BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 30/03/2009

E' POSSIBILE CONCILIARE I NOBILI PROPOSITI CON IL VINCOLO DEI COSTI?

di Luigi Adamuccio

L'incontro-confronto della serie Risorse Umane e non Umane,  organizzato da Persone & Conoscenze, dedicato ai “Nuovi modi per lavorare insieme”, Bari 19 marzo, ha sollevato questioni di grande rilievo. Si esce dalla crisi presente solo portando alla luce le competenze, le capacità, di persone che già lavorano all'interno delle organizzazioni. 'Portare alla luce' significa mostrare attenzione verso persone spesso trascurate, perché si tende purtroppo a guardare solo a poche persone, battezzate in anticipo come 'talenti'.
Ma questa attenzione ha un costo, difficile da sopportare in tempi difficili.
Resta dunque centrale il tema di come 'spesare' gli intervenenti formativi. Il tema si lega con un'altra dibattuta questione: come 'portare a valore' gli asset intangibili.
Luigi Adamuccio offre a questo proposito un interessante contributo.
F.V.

 Il capitale fisico ha consentito agli uomini di essere di gran lunga
più produttivi, fornendo loro degli strumenti di lavoro.
E la capacità degli uomini di inventare nuove forme di capitale fisico,
di imparare ad usare il capitale fisico e di ricavarne il massimo,
e di organizzare l’uso sia del capitale fisico sia del capitale umano
su scala sempre più grande ha consentito al capitale fisico
di diventare sempre più produttivo.
Sia il capitale fisico sia il capitale umano
devono essere trattati con cura e rimpiazzati
Milton e Rose Friedman

 

La gestione delle risorse e formazione nelle imprese 'labour intensive'
Quella che stiamo vivendo è una crisi complessa e dagli imprevedibili sviluppi che segna, almeno si spera, la fine di un mondo senza regole, che traeva forza da una crescente globalizzazione senza punti di riferimento, da una ricchezza solo apparente fondata sul debito e su carta senza alcun valore: una recessione economica di livello mondiale, forse senza alcun precedente nell’ultimo secolo.       
Per venirne fuori, da più parti si invocano regole, si sollecita molta più trasparenza e molta meno ipocrisia, anche a costo di qualche sforzo economico straordinario, con il fine di ridare fiducia, quell’indispensabile valore che va recuperato non solo per legge o decreto, ma anche e soprattutto con comportamenti chiari, coerenti, decisi, diffusi e condivisi.
Comportamenti che i vertici aziendali devono fare loro e trasferire al resto del personale, in modo che diventino punto di forza distintivo di tutta la compagine.
Il successo di un’azienda dipende, infatti, da un insieme di fattori e passa innegabilmente da un adeguato governo di tutti i suoi aspetti organizzativi, da quelli strutturali a quelli tecnici, da quelli economici a quelli umani.
E’ il frutto, in altre parole, di quello che l’azienda possiede concretamente al suo interno: il suo know-how, la sua storia, la sua cultura, ma soprattutto il suo personale, ossia quella fondamentale risorsa che paga il più alto contributo in termini di disponibilità a rimettersi continuamente in discussione e che, quindi, va adeguatamente seguita, curata e motivata.
Un personale scarsamente preparato e demotivato, anche se supportato da adeguate procedure e tecnologie, darà sempre risultati al di sotto delle aspettative.
I migliori risultati nella risoluzione dei problemi emergenti, come sostenuto altre volte e dimostrato dai fatti,  si ottengono solo se il personale  si impegna ben al di là di quanto richiesto dall’azienda, se investe su se stesso, se amplia continuamente le sue  conoscenze e migliora le sue attitudini (quelle che gli americani chiamano le competencies).
Occorre, in buona sostanza, puntare molto su motivazione, responsabilizzazione, deleghe e, quindi, su una formazione mirata.
Ma gli imprenditori, i manager, anche quelli più illuminati, lo sappiamo, hanno dei vincoli di bilancio che li portano giocoforza a ragionare solo in termini di utili, di costi-ricavi e di budget.
Allora, in una situazione economica delicata come quella descritta in apertura, sotto gli occhi di tutti, come è possibile conciliare piani industriali, vincoli di bilancio, nobili propositi con la parola d’ordine che per tutti è “presidiare il mercato e contenere i costi”?
Anche perché, lo sappiamo già, stanti le difficoltà a tagliare i costi correnti che garantiscono la sopravvivenza di un’azienda, i manager e le alte direzioni cadono spesso nella facile tentazione di tagliare i costi strategici e, tra questi, in primo luogo quelli del personale.

