BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 02/05/2005

VALORI ETICI NELLE ORGANIZZAZIONI: IL RUOLO "POLITICO" DI ALCUNI MODELLI DI BUSINESS AZIENDALI

di Luigi Adamuccio

Le persone che riescono in questo mondo sono quelle che vanno alla ricerca delle condizioni che desiderano, e se non le trovano le creano

George Bernard Shaw

La centralità del bene comune tra efficienza e solidarietà

La scomparsa di una figura carismatica e di straordinaria caratura come quella di Giovanni Paolo II proprio a ridosso della recente tornata elettorale, mi ha portato, appena superato il momento di profonda commozione, a riflettere sulla centralità di una ricorrente aspirazione dell’animo umano, ossia il bene comune, e ad azzardare un singolare parallelismo tra politica, dottrina sociale della Chiesa, politica economica, economia aziendale e teoria organizzativa.

In fondo, al perseguimento del bene collettivo, nel corso dei secoli, sono stati dedicati vari tentativi, a vari livelli, da parte di religiosi, laici, filosofi, politici ed economisti.

Lo stesso Giovanni Paolo II ci ha lasciato in eredità il suo messaggio di amore universale tra i popoli a sostegno di una migliore condizione umana; ci ha insegnato che il completo sviluppo della persona passa solo attraverso il perseverante e disinteressato impegno per il bene comune, fuori da ogni condizionamento politico ed economico.

Per parte sua, questa ennesima sfida elettorale, oltre alle consuete promesse della vigilia, ai fiumi di inchiostro ed ai chilometri di carta stampata, ha avuto il merito, nei pochi sprazzi di alta politica, di riportare alla ribalta la difficoltà di contemperare due valori, forti e tradizionalmente appannaggio della opposte fazioni, anch’essi strumentali alla realizzazione del bene della collettività: l’efficienza e la solidarietà.

John Stuart Mill ed Adam Smith, profeti del liberismo, scrivevano più di tre secoli fa che il bene delle società, laddove esiste una solida e corretta convivenza civile, grazie ad una sorta di mano invisibile, può essere raggiunto semplicemente perseguendo il bene individuale.

A distanza di tanti anni ed alla luce delle innumerevoli esperienze storiche negative, il pensiero di questi illustri personaggi sembra stravagante ed inattuale, soprattutto oggi laddove, in un contesto di accentuato individualismo ed in un mercato sempre più globalizzato, alto è il rischio che si rompa irreparabilmente il binomio: progresso socio–economico/moralità dei comportamenti.

L’ebbrezza del potere, la lusinga del profitto, la sfrenata ricerca del benessere economico individuale, portano spesso, a causa della debolezza umana e nonostante i più buoni propositi, ad una progressiva perdita di tensione morale, allontanando chi direttamente o indirettamente gestisce risorse (umane, tecniche o finanziarie) dalla sua unica, vera, alta missione: portare ovunque gli effetti benefici del progresso.

Ciò vale per chi opera nella politica, così come nel sociale; esempi negativi non mancano, purtroppo, anche in ambito religioso.

Pur tuttavia, lo sforzo maggiore devono senz’altro compierlo coloro i quali, a diversi livelli, operano in imprese commerciali che hanno nel profitto “sic et simpliciter” il loro scopo principale.

Vari sono stati, come accennato all’inizio, i tentativi di realizzare il bene comune nel corso dei secoli.

Le comunità organizzate in Paraguay dai Gesuiti, le falangi di Francois Fourier, le colonie statunitensi di Robert Owen, infatti, ad una analisi più attenta, altro non sono che alcuni dei tanti esempi che al riguardo potrebbero essere fatti.

Dal tentativo, quindi, di reprimere l’individualismo ostacolo alla spontanea convivenza fra gli uomini, alla soppressione del profitto nel più puro spirito cooperativistico, fino a spingersi alla abolizione della proprietà privata.

