BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 02/02/2004

IL "COST SAVING", LA CENTRALITA' DEL MARGINE DI CONTRIBUZIONE RELATIVO ED IL TRADE OFF TRA EFFICIENZA E QUALITA'

di Luigi Adamuccio

Le crescenti pressioni competitive alle quali sono sottoposte, richiedono alle imprese la dotazione di strumenti manageriali adatti a governare la complessità della gestione. 

In tale quadro, un ruolo centrale stanno sempre più assumendo gli interventi c.d. di “cost saving”, tesi a rendere più efficiente - sia dal punto di vista operativo che economico – una determinata struttura organizzativa, mediante razionalizzazione e/o ottimizzazione dei suoi principali processi operativi e gestionali interni.

Interventi di “Cost saving”, in buona sostanza, sono tutti quei progetti più o meno complessi, continui, sistematici ed organici che hanno come obiettivo la riduzione dei costi del personale (attraverso più o meno dolorose azioni di “downsizing” o “rightsizing”) e la revisione dei processi interni.

Si caratterizzano, inoltre, per:

*      l’elevata misurabilità del valore economico degli investimenti a monte;

*      la facile misurabilità dei benefici che ne derivano, in quanto sono progetti con impatto diretto sul conto economico.

La maggiore visibilità che questo tipo di interventi garantisce nei confronti dell’Alta Direzione e degli stakeholders, spiega in parte la maggiore propensione dei managers a percorrere questa strada rispetto ad altre alternative, in grado di garantire comunque sufficiente alimento alle possibilità di vita di un’azienda.

Giusto per avere un’idea i progetti di revisione del modello organizzativo, di lancio di una campagna commerciale o di sviluppo di un nuovo prodotto hanno una minore misurabilità del valore economico dell’investimento a monte e,  rispetto ad un progetto di “cost saving”,  hanno benefici meno tangibili nell’immediato a causa del loro impatto “ritardato” sul conto economico.

Pur tuttavia, al di là di ogni possibile strumentalizzazione, poiché gli interventi di “cost saving” si caratterizzano per:

*      una rilevanza strutturale che tocca la sfera strategica;

*      le inevitabili ricadute di natura sindacale;

*      il notevole impatto organizzativo e la notevole difficoltà tecnica di implementazione a causa della connaturata resistenza umana al cambiamento,

una loro buona riuscita richiede, come condizione basilare:

*      un orientamento aziendale al miglioramento continuo dei processi, con logiche di kaizen o BPI;

*      il convinto supporto ed il necessario “commitment”  dei vertici aziendali e delle diverse unità coinvolte a garanzia del massimo sforzo comune;

*      la responsabilizzazione su obiettivi di riduzione dei costi mediante prospettive di MBO e sistemi incentivanti dedicati, proporzionati al ruolo ed alla posizione gerarchica, ma a beneficio di tutto il personale;  

*      un’analisi critica che riesca a tenere presenti anche le esigenze del cliente finale.

Queste sono condizioni necessarie ma non ancora sufficienti.

Ed infatti, per avere un buon progetto di “cost saving” occorre, inoltre, che:

1.      ogni intervento venga gestito con logiche e metodologie di Project management, focalizzando l’attenzione su obiettivi, tempi e risorse;

2.      il processo di valutazione a monte comprenda tutti gli interventi, anche al fine di selezionare quelli a cui dare la priorità in funzione del maggiore valore atteso e dei vincoli di base sulla disponibilità di risorse;

3.      gli interventi in piano siano sottoposti a valutazioni sia economiche, con utilizzo di tecniche di “value analysis” (mediante specifici indicatori finanziari tanto cari ai Controllers ed ai Responsabili di Capital Budgeting: Net Present Value, Payback period, Econimic Value Added, ecc.), che di fattibilità pratica e di rischio (di slittamento dei tempi o di fallimento), di impatto organizzativo (necessità di formazione, di ampliamento dell’organico) e sull’utente finale (a livello di immagine e di customer satisfaction); 

4.      vengano attribuite correttamente le responsabilità di conduzione progettuale;

5.      venga attribuito correttamente il budget in capo ai gestori del progetto una volta realizzato;

6.      sia presente una fase di monitoraggio ex post, al fine di presidiare la generazione dei costi futuri e  rendere strutturale l’intervento realizzato. 

Solo in tal modo gli interventi potranno creare valore aggiunto.