La delega e gli spazi  per sperimentare
La domanda me la pongo, alla luce di quello che vedo e leggo in giro ed essendo appena tornato da Bari dove la case editrice ESTE, insieme alla rivista Persone & Conoscenze e all’AIDP – Associazione Italiana per la Direzione del Personale, ha organizzato il convegno su “Risorse umane e non umane. Nuovi modi per lavorare insieme”.
Non siamo più, per fortuna, ai tempi della rivoluzione industriale in cui, a fronte di un classe di sempre più ricchi capitalisti, si creò un vasto proletariato operaio costretto a condizioni durissime ed inumane di lavoro.
Tuttavia, pur essendo trascorsi circa due secoli dalla prima rivoluzione industriale, il conflitto tra capitale e lavoro, seppure sotto nuove forme, continua ad esistere.
Resta, infatti, una netta separazione tra funzioni riconosciute alla proprietà aziendale ed al top management da un lato (elaborazione di strategie, pianificazione delle attività e degli investimenti, assunzione di decisioni, ecc.) ed il resto del personale dipendente (esecuzione di compiti ripetitivi, privi di significatività, alienanti; scarsa visione degli obiettivi aziendali, ecc.)
I lavoratori, in altre parole, non partecipano sufficientemente alla gestione della vita aziendale e vivono questa loro situazione di emarginazione con apatia oppure assumendo varie forme di  atteggiamenti ostili nei confronti della proprietà aziendale e dei suoi uomini di fiducia.
Altre volte mi è capitato di sottolineare la necessità che i piani aziendali vengano comunicati, condivisi, gestiti con chiarezza e trasparenza, che le figure professionali più in basso nella gerarchia aziendale vengano continuamente coinvolte e motivate, quanto e più del top management.
Il personale, infatti, è il più flessibile tra i fattori produttivi, ma rappresenta purtroppo un costo fisso che va adeguatamente gestito e sul quale occorre investire continuamente.
Il ricorso alla delega è un'importante leva nella direzione della crescita e della responsabilizzazione delle risorse sugli obiettivi di un processo.
Se al personale è consentito sperimentare, migliorare, innovare, lo stesso incrementa le sue conoscenze e competenze ed è, quindi, in grado di identificare e  risolvere i problemi.
Ma per fare questo, occorre  puntare tanto, tantissimo sulla formazione, magari su una formazione efficace, realizzata con il supporto della moderna figura del docimologo  e certificata conformemente alle norme UNI EN ISO 9000.

Non è facile
Non è facile, infatti, passare da processi decisionali accentrati, con autorità definite e stretta supervisione, a processi decisionali più spostati sulla linea operativa, con  maggiore autonomia  e attribuzione di poteri ai livelli adeguati (avviando quel moderno approccio di sviluppo organizzativo che gli anglosassoni chiamano 'empowerment').
Così come non è facile ed immediato passare:

  1. da una direzione del lavoro che punta molto sul rapporto capi-collaboratori ad una che dia valore al lavoro di squadra, in cui il  responsabile di unità organizzativa diventa un coordinatore, un vero e proprio gestore di risorse; 
  2. da una organizzazione del lavoro a compartimenti stagni ad una più interfunzionale e partecipativa, in cui il lavoro di gruppo ed i gruppi autonomi e semi – autonomi sono gli assi portanti.

 

Nella secolare e complessa questione del contrastato rapporto tra capitale e lavoro, tra alta direzione e subordinati, il dipendente vive già una situazione di frustrazione in quanto inserito all’interno di un’attività produttiva di cui non conosce né l’inizio (non intervenendo sulla regolazione del ciclo produttivo) né la destinazione.  
E’ una situazione tipica del sistema industriale, capital intensive, ma che non è infrequente trovare in molte aziende del settore dei servizi: “l’alienazione oggettiva dell’uomo dal prodotto e dal processo produttivo è una conseguenza naturale della struttura legale del capitalismo moderno e della moderna divisione del lavoro. (…) Con la divisione dettagliata del lavoro, è ovvio, l’individuo non esegue l’intero processo della lavorazione sino al prodotto finito e in moti casi, oggi, tale processo non gli è neppure visibile. Il prodotto, obiettivo ultimo della sua fatica, è giuridicamente e psicologicamente distaccato da lui e tale distacco priva di concretezza il significato che il lavoro potrebbe assumere grazie ai suoi processi tecnici.”       
Sono affermazioni di Charles Wright Mills, sociologo vissuto nel secolo scorso, che ha tenuto per lungo tempo la cattedra di sociologia alla Columbia University, tratte dal suo libro Colletti bianchi: il ceto medio americano.(1)
Una delle fondamentali manifestazioni dell’uomo è il lavoro e la società civile è basata sulle attività lavorative dei suoi membri, ma, come afferma Mills, le modificazioni profonde nell’organizzazione del lavoro dipendente possono mutare radicalmente quelle strutture e quell’ordine.
Secondo Mills, il progresso industriale e lo sviluppo tecnologico, con le  profonde modificazioni che lo stesso comporta nell’organizzazione del lavoro (dalla divisione dettagliata del lavoro, all’accentramento del potere decisionale, alla burocratizzazione) crea alienazione, tensioni e squilibri sociali.