“Non è possibile distribuire i beni in maniera equa e giusta, o che prosperino le cose dei mortali, senza abolire del tutto la proprietà privata. Finché dura questa, durerà sempre, presso una parte dell’umanità che è di gran lunga la migliore e la più numerosa, la preoccupazione dell’indigenza, o il peso inevitabile delle sue tribolazioni.”

Tre secoli dopo quello che potremmo definire il comunismo “ante litteram” di Tommaso Moro, applicando le teorie del socialismo scientifico di Karl Marx, cominciava l’esperienza sovietica, clamorosamente terminata agli inizi degli anni novanta anche grazie alla riconosciuta opera del grande pontefice appena scomparso.

Non è questa la sede per ricercare le ragioni del fallimento di gran parte delle citate esperienze; tuttavia, a mio avviso:

  • l’eccessiva enfasi posta sulla condivisione del reddito, a prescindere dalla situazione economica di partenza (è il caso ad esempio del comunismo che doveva rappresentare il superamento del sistema capitalistico dei Paesi più industrializzati ed invece ha finora trovato pratica attuazione solo in Paesi poveri e prettamente agricoli);
  • la negazione del ruolo fondamentale ricoperto dalla economia di mercato che, con la sua connaturata competitività, è il solo sistema in grado di generare e rendere disponibili maggiori risorse;
  • il rifiuto a riconoscere, come condizione preliminare al disegno di qualsiasi modello di sviluppo, la complementarietà delle classi sociali ed il ruolo specifico tenuto dai fattori produttivi (tradizionalmente capitale e lavoro),

sono delle clamorose ingenuità o delle evidenti forzature storiche.

Con ciò, però, non si vuol far passare l’idea che l’ordinamento liberista - capitalistico sia il migliore in assoluto e, quindi, esente da colpe; tant’è che nel tempo numerose sono state le riforme richieste ed in alcuni casi apportate per correggere detto sistema (l’introduzione delle assicurazioni sociali, la partecipazione ai profitti, l’azionariato operaio, i consigli di gestione).

Il tradizionale conflitto tra capitale e lavoro, tra proprietà e subordinati

Pur essendo trascorsi più di duecento anni dalla prima rivoluzione industriale, il conflitto tra capitale e lavoro continua innegabilmente ad esistere in quanto permane una netta separazione tra funzioni riconosciute alla proprietà aziendale ed al Top management da un lato (elaborazione di strategie, pianificazione delle attività e degli investimenti, assunzione di decisioni, ecc.) ed i restanti segmenti di popolazione aziendale dall’altro (esecuzione di compiti ripetitivi, privi di significatività, alienanti; scarsa visione degli obiettivi aziendali, ecc.).

I lavoratori, in altre parole, non partecipano sufficientemente alla gestione della vita aziendale e vivono questa loro situazione di emarginazione con apatia o peggio ancoraassumendo un atteggiamento ostile nei confronti della proprietà aziendale e dei suoi uomini di fiducia.

Per via della naturale distanza esistente tra livelli direzionali ed esecutivi, anche laddove (Norvegia, Germania, Svezia, ecc.) sono state sperimentate nel tempo forme più avanzate di partecipazione dei lavoratori alla vita aziendale o di loro rappresentanti nelle strutture di governo dell’impresa, i risultati sono stati lontani dalle attese a causa soprattutto dell’assenza di concreta e significativa conoscenza dei problemi oggetto di decisione.

Piani strategici e tattici devono essere continuamente comunicati, condivisi, tenuti sotto controllo, gestiti con chiarezza e trasparenza; le figure professionali più in basso nella gerarchia aziendale vanno continuamente coinvolte e motivate, quanto e più del Top management.

Nelle organizzazioni attuali, infatti, l’informazione, la conoscenza assumono importanza assoluta proprio perché il personale tutto, con il suo patrimonio di competenze e di idee, se coinvolto ed adeguatamente motivato, rappresenta il vero valore aggiunto per il successo di un’azienda.

