BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 24/01/2011

A GIANFRANCESCO PRANDATO ED ALLA COSTRUZIONE COMUNE - CON AL CENTRO LE PERSONE - CHE ENTRAMBI AUSPICHIAMO

di Luigi Adamuccio

Qualunque cosa tu possa fare, qualunque sogno tu possa sognare, comincia. L’audacia reca in sé genialità, magia e forza. Comincia ora.
Johann Wolfgang Goethe


Riprendo a scrivere su “Bloom” dopo un lungo periodo di assenza, dovuto ad impegni di lavoro, interrotto da qualche articolo sulla rivista “Persone & Conoscenze”, e lo faccio prendendo a spunto un vecchio contributo, apparso, sempre su”Bloom”, nel mese di maggio 2009, a firma di Gianfrancesco Prandato, dal titolo “Avvelenata”.

Detto contributo per chi volesse leggerlo è disponibile direttamente al seguente indirizzo:

http://www.bloom.it/prandato23.htm

Parto da questa sortita provocatoria di Prandato sia perché mi tira in ballo espressamente, sia perché mentre scrivo stiamo appena per venire fuori dal referendum degli operai FIAT di Mirafiori, che potrebbe segnare una nuova era.

Ma torniamo a Prandato.
      
In questa sorta di lettera con diversi destinatari, Gianfrancesco Prandato critica gran parte della comunità di “Bloom”:

 

Ciò, a prescindere dai passati meriti che pure riconosce a Francesco Varanini ed allo straordinario e ricco mondo di “Bloom”, una miniera inesauribile fatta di manager, consulenti, pubblicisti, professionisti di varia estrazione, che coraggiosamente trattano temi cruciali di progettazione o gestione delle moderne imprese, ponendo e ponendosi domande molto spesso fuori dal coro.

Lo dico subito: non spenderò molte parole a favore di una comunità che, a mio avviso, non ha bisogno di alcuna difesa d’ufficio e che merita, invece, ogni possibile lode per il contributo che, anche se con qualche soluzione di continuità e qualche piccola concessione, di tanto in tanto, all’astratta dissertazione teorica, riesce a fornire al dibattito sulle scelte competitive e sull’orientamento di lungo periodo per uno sviluppo sostenibile delle aziende preziosissime riflessioni.

Ho peraltro il piacere di conoscere, anche personalmente, molte delle persone che ruotano intorno a “Bloom”, da Francesco Varanini e Davide Storni, ma non ho il piacere di conoscere Gianfrancesco Prandato.

Comprendo benissimo come la sua sia solo una provocazione, nel tentativo di rivitalizzare “Bloom” e di risvegliare l’intera comunità che vi ruota intorno da un torpore che mal celatamente tollera da parte di persone che, a suo dire, non molto tempo fa garantivano spunti innovativi, riflessioni e stimoli in grado di far crescere chiunque avesse modo di avvicinarsi a loro, anche solo attraverso la lettura dei loro “contributi”.