Sindrome di Sisifo
Si crea quella sintomatologia che il professor Beppe Carrella, docente di Organizzazione e Sistemi presso l’Università Federico II di Napoli, durante il citato convegno, ha efficacemente e brillantemente definito “Sindrome di Sisifo”.
Sisifo è il personaggio mitologico greco, figlio di Eolo, condannato nell’Ade a sospingere su per un pendio un macigno che, giunto in vetta, rotola ogni volta verso il basso.
Un’allegoria dell’inutile sforzo della volontà umana e dell’incomprensibile fine e dell’apparente assurdità, insensatezza di alcuni specifici, limitati compiti, che stride fortemente con il dettato costituzionale che negli articoli da 35 (soprattutto) a 38 sviluppa i principi fondamentali posti dall’art. 4 in tema di diritto-dovere del lavoro, affermando la tutela del lavoro, la cura della formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori.
La prassi manageriale tradizionale, più disattenta e diffusa, che fa molto affidamento sulle nuove tecnologie e sul taglio dei costi, non ha saputo elaborare un modello di gestione strategica del business capace di contemperare l’interesse degli azionisti con quello dei dipendenti.
Ciò anche a causa del fatto che la gestione contabile con la sua conseguente sintesi, rappresentata  dal bilancio di esercizio, non è in grado di fornire un quadro completo ed esaustivo della capacità intrinseca di un’azienda di gestire tutti i fattori che producono reddito.

Gli asset intangibili, la formazione e un'ipotesi di patrimonializzazione
Un’azienda, infatti, non è solo ciò che emerge dal suo stato patrimoniale, ma soprattutto quel  sistema organico di energie organizzate e di asset intangibili che fa la differenza rispetto ai competitors:  conoscenze detenute dai dipendenti, forza di un marchio, attenzione alla qualità, capacità di trattenere e fidelizzare la clientela, formazione, motivazione, ecc.
Tutte poste che sfuggono ad una puntuale valutazione economica o trattate come puri costi di esercizio e, come tali, da contenere laddove le risorse siano insufficienti.
Per quanto bizzarra, infatti, non sottovaluterei un’ipotesi di patrimonializzazione di detti costi, che, pertanto, definirei meglio investimenti, da ammortizzare in quote costanti nel periodo di sostenimento e nei successivi, con conseguente costituzione di riserve disponibili il cui ammontare sia almeno pari alla quota di costo non ancora ammortizzata (per evitare che la differenza venga distribuita sotto forma di utile ai soci, agli azionisti).
Una soluzione, dunque,  sul tipo di quella già messa in atto  per i costi di impianto, ampliamento, ricerca, sviluppo e pubblicità, previo consenso del collegio sindacale.
Ciò, ovviamente, richiederebbe una rivoluzionaria modifica dell’attuale normativa civilistica e fiscale.
Una situazione che i principi contabili internazionali di redazione del bilancio (in particolare gli IAS (2)19 e 38) non mi pare abbiamo modificato.
La formazione non può continuare, in modo miope, ad essere considerata un costo che esaurisce la sua utilità in un solo periodo amministrativo, ma deve essere vista come un investimento che manifesta i suoi benefìci economici lungo un arco temporale di più esercizi che ne giustificano la capitalizzazione e, quindi, la sua imputazione in più anni tramite le quote di ammortamento.
Ora, invece, i costi di addestramento e qualificazione del personale sono capitalizzati solo quando sono sostenuti in relazione ad un’attività di avviamento di una nuova impresa o di una nuova attività dell’impresa  ovvero  quando sono direttamente sostenuti in relazione ad un processo di  riconversione o ristrutturazione industriale o commerciale, purché tale processo comporti un profondo cambiamento nella struttura produttiva, commerciale ed amministrativa dell’impresa; in tutti gli altri casi sono considerati costi di periodo e, pertanto, vengono iscritti nel conto economico dell’esercizio in cui vengono sostenuti.
Così come avviene sempre per i costi di formazione, interamente spesati a conto economico.
Per non parlare, infine, del Know-how:

  1. frutto dell’esperienza e della pratica, ossia del risultato di sperimentazioni attuate e studi compiuti all’interno di un’azienda non brevettati e non brevettabili;
  2. non rilevato dalle imprese in fase di redazione del bilancio di funzionamento, ma solo a seguito di operazioni di gestione straordinaria quali il conferimento di azienda, la fusione, la scissione.

1 - Charles Wright Mills, White Collar: The American Middle Classes, 1951; trad. it. presso Einaudi.

2 - International Accounting Standards, principi contabili internazionalmente riconosciuti.

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