Ma quando si ha valore aggiunto e cosa si intende per tale?

Di primo acchito valore aggiunto può essere definito la differenza tra ricavi e costi dei materiali e servizi acquistati da organizzazioni esterne, contrapposti a quelli prodotti internamente.

Ma questo è un concetto molto limitato di valore aggiunto, inteso in senso ragionieristico ed avendo come punto di riferimento solo l’azionista e l’azienda nel suo complesso (e non le singole attività).

Il valore, invece, come ho avuto modo di precisare nel mio precedente contributo, sebbene creato dal produttore è definito dal cliente (il customer).

E quando l’ottica è quella del cliente, ciò che sembra relativamente facile in economia aziendale o nella astratta teoria organizzativa, diventa di non univoca definizione e di non facile determinazione nella pratica.

Valore può essere maggiore qualità ma anche un tempo più rapido di consegna di un prodotto.

Qui il punto focale non è più l’azienda ma il suo sistema circolatorio, ossia l’insieme dei processi, i cui output, come è noto, presentano maggior valore (valore aggiunto) se possiedono maggiore qualità e/o migliore capacità di servizio e se richiedono minori tempi e costi.

Allora, se ci sforziamo di concentrare la nostra attenzione su due sole determinati, ossia i costi e la capacità di servizio intesa come capacità di soddisfare un bisogno del cliente, per esigenze di semplificazione possiamo giungere ad assumere la seguente equazione: 

Maggior valore aggiunto = Migliore margine di contribuzione relativo

E ciò sulla base della considerazione che, se valore è tutto ciò che fa aumentare la quota di mercato di un prodotto/servizio e ne fa aumentare le vendite, un migliore margine di contribuzione è, in buona sostanza, un indice significativo della maggiore redditività e, quindi, del maggior successo/gradimento presso il pubblico di  un prodotto/servizio rispetto ad un altro.

E su questa proposizione, che costituisce la base per lo sviluppo del ragionamento qui di seguito esposto, cercherò, seguendo una linea logica che spero sia coerente, di:

*      trarre e formulare non un’astratta generalizzazione teorica ma un pratico e oggettivo criterio che permetta di valutare e controllare lo stato attuale di un “business” e di delineare una concreta linea d’azione nella direzione di una maggiore efficienza;

*      mettere in evidenza  il trade off esistente tra costi e qualità, ovvero tra efficienza, efficacia e adeguatezza degli organici di una azienda rispetto ai suoi competitors più prossimi.

Business e Strategia

Il “business” di una azienda non è altro che la descrizione del contesto nel quale la stessa opera.

Le caratteristiche e le modalità operative con cui un’azienda affronta il proprio business sono definite dalla sua strategia, cioè dall’insieme di piani, decisioni e obiettivi correnti adottati dalla stessa azienda allo scopo di raggiungere determinati obiettivi organizzativi.  

E’ inutile sottolineare l’importanza di entrambi i concetti: un management che non ha una  approfondita conoscenza del proprio business e non delinea in modo chiaro le modalità con le quali intende operare in esso è destinato quasi ineluttabilmente a scelte organizzative e gestionali non coerenti.

Un management capace, invece, deve:

*      saper leggere, cioè capire, qual è il proprio business e quali sono le prospettive future;

*      avere ben definita la strategia con la quale approcciare o “interpretare” questo business per ottenere o mantenere uno o più vantaggi competitivi;

*      riuscire ad operare una netta distinzione tra fasi del business, definite strategiche, sulle quali va focalizzata l’attenzione e fasi del business, non strategiche, che possono anche non essere presidiate direttamente ma gestite con formule alternative.

Se si riesce a delineare una “linea d’azione” o, meglio, un “business model” di crescita selettiva, la concentrazione della stessa quantità di risorse su un numero limitato  di attività/prodotti/servizi permette di raggiungere posizioni di preminenza sui mercati.

Questo è l’obiettivo cui devono tendere gli interventi di “cost saving”, ossia:

*      ottenere il dimensionamento ideale degli organici sulla base degli ordinari carichi di lavoro e dei prefissati obiettivi (commerciali o, in senso più ampio, economico- finanziari);

*      governare i costi mediante un costante presidio degli input e delle performance dei processi, secondo logiche di ABC, ABM, VBM, ecc.;

*      ottenere economie di spesa focalizzando l’attenzione sui processi “core business”.