Questo è quello che mi è sembrato volesse porre in risalto in quel contributo critico di maggio 2009, nel quale, tra gli altri, come dicevo, vengo tirato in ballo anch’io.  
La domanda diretta che Prandato mi poneva è dove io vedessi le organizzazione che descrivevo (e che mi è capitato di continuare a descrivere anche successivamente): verticistiche, con una netta separazione tra proprietà aziendale e top management da un lato (impegnati ad elaborare strategie poco chiare e poco condivise, a pianificare attività e investimenti, ad assumere decisioni) ed il resto del personale dipendente dall’altro (spesso impegnato ad eseguire solo compiti ripetitivi, privi di significatività e alienanti, con scarsa visione degli obiettivi generali).
Bene!
Io sono convintissimo, come penso anche Prandato, che i sistemi piramidali non funzionino più, che servano leader che, unendo tecnica e talento, non si pongano nei confronti dei “sottoposti” come capi, ma come gestori e coordinatori di risorse, che  sappiano comunicare e trattino i membri della loro equipe, del loro team non come strumenti, ma come persone,  libere di confrontarsi.
Ma siamo proprio certi che quelle aziende alle quali accennavo, quelle “organizzazioni”, non esistano più? Che, al di là delle fortunate esperienze personali, siano solo un ricordo del secolo scorso? Che non vi siano ancora in giro amministratori delegati, direttori generali e, più genericamente, uomini di vertice che hanno forti remore nel diffondere compiutamente i piani strategici nel timore di doversi misurare con gli stessi e con il fallimento degli obiettivi in essi  inizialmente posti? Che non vi siano in giro, in qualche convegno sull’importanza degli “asset intangibili”, Direttori del Personale che il giorno prima parlano bene delle risorse umane ed il giorno dopo firmano lettere di licenziamento, per mere esigenze di bilancio, senza tenere nel giusto conto le difficoltà che quelle persone avranno nel trovare un nuovo lavoro in un mercato rigido come il nostro?
E quanta parte di questa “nuova classe” di manager o leader è in grado di svolgere quello che dovrebbe essere il suo vero compito: accettare le persone per come sono, aiutarle a valorizzare i loro punti di forza, a colmare le loro  lacune, per aiutarle, anche attraverso riconversioni, a diventare ciò che possono essere?
A  Gianfrancesco Prandato vorrei chiedere: “In un Paese (l’Italia) in cui la satira ed i giornalisti sono chiaramente e spudoratamente schierati, rinunciando ad una naturale caratteristica che dovrebbe attribuire loro il sigillo della imparzialità ed attendibilità, ed in cui persino i magistrati, terzi per definizione costituzionale, finiscono per essere definiti di destra o di sinistra, che necessità c’è di “classificare” una comunità scientifica, un gruppo di pubblicisti, manager e consulenti, quelli che appunto scrivono su  “Bloom”, un covo di comunisti?”.
Noi, che gestiamo risorse umane per ragioni formative o di funzione/servizio, che abbiamo un po’ di anni di anzianità di servizio alle spalle e la fortuna di ricoprire un ruolo in azienda più o meno di rilievo, dobbiamo andare contro questa spirale ossessiva della catalogazione che sembra prendere in alcuni momenti il livello del dibattito, del confronto.
Forti delle esperienze personali e professionali, consapevoli delle responsabilità ricoperte e dell’impegno che ci viene richiesto nelle scuole di formazione manageriale o in azienda, dobbiamo essere centrali rispetto ai problemi e non dobbiamo, invece, farci inquinare o trascinare da estremizzazioni in un senso o nell’altro, poiché nell’attuale sistema economico (gli esempi non mancano e lascio a Gianfrancesco Prandato l’impegno di elencare i casi concreti che hanno riempito i giornali di tutto il mondo in questi ultimi mesi) esistono problemi di natura organizzativa che vanno affrontati e possibilmente risolti con rigore e determinazione.
Abbiamo la responsabilità di far fare ai futuri leader e manager ed al sistema delle aziende, da quelle locali a quelle multinazionali, significativi passi in avanti portando al centro dell’attenzione i temi della gestione per processi, della conoscenza organizzativa e della gestione delle risorse umane.
E benché tutti i modelli, tutto il nostro operare, è difficile negarlo, abbiano una matrice, se vogliamo dire così, culturale e/o ideologica, questi temi  non possono essere visti sotto il profilo ideologico, bensì su di un piano razionale, senza strabismi di tipo vecchio o nuovo!
Lo dico, convinto che anche Gianfrancesco Prandato la veda così, da destra o da sinistra o da qualsiasi punto si metta ad osservare, sia pure da quella sorta di caleidoscopio rappresentato dal Nord America con le sue variegate realtà.
Abbiamo assistito negli ultimi venti anni al sorgere ed all’emergere di imprese particolarmente agili,   flessibili, pronte immediatamente ad affrontare ogni modifica organizzativa richiesta dalle evoluzioni del mercato, ma orientate ad ottimizzare solo i risultati a breve, votate soprattutto al perseguimento di obiettivi di carattere economico, identificati con il profitto da offrire agli azionisti, abbandonando ogni responsabilità sociale. Quelle aziende che Edward Nicolae Luttwak, noto saggista, esperto di economia, politica e strategia militare, ha brillantemente ed efficacemente battezzato “lean and mean” (snelle e malvagie).
La grave crisi economica, originatasi negli Stati Uniti e succedutasi a quella creditizia e finanziaria, ha investito tutto il mondo  economico, dimostrando in maniera inequivocabile che l’aver fatto della finanza e del profitto tout-court gli unici obiettivi fondamentali del nostro agire è stato un errore gravissimo.
E per certi vertici aziendali è fin troppo semplice scaricare sull’anello più debole gli effetti della grave crisi, che si somma a passate scelte strategiche sbagliate, intaccando diritti acquisti in anni ed anni di lotta e di conquiste dei lavoratori, cancellandoli dall’oggi al domani e sacrificandoli sull’altare di quella degenerata teoria manageriale che subordina il conseguimento di maggiori profitti ad una sempre più selvaggia deregolamentazione del mondo del lavoro.
Troppo di sinistra questa posizione?
Non mi attardo nel definire, in modo temerario, cosa io intenda per teorie organizzative e prassi manageriali di destra e cosa per teorie e prassi manageriali di sinistra.
Mi preme, invece, sottolineare quello che io penso non sia necessariamente di sinistra.
Non penso sia necessariamente di sinistra affermare, come già fatto in altre occasioni, che il management aziendale abbia oggi il dovere, più di prima, di:

