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Francesco Dezio è tornato in libreria con Qualcuno è uscito vivo dagli anni Ottanta (Stilo 2014)

di isabella spadavecchia 17 Febbraio 2015

Francesco Dezio è tornato in libreria con Qualcuno è uscito vivo dagli anni Ottanta (Stilo 2014).                                                                                                                 Francesco Dezio, l’autore che esordì con Nicola Rubino è entrato in fabbrica (Feltrinelli 2004), primo esempio di romanzo postindustriale negli anni Duemila, torna con Qualcuno è uscito vivo dagli anni Ottanta – Storie di provincia e di altri mali (Stilo, Bari 2014, pp. 125, euro 12). Allargando l’orizzonte oltre il mondo operaio del precedente romanzo, si passa in rassegna un’ampia galleria umana: punk, rockettari, tossicodipendenti, anarchici degli anni Ottanta, fino ai disoccupati diplomati e laureati dei nostri giorni, tra cui molti operatori culturali (organizzatori di concerti ed eventi, laureati in discipline umanistiche, impiegati, cantanti…).

    Il nome di Dezio, negli anni scorsi, era accostato a quello di Volponi (Memoriale, Einaudi 1962; Le mosche del capitale, Einaudi 1989), a Nanni Balestrini (Vogliamo tutto, Feltrinelli 1971), a Tommaso Di Ciaula (Tuta blu, Feltrinelli 1978) e, ancora, ad Aldo Nove (Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese, Einaudi 2006) e ad Angelo Ferracuti (Le risorse umane, Feltrinelli 2006). La scrittura (quasi) autobiografica di Dezio ha incoraggiato ancora recentissimamente altri autori trentenni o quarantenni su questioni di flagrante e tragica attualità: Massimiliano Santarossa (Viaggio nella notte, Hacca 2012), Christian Frascella (Il panico quotidiano, Einaudi 2013); Beppe Fiore, che nel suo esilarante Nessuno è indispensabile (Einaudi 2012) sposta questi temi dalla catena di montaggio all’ufficio, dai colletti blu ai colletti bianchi; Stefano Valenti, che Nella fabbrica del panico (Feltrinelli 2013; Premio Campiello Opera Prima 2014) descrive la condizione operaia e le morti d’amianto del Nord Italia. E ancora Emanuele Tonon, l’autore de Il nemico (Isbn 2009), dotato di una scrittura diversissima dalla prosa leggera e graffiante di Dezio: una scrittura pervasa da un pessimismo cosmico allucinato, ricca di implicazioni teologiche e gnostiche (Tonon è stato frate francescano), imperniata sul capovolgimento tra vita e morte, tra giorno e notte, perché solo la blasfemia può rendere giustizia e restituire alla verità la miseria fisica e morale di un operaio: il nemico è non solo il padrone sfruttatore, ma anche Dio, che a tanti uomini fa scontare in fabbrica il peccato di esistere.    

    Questi autori vanno citati non per divagazione, ma perché con molti di loro Dezio è ed è stato in costante e affettuoso rapporto anche negli anni in cui non ha pubblicato nulla: con loro ha condiviso l’incertezza di esistenze segnate dalla precarietà lavorativa, dal rischio dell’emarginazione e della solitudine. Per questi autori la Scrittura è stata l’unico ponte solidale con il mondo, oltre che una forma di riscatto, spesso conquistata con percorsi eccentrici, da autodidatti, ma non per questo ingenui e artisticamente deboli, anzi capaci di un arduo e smaliziato sperimentalismo.

    Una generazione di scrittori, dunque, che ha colmato il vuoto della politica e del sindacato su questi temi ed è stata legittimata dalla critica e da un ampio pubblico di lettori. Ma il tema della Fabbrica è anche un tema che schiaccia, che mette alla prova l’onestà intellettuale di scrive, che non consente ripetizioni oleografiche, manierismi, banalizzazioni.