Ma stante la difficoltà di tagliare i costi correnti che garantiscono la sopravvivenza dell’azienda, un buon manager, capace di guardare al  futuro, se chiamato a porre in atto interventi di “cost saving” deve concentrarsi sugli sprechi (i muda) per non correre nella facile tentazione di tagliare i costi strategici.

I costi strategici 

Dopo aver delineato il proprio “business model” e scelto la strategia aziendale atta a perseguirlo, il passo successivo è rappresentato dall’individuazione di quali costi debbano essere considerati “strategici”.

Non tutti i costi, infatti,  sono tali o sono tali per sempre. 

Alcuni costi possono esserlo stati in passato ma non più oggi, a causa della diversa interpretazione data dall’azienda al proprio business o a causa di evoluzioni, sempre più frequenti, di questo.

Costi strategici sono i costi che rappresentano la priorità nella progettazione/definizione della struttura di costo dell’azienda in quanto collegati alle fasi “core” del business, definite strategiche, sulle quali si è deciso di focalizzare l’attenzione e mantenere un presidio diretto.

Se non è possibile tagliare i costi strategici, le economie possono essere ottenute solo se  per gli altri costi, quelli non strategici, si è pronti ad adottare logiche di outsourcing o buy.

Continuare a gestire fasi del business non strategiche o processi “non core” non solo assorbe risorse dalla fasi o dai processi più importanti, ma rende anche meno efficaci gli sforzi di ottimizzazione dei costi, disperdendoli su attività prive di valore aggiunto.

Una volta eliminato il problema del presidio diretto di fasi lavorative non strategiche, ci si può concentrare sugli altri costi, nel tentativo di introdurre leve organizzative tese a rendere la struttura più efficiente.

La centralità del margine di contribuzione nelle sue varie accezioni

In considerazione di tutto quanto precede, un ruolo centralità - nei piani di “cost saving” per il guadagno/il recupero di produttività e di efficienza economica – va riconosciuto al margine di contribuzione.

Ed infatti, la distinzione tra attività strategiche/costi strategici e attività/costi “non core”, anche se necessaria, in un sistema di risorse scarse, non è più sufficiente.

Tra le stesse attività/gli stessi servizi/gli stessi prodotti “core business”, infatti, occorre selezionare quelle/quelli a cui dare la priorità in funzione del maggiore valore atteso e dei vincoli di base sulla disponibilità di risorse.

Ed è a questo punto che entra in scena il principio, accettato all’inizio come evidente, secondo il quale la priorità tra attività/prodotti/servizi di una stessa azienda va stabilita partendo dal margine di contribuzione, ovvero dalla capacità delle varie attività/dei vari servizi/dei vari prodotti di coprire i costi fissi e partecipare alla formazione del risultato finale.

Esistono, però, diverse accezioni di margine di contribuzione.

Il margine di contribuzione di 1° livello o lordo si ottiene come differenza tra i ricavi dell'attività/del servizio/del prodotto ed i costi variabili dell'attività stessa/del servizio stesso/del prodotto stesso.  

Il margine di contribuzione di 2° livello, invece, si ottiene sottraendo dal margine di contribuzione di 1° livello i costi fissi specifici dell'attività/del servizio/del prodotto  considerato (es: ammortamento impianti specifici, costi assicurativi e tutti gli altri costi fissi che sparirebbero se quell'attività/quel servizio venisse interrotta/o).

Ma quello che maggiormente qui ci interessa è il margine di contribuzione relativo, meglio se di 1° livello, più obiettivo e facilmente determinabile, ottenuto dal rapporto tra margine di contribuzione di 1° livello e ricavi; l’attenzione non va, infatti, limitata al margine di contribuzione assoluto, in quanto non sempre il valore più alto corrisponde all'attività/al servizio/al prodotto più redditizio.

Per attività/servizi/prodotti ad alto valore aggiunto, da privilegiare, dunque, in termini di risorse umane e budget di spesa a disposizione, devono essere intese le attività/i servizi/i prodotti che possiedono contemporaneamente le seguenti caratteristiche:

*      sono alla base del “business” aziendale;

*      sono caratteristici del settore in cui si opera;

*      sono essenziali per il soddisfacimento di un bisogno del cliente esterno;

*      realizzano la "mission" aziendale;

*      hanno un alto impatto sui risultati aziendali, in termini di margine lordo di contribuzione relativo.