Definirei queste soluzioni semplicemente come “corretto agire sulle varie leve organizzative”.
Così, se vogliamo restare nell’ambito di questo gioco di cosa sia di “destra” o “sinistra”, credo che non possa sicuramente ascriversi a quest’ultima il concetto da me spesso tirato in ballo di  “intraprenditorialità” o “entrepreneurship”, che si traduce in:

Intraprenditorialità è, più semplicemente, ciò che ognuno di noi fa ogni giorno lavorativo trattenendosi ben oltre l’orario, fino a tarda sera, nel suo ufficio, pur avendo un inquadramento di dirigente o quadro direttivo e, quindi, senza alcun beneficio nella busta paga di fine mese, non venendogli corrisposto alcun compenso a fronte del lavoro “straordinario” svolto.
 
In fondo, se il personale prende coscienza di un dovere, un obbligo morale nei confronti della propria azienda, sentirà sempre meno come peso l’impegno fisico e mentale: si lavora tutti insieme, avendo come comune obiettivo la sopravvivenza ed il successo della propria azienda.

In fondo è il segreto del successo di molte piccole e, soprattutto, medie imprese italiane.

Il nostro tessuto industriale, infatti, è rappresentato dalla piccola e media impresa, prevalentemente a controllo familiare, legata a modelli organizzativi di tipo “domino – virtuale” o “olonico – virtuale” e ad una struttura del mercato in larga parte per distretti e reti.

Il successo lì si fonda sull’intuito, l’abilità, sulla collaborazione anche tra imprenditori, sulla vicinanza dei vertici ai lavoratori, sul lavoro specializzato, sul fatto di sentirsi tutti un anello importante della catena, rifuggendo da strumenti manageriali sofisticati, preconfezionati, standardizzati, portati avanti da guru e dalle grandi, oligopolistiche società di consulenza.