Nella secolare e complessa questione del contrastato rapporto tra capitale e lavoro, uno squarcio illuminante lo apporta, a mio avviso, unicamente la dottrina sociale della Chiesa, con il principio dell’“interdipendenza” tra i due tradizionali fattori produttivi: “è del tutto falso ascrivere o al solo capitale o al solo lavoro ciò che si ottiene con l’opera unita dell’uno e dell’altro; ed è affatto ingiusto che l’uno arroghi a sé quel che si fa, negando l’efficacia dell’altro” (Pio XI - Enciclica “Quadragesimo anno”).

In altre parole, per creare un modello macro-economico di sviluppo equo e sostenibile, non si può prescindere dal riconoscimento reciproco del ruolo fondamentale svolto da ciascuno dei due fattori e dalla applicazione di una severa “politica dei redditi”, che delinei gli ambiti precisi entro cui il profitto ed il salario devono muoversi.

Nel contesto socio-economico delineato, per attenuare gli eventuali squilibri esistenti (nella situazione di partenza o di transito) si dispone sempre delle leve di una adeguata “politica fiscale”, a sostegno di un moderno stato sociale in cui il gettito erariale viene ridistribuito tra i cittadini a seconda delle loro reali necessità.

Per completare il quadro e giungere, pertanto, a questa società ideale, è in ogni casoindispensabile tenere presente un assioma, forse anche banale ma spesso trascurato per evidenti condizionamenti politici: per distribuire valore occorre prima crearlo.

A tal fine è necessario scendere a livello micro-economico, ossia di singola struttura organizzativa aziendale. 

Cultura organizzativa e valori etici

L’attuazione di un modello organizzativo piuttosto che un altro, ad una analisi più attenta, altro non è che un tentativo di ricercare la disposizione più efficiente delle risorse umane e tecniche di una compagine aziendale, in modo da generare maggior reddito, maggior valore da distribuire tra tutti i suoi membri interni ed esterni (stakeholders).

Ma se l’efficienza (economica e produttiva) è un concetto ben noto in ambito aziendale, non altrettanto si può dire - in un mercato ormai sempre più sconfinato, competitivo e dinamico - della solidarietà.

Le imprese, per restare in questo mercato e continuare a fare business, devono legittimamentepreoccuparsi in primo luogo di perseguire obiettivi economici, producendo annualmente adeguato reddito per i propri azionisti.

E la sensazione fino a pochi anni addietro era che le aziende mirassero solo a questo, non contribuendo in alcun modo alla costruzione di un mondo migliore.

Ma il vento sembra sia cambiato; oggi, infatti, tra i valori che formano la cultura di un’azienda, quelli etici iniziano ad essere considerati ugualmente importanti.

Gli standard etici stanno diventando parte delle politiche formali e delle culture informali di molte organizzazioni e in molte “business school” vengono tenuti corsi sull’etica nelle organizzazioni.

Anche il legislatore e gli organismi internazionali hanno sviluppato una particolare sensibilità in tale direzione (libro verde della Commissione europea, certificazioni ISO 14000, ecc.), ma gli standard etici si applicano ad aspetti del comportamento non resi obbligatori da norme o leggi

Molti sono convinti che il semplice fatto di non violare norme o leggi sia sufficiente per qualificare un comportamento come eticamente corretto, ma non tutti i giudizi morali sono codificati da norme o leggi e l’etica spesso va ben oltre la norma o la legge.

Etica manageriale e responsabilità sociale d’impresa

L’etica manageriale consiste in principi che guidano l’Alta Direzione di un azienda nelle suedecisioni e nei suoi comportamenti in merito al fatto se le une e gli altri siano giusti o sbagliati sotto l’aspetto morale.

