come una “forma di collective impression management” ed è normalmente associato ad attività come:

  • la narrazione di storie evocative, in modo da poter sostituire immagini consolidate non completamente positive o non più desiderate ovvero da crearne di nuove (re-imagine the city)
  • la costruzione di sistemi di comunicazione geosemiotici, ossia costituiti da insiemi di segni/simboli che interagiscono e si sovrappongono, creando richiami associativi multipli

Con il branding territoriale viene creata una word city che supera quasi la built city. E, visto che per costruire una città di parole non servono grandi piani opere e percorsi, è ovvio che questa città può essere pronta in tempi brevissimi per essere venduta.

In generale ogni campagna è costituita da iniziative specifiche: si possono trovare però delle evidenti regolarità nelle strategie di fondo.

Molto spesso c’è un testimonial a garanzia dell’operazione, scelto in modo da far nascere nella mente del consumatore associazioni libere fra le sue caratteristiche distintive e quelle del luogo. Si parla in tal caso di personality branding con la figura selezionata che, in genere, è un personaggio storico o mediatico nato nel territorio da pubblicizzare o comunque fortemente legato a questo.

Ci possono essere, poi, anche dei riferimenti tangibili chiamati a rappresentare i nuovi valori, descritti con la parola flagship che fa riferimento alle bandiere sulle ammiraglie, nelle battaglie navali. In genere si tratta di edifici o opere estremamente visibili e innovativi, costruiti in sincronia con l’azione di marketing o branding e tipicamente firmati da artisti o architetti di fama mondiale (“archistar”).

Vi sono poi, tipicamente, anche degli opportuni eventi a chiudere il cerchio. Si tratta, in genere, di manifestazioni a carattere temporaneo in grado di richiamare elevati numeri di visitatori e assicurare ampie coperture mediatiche, come manifestazioni sportive, festival culturali e via dicendo. Sono ciò che sostanzialmente forza l’arrivo di persone e capitali nel territorio, precedentemente predisposto all’accoglienza con le azioni precedenti e con quelle di pianificazione strategica e marketing territoriale. Se tutto è stato fatto correttamente una parte di questi flussi temporanei si tradurrà in effetti di lungo periodo per lo sviluppo locale, tipo posti di lavoro stabili, nuovi turisti grazie al passaparola e così via.

Un caso normalmente citato di operazione di branding di successo è quella di Bilbao che ha avuto il suo flagship nel celebre Museo Guggenheim.

La costruzione questo luogo-icona unita a una sapiente campagna di comunicazione ha permesso di cancellare quasi istantaneamente l’immagine di vecchio porto industriale in decadenza sostituendola con quella di una città raffinata e interessante. Una adeguata pianificazione urbanistica di lungo periodo, in grado di dare corpo a quello che inizialmente era in massima parte ancora da costruire, ha fatto in modo, poi, che Bilbao sia ad oggi una delle principali mete del turismo di alto livello in Spagna, nonché una città assolutamente densa di capitale creativo.

Limiti della promozione territoriale

Marketing e branding possono avere, come si è visto, il potere di rendere competitivi e re-inventare territori in modo a volte impensabile. Ma sono strategie sempre vincenti? E soprattutto sono sempre convenienti?

La letteratura è abbastanza concorde nel rispondere in modo negativo.

Intanto c’è l’evidente rischio di effetto boomerang se si punta troppo a vendere quello che non c’è: va bene enfatizzare alcuni aspetti, ma se si nascondono troppo i limiti di un luogo o di una città, quando inevitabilmente chi proviene dall’esterno li incontra avrà un sensazione di fastidio ancora maggiore e quindi sarà difficilmente un cliente soddisfatto.

C’è, poi, l’aspetto del gioco a somma zero (McCann, 2004) fra i vari territori. Il turista o l’investitore deve comunque alcuni luoghi a discapito di altri: estremizzando le azioni di marketing si arriva a una guerra fra città o ambiti locali in cui tutti devono investire, ma in cui necessariamente qualcuno vince se altri perdono. Il che non è evidentemente accettabile in un’ottica di sviluppo complessivo.

C’è, ancora, il rischio di far qualcosa che allontani, anziché avvicinare, il territorio dalla sua comunità. Intanto se la storia che si racconta o la vision perseguita sono il semplice prodotto di un’agenzia pubblicitaria ma non sono in nessun modo avvallati da alcun processo di condivisione con gli stakeholder locali. Poi anche se la città si sono vendute immagini o rituali che per gli abitanti non hanno alcun senso e che quindi diventano solo vuote recite. Alcuni studiosi (Van den Berg, 1999) hanno parlato di “disneyficazione”, ossia creazione di città cartolina, per turisti, senza più alcuna anima.