Le attività a valore aggiunto basso o nullo, nell'ordine, devono essere:

*      oggetto di riorganizzazione;

*      accentrate (qualora possibile);

*      ridimensionate, mettendo loro a disposizione limitate risorse umane o finanziarie,

al fine di minimizzarne i costi e ottenere la massima efficienza operativa.

Le lean organizations

Per fronteggiare le sfide di un ambiente di riferimento sempre più turbolento e di una concorrenza globale più aggressiva, alle aziende non resta che progettare strutture snelle e piatte che:

*      legano una parte significativa della retribuzione al rendimento di gruppo o, meglio ancora, all’andamento aziendale;

*      esaltano la capacità di gestire flessibilmente gli organici, al fine di ottenere un equilibrio costante tra organico disponibile ed organico necessario.

La risposta a questa esigenza sta in un modello organizzativo nuovo (la “lean organization”),  che rompe con la visione tradizionale del lavoro subordinato e presuppone una politica dell’impiego completamente diversa e flessibilizzata.

La logica del lavoro subordinato resta solo per uno staff limitato di lavoratori, qualificati dalle loro competenze, da occupare nelle attività primarie non esternalizzabili.

Questa categoria di collaboratori dovrà naturalmente operare con grande flessibilità su un arco notevolmente ampio di mansioni e di funzioni, a seconda delle esigenze aziendali, in modo da garantire l’adattabilità del sistema di appartenenza alla dinamica ambientale.

Attorno a questi lavoratori dovrebbe ruotare un sistema di gruppi professionali più o meno agganciati all’azienda, quali, ad esempio, lavoratori part-time od occasionali, lavoratori temporanei, fornitori esterni con contratto di appalto, partners, consulenti e, soprattutto, outsourcers.

La c.d. terziarizzazione di interi comparti sta assumendo sempre più consistenza, proprio in ottica di “cost saving” ed al fine di  accrescere i margini di flessibilità, con contestuale trasformazione di alcuni costi fissi in costi variabili.

 

I vantaggi derivanti da tale specifica scelta organizzativa possono essere così sintetizzati:

*      recupero di risorse da destinare ad attività che rappresentano il “core business”;

*      affidamento a terzi di compiti ripetitivi, poco stimolanti e qualificanti senza alterare il posizionamento strategico dell’azienda;

*      generazione di maggior  valore (qualità, tempi, livelli di servizio);

*      maggiore efficienza operativa ed economica.

Anche il modello che sta prendendo piede di recente, il cosiddetto “modello a rete”, altro non è che una forma particolare di affidamento all’esterno di comparti non strategici. 

Detto nuovo modello strutturale si caratterizza per le seguenti peculiarità:

*      articolazione dell’azienda in unità operative esterne, autonome e flessibili;

*      assunzione, da  parte   delle   unità   autonome,   della   forma giuridica e del modello organizzativo più adatti a garantire l’integrazione con il mercato o con l’ambito di intervento;

*      decentramento delle responsabilità decisionali.

A fronte di una necessaria leadership forte a livello centrale e di necessarie competenze e figure imprenditoriali diffuse,  il “modello a rete” presenta i seguenti punti di forza:

*      supera i vincoli  di funzionamento tipici  di alcune forme giuridiche;

*      le organizzazioni complesse vengono scomposte in moduli flessibili e più facilmente gestibili;

*      la cultura imprenditoriale viene diffusa all’intero gruppo;

*      ciascuna unità autonoma conserva le caratteristiche del sistema (es. standard di comunicazione e informazione, condivisione dei valori).

A tale nuovo modello sono sostanzialmente riconducibili le seguenti strutture organizzative:

*      la holding, che mantiene a livello centrale il ruolo di indirizzo, supporto e controllo (attraverso forme di partecipazione di capitale o forme di legame istituzionale) e decentra la gestione operativa ad unità autonome;

*      il sistema domino o olonico – virtuale, che riprende la configurazione del modello holding e lo estende a realtà (private e/o pubbliche)  completamente autonome,  mediante aggregazioni di più unità (enti, imprese, organismi), di volta in volta costituite per rispondere a determinati bisogni, anche temporanei, degli utenti ed in cui la leadership è assunta di volta in volta dall’unità più vicina al problema da risolvere o più competente.