La più recente nozione di “Responsabilità sociale d’impresa” (RSI) o “Corporate social responsibility” (CSR) è un’estensione di questo concetto e si riferisce al dovere da parte del management di fare scelte e intraprendere iniziative che facciano sì che l’organizzazione contribuisca al benessere ed all’interesse della collettività così come dell’organizzazione stessa.

La RSI o CSR si esplica soprattutto nell’ambito:

  • delle politiche aziendali;
  • della gestione delle risorse umane;
  • dei rapporti con i clienti, i fornitori, i consumatori e la comunità di riferimento;
  • delle relazioni con le altre aziende e con i concorrenti.

Quanto negli ultimitempi la RSI o CSR stia prendendo piede anche in Italia lo ha certificato l’annuale indagine condotta da Eurisko per conto del “CSR monitor 2004”.

I cittadini da un lato cominciano a richiedere alle imprese di assumere comportamenti maggiormente responsabili verso la società nel suo complesso, dall’altro stanno via viasviluppando una maggiore attenzione nel valutare le imprese in base a parametri ulteriori rispetto alle sole performance economiche (i risparmiatori si dichiarano anche pronti a vendere titoli di imprese che si “comportano male”).

Nel mondo, peraltro, non mancano esempi in cui i consumatori hanno premiato ma anche punito determinate aziende; basta pensare, infatti, ad alcune delle più recenti campagne di boicottaggio contro grandi multinazionali (ad es. Shell, Nike).

Le maggiori responsabilità richieste alle aziende sono: il trattamento equo dei dipendenti attraverso la riduzione del loro sfruttamento; le comunicazioni veritiere dei bilanci; il pagamento delle tasse; la messa al bando delle produzioni industriali che danneggiano l’ambiente.

Le aziende, quindi, pur non trascurando la loro sana vocazione al profitto, devono giocoforza cercare in futuro di ritagliarsi un ruolo sociale sempre più importante nei confronti del mondo di riferimento (clienti, dipendenti e comunità in cui operano).

Ma sia ben chiaro che la vera RSI o CSR non è quella che si limita, come purtroppo spesso si registra, a “tattici” interventi pubblicitari ed a “tattiche” campagne di marketing, ma quella che porta verso modelli comportamentali e gestionali che la considerino come un orientamento strategico di lungo periodo che permei e qualifichi l’intera organizzazione aziendale, allineandola alle attese della società nel suo complesso in tema di etica, di responsabilità e sostenibilità dei modelli di business aziendali.

I codici etici ed i bilanci sociali, in altre parole, non devono essere solo delle iniziative episodiche, slegate da processi di “governance” o, peggio ancora, mere ed ipocrite operazioni di facciata.

Così come la crescente sensibilità dimostrata da diversi stakeholders nei confronti delle tematiche ambientali non deve portare le imprese semplicemente alla ricerca fine a se stessa dei cc.dd. “bollini” ecologici.

In Italia sono più di 3.000 le aziende che hanno la certificazione ISO 14000 e 300 quelle certificate Emas.

In ambito finanziario:

  • è stato costituito il Forum per la Finanza sostenibile (FFS), un’associazione di multistakeholders (mondo della finanza, associazioni dei consumatori, sindacati, associazioni ambientaliste, ecc.), cui l’Associazione Bancaria Italiana ha aderito come socio fondatore ed il cui obiettivo è quello di promuovere la cultura della sostenibilità;
  • quasi tutte le banche hanno dato la loro adesione al progetto denominato “PattiChiari” teso ad una maggiore trasparenza nei rapporti con la clientela in modo tale da renderla pienamente consapevole dei propri bisogni e, quindi, capace di informarsi sulle caratteristiche dell’offerta;
  • cominciano a prendere quota i fondi pensione socialmente responsabili (in Italia dove il comparto della previdenza complementare è in fase di esordio l’ammontare è ancora minimo).