Abbiamo infine l’aspetto della sostenibilità. I flagship sono spesso delle ”architetture dell’assurdo” (Silber, 2007) che richiedono spesso costi elevatissimi di realizzazione e manutenzione, hanno impatti ambientali devastanti e, oltretutto, possono essere attrattivi quanto si vuole ma solo assolutamente deficitari in termini di funzionalità (ovvero nel loro ruolo di musei, ponti e via dicendo). I grandi si possono lasciare, infine, cattedrali nel deserto che nessuno all’interno del territorio utilizzerà mai nonché ingenti buchi finanziari se la valutazione economica ex ante non è stata fatta correttamente.

Per questo, per capire l’effettiva distanza fra un territorio e la sua immagine costruita attraverso processi di comunicazione, chiuderemo la trattazione con un caso concreto: quello della città di Torino.

Il caso di Torino

Se, ad oggi, chiedessimo a un campione casuale di italiani cosa pensa quando gli si parla di Torino, probabilmente direbbe la Mole Antonelliana – e magari la celebre installazione di Mario Merz dedicata a Fibonacci – oppure qualcosa sui sistemi di infomobilità o smart city; forse i Subsonica o i Linea 77, il Politecnico e la culla delle telecomunicazioni WiFi o magari altro. Un sacco di cose, insomma, fra cui potrebbe rientrare anche la Fiat o l’industria metalmeccanica ma solo come una associazione fra le tante. Mentre sarebbe stata la prima, se non unica, venti anni prima.

Perché tutto questo? Probabilmente per la strategia di re-inventing fisico e mediatico della città operato in occasione delle Olimpiadi Invernali del 2006. Le istituzioni e la comunità hanno cominciato a pensare a tale evento fin dal 1999, con l’adozione di un Piano Strategico teso a disegnare la nuova città che sarebbe nata sfruttando l’effetto fionda dell’evento olimpico. La vision era quella di sostituire nell’immaginario collettivo l’idea di Torino come città vecchia e noiosa, piena solo di industrie meccaniche in dismissione, con quella di polo culturale e turistico di prim’ordine, attrattivo sia per il turista occasionale che per lo studente o il professionista nonché per le industrie high tech che volessero impiantarvi i propri centri direzionali o di sviluppo.

Il caso del capoluogo piemontese è, forse, uno di quelli in cui lo sforzo congiunto di pianificazione territoriale e marketing è stato più intenso. E in cui il branding ha fatto appieno il proprio lavoro di rottura col passato: si pensi ad esempio alla campagna a supporto delle Olimpiadi e ai messaggi di “Torino città della passione” e di “Torino città capace di combinare insieme storia e modernità”.

Il tentativo operato è stato senza precedenti anche per lo sforzo di capire prima quali benefici si sarebbero potuti ottenere a fronte dei costi. Un approfondito documento di analisi commissionato dal Comune ha studiato, ad esempio, quali effetti positivi ci si potevano attendere sul mercato del lavoro, riscontrando, peraltro, la presenza di notevoli punti di incertezza.

Un evento come le Olimpiadi comportava, tanto più in presenza di un corposo Piano Strategico di ridisegno della città, una serie importante di opere da realizzare e quindi una elevata domanda aggiuntiva di lavoratori, soprattutto nei settori edilizia e servizi che era lecito attendersi simile a quella determinatasi a Salt Like City, quattro anni prima.

Ma come questa domanda, costituzionalmente temporanea, potesse tradursi in posti di lavoro stabili dipendeva anche da una serie di variabili esogene – quali la situazione (anche congiunturale) dell’economia e del mercato del lavoro locale – nonché dal peso dell’economia non direttamente interessata ai giochi, che dall’evento avrebbe ricevuto più effetti negativi che altro (prezzi più alti, disincentivo al turismo o agli investimenti extra Olimpiadi).

Fatte le sue valutazioni, Torino ha preso la strada che sappiamo. Verrebbe da dire che l’operazione è stata un successo: nel 2008 la città è stata eletta World Capital of Design e degli effetti sull’immaginario collettivo ne è stato già parlato.

Resta, comunque, la questione dell’estrema problematicità della valutazione quantitativa della convenienza. L’istituto di ricerche Bruno Leoni ha giustamente osservato che, per poter definire le Olimpiadi un successo, occorrerebbe dimostrare che le risorse investite hanno comportato dei benefici superiori a quelli che i contribuenti avrebbero avuto “tenendo in tasca i propri soldi”. Occorrerebbe, quindi, effettuare una vera e propria analisi Costi/Benefici a priori e a posteriori, piuttosto che solo una di tipo Valore Aggiunto a priori come invece è stata fatta. Si sono viste, del resto, in Italia molte previsioni di valori aggiunti strabilianti anche per opere che non sono state mai realizzate o si sono rivelate dei veri e propri buchi neri economici[3]. Proseguendo il ragionamento è stata, poi, effettivamente eseguita una analisi costi/benefici a posteriori ottenendo risultati non completamente positivi.