Mi pare sia innegabile che per incrementare la produttività, occorra agire non solo sul particolare compito da realizzare per renderlo meno monotono, ma anche sui fattori sociali in cui lo stesso è svolto (clima aziendale, coinvolgimento teso a rendere meno alienanti le mansioni routinarie, comunicazione e coesione) e sulle caratteristiche personali dell’operatore chiamato a svolgerlo; su tutto quello che possiamo definire consapevolezza della necessità di prendere in considerazione i bisogni, le ambizioni dei lavoratori, le condizioni di lavoro in senso lato.
Se vogliamo metterla su un livello più accademico, non è mica colpa mia o nostra (ossia di noi che scriviamo su “Bloom”) se si è giunti persino a criticare il modello c.d. delle “cinque forze” di Porter, autorevolissimo professore presso la prestigiosissima Harvard Business School, nel momento in cui parlando dei fattori concorrenziali allargati, si è messo in rilievo il limite del citato modello dovuto al fatto che l’analisi strategica rimane al livello di prodotto e di mercato, non andando, invece, a verificare quali possono essere le ragioni profonde del vantaggio competitivo (risorse e competenze interne).     
Non è  colpa mia se nella sociologia organizzativa esiste la corrente di pensiero della c.d. “Scuola delle Relazioni Umane”  e, più di recente, della c.d. “Scuola delle Neo-relazioni Umane”, per le quali, in buona sostanza, una gestione autoritaria e burocratizzata, di impronta chiaramente tayloristica, si è dimostrata non in grado di garantire l’ottimizzazione degli obiettivi di efficienza  aziendale.
Non è colpa mia (né, purtroppo per me, mio merito) se, riconoscendo il ruolo e la rilevanza del personale in ogni azienda, esiste la teoria manageriale detta “Human Resources Management” che si basa su di una nuova  gestione dei dipendenti con forme di decentramento decisionale e di flessibilità dell’organizzazione aziendale, fondate sulla partecipazione, sull’integrazione, sulla qualità.
Ho trovato molto interessante, di recente, soprattutto per la sua chiarezza espositiva, l’articolo di Eliana Minelli su “Sviluppo & Organizzazione” di maggio/giugno 2010.
In quell’articolo, Eliana Minelli, arriva a mettere in discussione i presupposti etici degli studi di management e, prendendo spunto dall’uscita dell’ultimo libro di Francesco Varanini (“Contro il management”), accenna agli studi di “critical management “ (approccio teorico antitetico ai modelli manageriali dominanti, che adotta un atteggiamento molto critico verso i temi tradizionalmente affrontati dalle discipline manageriali, sviluppate grazie a meccanismi ideologici di condizionamento sociale e di indirizzo economico) ed al contributo di questi studi al rinnovamento del ruolo del management, attento soprattutto alla sua carriera.
Come diceva John Seely  Brown, ricercatore e consulente di organizzazione americano: “Non sono i processi a fare il lavoro, ma sono le persone”.

Ritengo che questi siano passaggi fondamentali perché il rapporto tra territorio, impresa, parti sociali, si confermi, si vivifichi, si consolidi e dia i frutti attesi in termini di trasparenza, di coinvolgimento, di sano recupero della produttività e della redditività con ricadute sul sistema produttivo nazionale ed internazionale.
Per tutto questo, dunque, Gianfrancesco Prandato non veda in noi dei novelli Tersite(1): dei demagoghi vili, insolenti, tracotanti e disfattisti!

Né lui si senta un novello Ulisse(2)!
Chiudo con dei versi dello scrittore, del  poeta e del saggista uruguaiano, appena scomparso, Mario Benedetti,  tratti dalla poesia “Gente che mi piace”, che dedico, senza alcun rancore, a Gianfrancesco Prandato, che sono convinto essere dalla nostra parte.
Mi piace la gente che vibra, che non devi continuamente sollecitare e alla quale non c’è bisogno di dire cosa fare (…).
Mi piace la gente giusta e rigorosa, sia con gli altri che con se stessa, purché non perda  di vista che siamo umani e che possiamo sbagliare.
Mi piace la gente che pensa che il lavoro collettivo, fra amici, è più produttivo dei caotici sforzi individuali.
Mi piace la gente sincera e franca, capace di opporsi con argomenti sereni e ragionevoli. (…)
Mi piace la gente capace di criticarmi costruttivamente e a viso aperto: questi li chiamo “i miei amici”.
Mi piace la gente fedele e caparbia, che non si scoraggia quando si tratta di perseguire traguardi e idee. Mi piace la gente che lavora per dei risultati.
Con gente come questa mi impegno a qualsiasi impresa, giacché per il solo fatto di averla al mio fianco mi considero ben ricompensato.


1) Tersite rappresenta l’antieroe che non si attiene al codice d'onore dei soldati valorosi, non rispetta la gerarchia imposta dalla tradizione, non è di bell'aspetto e non perde occasione per parlar male dei re. Rivendica i diritti dei semplici soldati che vedevano la guerra come un sacrificio, un disagio, condotta solo negli interessi degli aristocratici, mentre i capi potevano godere di tutte le comodità e gli agi negati alla massa.

2) Ulisse rimbrotta,  schiaffeggia e colpisce con lo scettro Tersite per costringerlo a tacere una buona volta per sempre, evitando così che continui a sobillare il soldati.

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