Modelli di business aziendale in grado di creare valore nel lungo termine

Quelle appena accennate, sia ben chiaro, sono tutte iniziative lodevoli che vanno incoraggiate e sostenute, ma destinate a non incidere significativamente se non accompagnate, da parte degli operatori, da una forte e convinta revisione dei processi decisionali, dei principi e delle modalità di gestione del loro business.

Paradossalmente, infatti, in modo astratto e generico, ogni azienda potrebbe avere o sostenere di avere un ruolo sociale (e venir fuori con il suo bel bilancio sociale) per il solo fatto di essere tale, cioè un sistema dinamico e aperto che acquista input dall’ambiente (persone e risorse), li trasforma e li restituisce allo stesso ambiente sotto forma di output (prodotti e servizi).

Ma svolge un vero e proprio ruolo sociale solo quell’azienda che accompagna le dichiarazioni di rispetto dei principi etici con atti concreti, quali ad esempio:

  • l’assunzione, con i fornitori, di un atteggiamento non conflittuale ma collaborativo basato sulla “comakership”, per capire insieme come devono essere svolte le attività della catena del valore per favorire il cliente finale;
  • la corretta applicazione, nell’ottica di un’ottimale ed equilibrata utilizzazione del personale, degli istituti contrattuali di gestione delle risorse umane (sistemi incentivanti, valutazione del personale, percorsi di carriera, ecc.);
  • il compimento di ogni sforzo possibile per rafforzare la trasparenza nella commercializzazione dei prodotti e dei servizi erogati alla clientela, mettendola in grado di operare consapevolmente tra alternative di acquisto;
  • la progettazione di processi efficaci ed efficienti in una logica di Total Quality Management e, quindi, in ottica cliente;
  • l’abbandono dei vecchi modelli organizzativi burocratico–funzionali, che restringono la visione degli obiettivi aziendali, presentano una scarsa integrazione orizzontale, spezzettano i processi operativi e gestionali interni, ostacolano e distorcono le idee innovatrici a causa delle divisioni gerarchiche;
  • l’adozione di modelli organizzativi snelli, piatti e flessibili in cui al personale è permesso di sperimentare, migliorare, innovare e incrementare le proprie competenze in maniera continua, creando un clima interno di fiducia, di coesione e stabilità;
  • l’adozione di modelli di business nuovi, in grado creare valore nel lungo termine.

Riguardo a quest’ultimo punto, nel tempo abbiamo assistito:

  • alla graduale introduzione di nuovi macchinari e materiali;
  • alla rivoluzione dei microprocessori, dei personal computer, delle biotecnologie,

senza che la quantità media di valore creata per persona (Prodotto interno lordo pro-capite), in tutte le aree geografiche economicamente più sviluppate, abbia registrato alcun incremento significativo.

Per la gran parte delle attività tradizionali (alimentari, trasporti, manifatturiero, servizi), che rappresentano la quasi totalità della produzione e dei consumi giornalieri, per salvaguardare il valore a medio-lungo termine, si è puntato tutto sulla reingegnerizzazione, la ristrutturazione ed il taglio dei costi, con l’effetto di appesantire gli oneriper la collettività o, nei Paesi dove non esistono “ammortizzatori sociali”, di allungare le liste dei disoccupati.

La teoria economica tradizionale che fa molto affidamento sulle nuove tecnologie e sul taglio dei costi, dunque, non ha saputo finora elaborare un modello di gestione strategica del business capace di contemperare l’interesse degli azionisti con quello degli altri interlocutori: clienti, dipendenti, collaboratori, comunità locali, fornitori, generazioni future.

E ciò anche a causa del fatto che la sola gestione contabile finanziaria e le relative sintesi di bilancio si sono dimostrate insufficienti a dare un quadro della capacità intrinseca di un’azienda a gestire tutti i fattori che producono reddito; l’azienda, infatti, non è solo ciò che emerge dal suo stato patrimoniale ma un sistema di energie organizzate, di asset (attività) tangibili ma anche intangibili: investimenti in ricerca e sviluppo, conoscenze detenute dai dipendenti, forza di un marchio, capacità di trattenere e fidelizzare la clientela.