Il trade off tra efficienza, efficacia ed adeguatezza e tra costi e qualità

Esiste una famiglia di indici fondamentali, riconosciuta sia dalla teoria organizzativa che dalla prassi manageriale, che permette di valutare sia il comportamento di una organizzazione che le performance di un processo secondo modelli di gestione aziendale: l’efficienza operativa (o produttività), l’efficienza economica (o economicità)  e l’efficacia.

L’efficacia di un processo fa riferimento alla capacità di questo di soddisfare le aspettative del suo cliente, di compiere le funzioni per cui è destinato, esprimendo pienamente e con immediatezza un concetto in senso qualitativo. L’efficacia non è altro che il rapporto tra risultati effettivamente conseguiti ed obiettivi elaborati all’inizio di un periodo.

L’efficienza, invece, è considerata come la ricerca di definiti standard di processo mirati alla:

*      minimizzazione delle risorse impiegate (riduzione al minimo dei tempi di ciclo o delle attese);

*      riduzione della necessità di operazioni di controllo e rettifica;

*      massimizzazione dei risultati.

In altri termini l’efficienza operativa di un processo può essere espressa dal rapporto tra i suoi risultati e le risorse dallo stesso impiegate, l’efficienza economica dal rapporto tra ricavi e costi.

In un ottica di “cost saving” e di corretto dimensionamento degli organici, agli accennati  indicatori ne va aggiunto uno ulteriore, ossia l’adeguatezza, espressa dal rapporto tra risorse ed obiettivi.

Questo nuovo indice è collegato da un lato alla necessità di trovare soluzioni che non privilegino solo i costi o gli obiettivi ma tengano conto anche delle caratteristiche delle risorse disponibili.

A ben guardare, infatti, l’adeguatezza non è altro che il rapporto tra efficacia ed efficienza: un aumento dell’efficienza (maggiormente focalizzata su aspetti quantitativi) a danno dell’efficacia (maggiormente focalizzata su aspetti qualitativi) non può che peggiorare il rapporto tra risorse e obiettivi e, quindi, generare inadeguatezza o insufficienza di organico.

Il tentativo di ridurre i costi, massimizzando il grado di utilizzo delle risorse a disposizione, può in effetti far perdere di efficacia commerciale.

Ed è proprio il tentativo di trovare il giusto equilibrio tra efficienza, dimensionamento ottimale delle risorse, economie di scala e di gestione da un lato e qualità, obiettivi commerciali, economie di scopo ed adeguatezza degli organici dall’altro, la sfida più impegnativa per il management aziendale.

Una pura e semplice azione di “cost saving”, infatti,  ha più a che fare con la stabilità che con la ricerca di nuove opportunità per l’innovazione e la crescita.

Le azioni da intraprendere non devono essere solo focalizzate al “cost reduction” ed orientate  al breve termine (al solo fine di garantirsi maggiore visibilità) ma, in linea con un qualsiasi programma di gestione della qualità, devono tenere nelle giusta considerazione le persone, dal momento che, dando loro il giusto valore e coinvolgendole completamente, possono diventare la vera chiave per competere con successo e raggiungere qualsiasi obiettivo, per quanto questo possa essere sfidante. 

Un’attenzione nuova, pertanto, va diretta verso aspetti quali la formazione, la riqualificazione professionale ed il riconoscimento del rendimento.

Di fatto, anche il ricorso all’outsourcing, uno degli strumenti di “cost saving” più utilizzato,  impone la creazione di nuove competenze interne per presidiare la società esterna (es. mediante dettagliati Service Level Agreements) proprio al fine di evitare o ridurre i rischi di disservizio all’interno e nei confronti della clientela.

Ed è in questo contesto che si vanno sempre più facendo strada metodologie per il “rightsizing”, ossia per la definizione del dimensionamento ottimale basato sul cliente (Customer based rightsizing) e non più sulla pura e semplice tempificazione standard delle attività elementari, di tayloristica memoria.

Ribaltando le logiche degli approcci di tipo tradizionale, ormai sorpassate, la clientela (non solo la sua numerosità ma soprattutto la sua tipologia) viene utilizzata come base di partenza di ogni calcolo, nel tentativo di conciliare la necessità di ridurre i costi con la valorizzazione delle competenze del personale che, se adeguatamente sfruttate, possono avere un elevato impatto sulla soddisfazione finale della clientela e fare la differenza nel confronto con la concorrenza.

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