Valutando il solo saldo fra costi e ricavi diretti si è ottenuto un valore di meno due miliardi di euro (costi per 3 miliardi di euro, ricavi per uno).

Considerando anche i ricavi indiretti – legati alle strutture rimaste alla comunità tipo gli impianti di gara, le infrastrutture e gli interventi di l’accrescimento della ricettività turistica nonché le strutture abitative derivanti dalla conversione degli alloggi per atleti e personale vario – si è riscontrato a un saldo di meno 500 milioni di euro.

Il tutto senza valutare mai i costi di manutenzione collegati, ossia quei costi di gestione degli impianti che, una volta terminato l’evento e quindi il massiccio trasferimento di fondi dallo stato o dagli Enti sovra ordinati, sono andati a ricadere interamente nel bilancio della comunità locale, con casi di valori di difficilissima sostenibilità economica e ambientale (le famose cattedrali nel deserto, ad esempio la pista di bob di Cesana).

Come ultimo punto di attenzione è stato evidenziato anche il problema della coerenza fra i soggetti di attribuzione dei costi e ricavi. Mentre, infatti, è stata la Provincia di Torino nel suo complesso il beneficiario quasi esclusivo degli effetti positivi dei Giochi (a breve o lungo termine che fossero), sono stati tutti i contribuenti italiani a sostenere i costi. Il che ha parzialmente invalidato tutte le analisi ex ante effettuate e gli sbandierati gradimenti entusiastici da parte della comunità locale. A cui, ragionando in logica economicamente più corretta, si sarebbe dovuto sottoporre il seguente dilemma: fare i giochi a fronte di una “tassa olimpica pari a circa 4.000 euro per una famiglia di quattro persone” o non farli?

Conclusioni

Marketing e branding territoriali possono essere importanti strumenti di competitività in uno scenario glocal come l’attuale. Questi esplicano al massimo la loro funzione se risultano in una visione sistemica di sviluppo locale e quindi, in primis, con gli strumenti di pianificazione urbanistica.

La comunicazione del territorio richiede, comunque, notevole attenzione: molta di più rispetto a una tradizionale comunicazione aziendale, soprattutto per l’indispensabile condivisione della vision da parte degli stakeholder locali nonché per la talvolta difficile convivenza fra le abitudini e le identità pre-esistenti e quelle imposte dalle strategie di vendita del prodotto-comunità.

Vi è, infine, l’aspetto problematico della valutazione del ritorno degli investimenti. Ciò soprattutto per la difficoltà di stima dei benefici stabilmente indotti nell’economia locale e degli squilibri economici (e talvolta ambientali) determinati da flagship o grandi eventi che nel medio termine risultano a carico della sola comunità locale.

Bibliografia

Bauman, Z. (2005), Globalizzazione e glocalizzazione, Armando Editore, Roma.

Camagni R. (2002), On the concept of territorial competitiveness: sound or misleading?, in Urban Studies, n. 13, 2395-2412.

Florida, R. (2002) The Rise of the Creative Class. And How It’s Transforming Work, Leisure and Everyday Life, Basic Books.

Jensen, R. (2001), The Dream Society:  How the Coming Shift from Information to Imagination Will Transform Your Business, McGraw-Hill Professional.

McCann, P. (2004) Urban and Regional Economics, Oxford.

Olins, W. (1999) Trading Identities: Why Countries and Companies are Taking on Each Others’ Roles, Foreign Policy Centre

Pine, J.  e Gilmore, J. (1999) The Experience Economy, Harvard Business School Press, Boston.

Putnam R. D. (1993), La tradizione civica delle regioni italiane, Mondadori, Milano.

Rizzi P., Dioli I. (2010), Strategic Planning and Place Marketing: the Italian Case, in Journal ofTown & City Management, V.1, N.3.

Silber J. (2007), Architecture of the Absurd: How “Genius” Disfigured a Practical Art, Quantuck Lane Press.

Van den Berg, L., e Braun, E. (1999), Urban competitiveness, marketing and the need for organizing capacity, in Urban Studies, Vol. 36.

Van der Meer J. (1990), The Role of City Marketing in Urban Management, European Institute for Comparative Urban Research Erasmus University, Rotterdam.


[1] Ovvero: è ancora pensabile un PIL il cui contributo prevalente derivi dal classico ciclo di trasformazione e vendita di prodotti tangibili? E inoltre, ha ancora senso utilizzare il PIL come unico indicatore di sviluppo? (vedi il progetto Beyond GDP della Commissione Europea).

[2] Definito anche place/city/urban marketing. In questo documento tali termini, pur in presenza di alcune differenze di significato, saranno considerati come sinonimi.

[3] L’analisi cita esplicitamente l’Alta Velocità ferroviaria e il ponte di Messina.

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