Per il momento le aziende, anche al fine di restare sul mercato, continuano ad agire prevalentemente sulle due leve tradizionali di cui dispongono (prezzo e costi), ma non è escluso che un domani non molto lontano, stravolgendo paradigmi alla base dell’economia aziendale, teoria organizzativa e prassi manageriale, siano costrette a rivedere:

  • la loro “corporate governance”;
  • la loro pianificazione strategica e operativa;
  • le modalità di definizione dei loro budgeting di unità;
  • tutti glistrumenti di controllo direzionale,

al fine di assecondare in pieno le aspettative di consumatori sempre più critici, esigenti e decisi a premiare con la domanda di prodotti/servizi le sole imprese che dimostrano di:

  • essere attente ed interessate anche alle vicende degli altri stakeholders e dell’ambiente e del mondo in cui operano;
  • creare valore aggiunto sopratutto nel lungo termine.

Già qualcosa si intravede a livello di nuove politiche di marketing e pricing (la campagna sulla autovettura Smart che non punta certo sulle alte prestazioni ma sul suo contenuto impatto ambientale; le società tedesche, fornitrici di energia, che incontrano il gradimento degli utenti in quanto “certificate verdi” e nonostante le loro tariffe siano un po’ più alte delle altre). 

Dopo la grande ondata di piena di valori individuali, di valori quali la competitività, il profitto, la managerialità fini a se stessi, si amplia l’ambito:

  • di creatività nel quale gruppi diversamente organizzati di persone, spinti da un più o meno forte spirito di solidarietà, esprimono passione vitale e prossimità umana;
  • in cui le aziende assumo il rango di veri e propri luoghi di riferimento per il territorio ove la qualità della vita viene difesa ed il tradizionale impegno per il bene della collettività, in risposta ai bisogni emergenti o insoddisfatti, viene fatto rivivere.

In questo contesto un ruolo fondamentale può essere assunto da quei modelli di business basati sulla lotta agli sprechi ed agli eccessi, in grado di trovare un giusto compromesso tra interessi della proprietà di un’azienda, di chi in essa vi lavora e di terzi.

Un’azienda che riesce a ridurre i costi dichiarando guerra agli sprechi:

  • nel breve termine, può mantenere inalterati i profitti pur a fronte di una riduzione dei prezzi dei propri prodotti o servizi a beneficio dei clienti;
  • nel medio termine, può utilizzare i maggiori profitti per aggiungere caratteristiche e potenzialità ai propri prodotti o servizi sempre a beneficio dei propri clienti;
  • nel lungo termine, può utilizzare i maggiori profitti per finanziare lo sviluppo di servizi innovativi e prodotti con un minor impatto ambientale, a beneficio della clientela e della comunità di riferimento, nonché per finanziare altre spese strategiche, a beneficio del proprio personale (es. formazione). Valorizzare e sfruttare adeguatamente le competenze del personale significa, infatti, garantirsi un elevato impatto sulla soddisfazione finale della clientela e una differenza incolmabile nel confronto con la concorrenza.

Nei primi due casi l’azienda registrerà un aumento delle proprie vendite; nel terzo, anche:

  • una crescita del proprio valore per via della maggiore affidabilità e reputazione nei confronti dei suoi stakeholders;
  • uno slancio in grado di far riscoprire ai propri lavoratori la giusta motivazione per dare un apporto concreto e positivo al destino della organizzazione e della comunità di appartenenza. E’ innegabile, infatti, l’affermazione secondo la quale il primo motore di ogni organizzazione è rappresentato dal capitale umano, che con impegno, sacrificio, creatività produce ricchezza a beneficio della proprietà e del territorio di riferimento.

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