    Ciò forse contribuisce a spiegare il lungo silenzio creativo di Dezio, che torna ora con un’opera molto diversa. Nella forma (dal romanzo al racconto), nella veste editoriale (il libro è corredato da bozzetti dello stesso autore, che è disegnatore e grafico). Nello stile: abbandonati i dialoghi di Nicola Rubino, in cui si riconosceva l’idioletto di ciascun personaggio, l’autore fa di ciascun racconto un monologo in prima persona: un pastiche plurilinguistico e tuttavia armonico, in cui la paratassi del parlato, gli anacoluti, la patina dialettale, la sovrabbondanza del dimostrativo convivono con il filtro ipotattico ed euritmico dell’autore, anche in uno stesso periodo, con una felice tessitura stilistica che lascia intravedere in filigrana la voce autoriale dietro quella del parlante.

    I racconti descrivono, con uno stile amaro e un ritmo narrativo veloce, un’umanità più mossa e variegata del romanzo precedente (che aveva un giovane operaio quale unico protagonista): i personaggi di Dezio, dagli anni Ottanta ad oggi, attraversano in quasi tre decenni la protesta, l’esperienza delle droghe, i tentativi di innestare le controculture musicali di respiro internazionale nel loro piccolo mondo antico; infine, nelle storie centrali e nel finale del libro, dopo aver raccontato qualche sporadico braccio di ferro con datori di lavoro poco illuminati, Dezio rallenta il ritmo narrativo e indaga elucubrazioni e ossessioni dei suoi personaggi, che si smarriscono tra outlet ed ipermercati, esausti ma non ancora rassegnati. Si conclude così  la parabola di una provincia pugliese che era sì periferica, ma aveva qualcosa da dire e viveva i suoi fermenti culturali, non ancora barattati con i vizi della Capitale, forse peggiori dei mali di provincia che fanno capolino nel sottotitolo di copertina: precarietà, consumismo, omologazione, annichilimento.

    Il ritmo delle otto storie è segnato soprattutto da continue citazioni di gruppi musicali famosi o di nicchia, che gli esilaranti eroi di Dezio ascoltano in musicassetta o ai concerti (gli Afterhours cui si ammicca nel titolo, i CCCP, Joy Division, Clash, Tortoise, Nick Cave, Arab Strap, Delgados, Pink Floyd, Sex Pistols, Wretched, Cure e altri ancora: una settantina di formazioni menzionate, recensite e soprattutto ‘raccontate’). Tuttavia non abbiamo a che fare con citazioni nostalgiche, né con una colonna sonora sovrapposta al testo, bensì con un elemento intrinseco e generatore del racconto, perché non di sola musica si tratta, ma di movimenti culturali assorbiti nella struttura profonda e nell’anima stessa dei racconti.

    Mentre sovrabbonda la saggistica sulla musica dei decenni passati, la narrativa ad essa ispirata ha pochissimi esempi in Italia, tra cui vale la pena di citare Franz Krauspenhaar, l’autore di 1975 (Caratteri Mobili, Bari 2010), ambientato negli anni ’70 e a Milano; Krauspenhaar proviene da esperienze diversissime da Dezio ma il suo bellissimo libro finisce con la commozione per la morte di Pasolini: militanti di estrema destra ed estrema sinistra si ritrovano, da una parte e dall’altra, scossi dalla notizia della morte del Poeta, uniti dalla stessa «disperata vitalità, che è tutto ciò che veramente abbiamo». Due opere brevi e originalissime (pubblicate da piccoli editori coraggiosi) e pressappoco contemporanee, se si considera che un paio di racconti del libro di Dezio, in una versione differente, erano già stati pubblicati tra il 2005 e il 2008 su quotidiani nazionali o letti a RaiRadio3.

   È la stessa «disperazione funzionale alla scrittura» (citando l’incipit di 1975) che ha suggerito a Dezio un silenzio ostinato e coerente, prima di cimentarsi nella sua seconda prova di scrittura, nuova e non usurata.

 

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Sono un'insegnante di lettere della provincia di Bari. Adoro il tennis e ancora di più la lettura.

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