BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 17/06/2006

DAGLI ASPETTI CULTURALI INTANGIBILI DELLE ORGANIZZAZIONI AZIENDALI UNA SFIDA PER IL RILANCIO DELL'ECONOMIA MERIDIONALE

di Luigi Adamuccio   

Uno dei maggiori guai dell’umanità non consiste nella imperfezione dei mezzi ma nella confusione dei fini (Albert Einstein)

Scorrendo delle mie vecchie slides in PowerPoint preparate per una presentazione del 2003, rivedo questo disegno, lo stesso abbozzatomi sulla lavagna nel 2002 da un docente durante un corso presso una società romana di direzione aziendale e lo stesso trovato su di un testo americano, datato 2001, di organizzazione aziendale:

Le teorie di management più consolidate, infatti, suddividono l’organizzazione aziendale in tre macroaree, senza una gerarchia implicita o un ordine sequenziale:

Le tre accennate macroaree possono essere ulteriormente suddivise, giungendo a considerare l’organizzazione di un’azienda come la risultante di ben sette variabili:

Entrambe sono delle schematizzazioni; il plus della seconda sta nel maggior dettaglio e nel suo più frequente utilizzo nelle circostanze in cui, dovendo intervenire su strutture aziendali (micro e macro, pubbliche o private), si elaborano delle simulazioni per comprendere meglio le interrelazioni e gli effetti provocati dalla modifica di una singola componente sul resto del complesso sistema organizzativo.

Permette, infatti, attraverso l’osservazione di ciò che è più tangibile, di identificare l’aspetto più insidioso della cultura di una compagine, ossiaquello“soft”, non visibile, più profondo e radicato, costituito dai processi mentali, dai valori fondamentali, dagli orientamenti dei vertici non comunicati alla struttura, dagli assunti taciti, dai comportamenti accettati e da quelli respinti.

All’aspetto “soft” si contrappone a quello “hard” (tangibile, visibile), che in una comunità è costituito dai simboli osservabili, dagli slogan, e in un’azienda è costituito anche dall’organigramma e dalla struttura formale e operativa.

Per semplificare il tutto, in ambito economico-aziendale si paragona la cultura di una organizzazione alla struttura di un iceberg, della quale in superficie emerge solo la punta (gli aspetti tangibili), mentre in profondità si radica la parte prevalente e non visibile.

Ecco, quindi, spiegato il significato di quell’abusato disegno: una rappresentazione metaforica della cultura di ogni comunità, sia essa:

Istintivamente si sarebbe portati ad obiettare che un’azienda, specie se di produzione, è una cosa ben diversa da una comunità più ampia, di persone o cittadini, con una storia e con delle tradizioni.

Ma, ad un esame più attento, non possono non essere rilevati, tra le due realtà, forti legami e condizionamenti: la cultura di un’azienda è molto influenzata dall’ambiente, dal contesto, dall’ambito territoriale in cui la stessa opera (da quello che viene definito il ”task environment”); l’azienda, con la sua “cultura”, può valorizzare al meglio le potenzialità di sviluppo di una zona geografica più o meno vasta; un’azienda, se sana ed efficiente, non può che creare ricchezza e progresso per la comunità più ampia nella quale opera.

L’ambiente condiziona notevolmente la cultura e l’organizzazione di una azienda soprattutto a causa della dipendenza di questa dalle risorse, rendendola particolarmente vulnerabile se operante in un sistema in cui queste sono scarse.

E’ evidente come la scarsità di risorse ponga alcuni soggetti più forti (aziende concorrenti ma anche organizzazioni sindacali e politiche, associazioni di categoria, investitori privati, ecc.) in una posizione di privilegio rispetto al sistema produttivo di riferimento, tanto da riuscire ad influenzarne le decisioni gestionali.

Sono tante le organizzazioni aziendali, soprattutto nel nostro Mezzogiorno, che lottano per mantenere un difficile equilibrio tra la loro autonomia e indipendenza e la rete di collegamenti con soggetti chiave che permettono loro di sopravvivere in un contesto socio-economico difficile.

A mio modesto avviso, questa considerazione, per certi versi banale, spiega, senza scomodare complesse e non sempre condivise teorie sociologiche:

Accordi, pratiche e intrecci che, purtroppo, in molti casi degenerano in veri e propri abusi a discapito dei più deboli ed indifesi, sopratutto quando, ignorando ogni valore etico, a prevalere sono interessi particolari (di singoli o di gruppi) rispetto a superiori esigenze pubbliche o collettive.

Si va dalla cooptazione in consigli di amministrazione di leader di importati settori a consigli di amministrazione concatenati tra loro, da alleanze strategiche più o meno alla luce del sole alla costituzione di vere e proprie lobby, dalla ricerca di protezioni di politici locali o nazionali in cambio di assunzione di favore a vere e proprie attività illecite;

Il sistema di valori prevalente di una comunità ed i suoi fenomeni degenerativi

Non solo in ambito sociologico o economico, ma anche nel dibattito intellettuale e nella politica, l’accento è spesso posto sul concetto di sistema di valori prevalente in una comunità.

Detto sistema è costituito dall’insieme di comportamenti che assurge a regola, che dirige le attività quotidiane di più individui, che, permettendo il raggiungimento di uno status, è insegnato agli altri membri come esemplare.

Alla base dei comportamenti ci sono dei valori che, se positivi, qualificano una comunità, se negativi, la screditano.

Parliamo di quei valori che nell’ambito di un nucleo più o meno omogeneo di persone (impiegati, cittadini, utenti, ecc.) determinano quella che con enfasi viene definita la sua “identità collettiva”.

Ma come valutare il tutto proprio in questo momento in cui in Italia si è aperta unanuova (e potremmo aggiungere ennesima) stagione di scandali, e non solo in ambito finanziario?

Il nostro è innegabilmente un paese in cui, soprattutto in certe sue zone geografiche meno sviluppate, il favoritismo ed il clientelismo ha sempre condizionano gran parte delle scelte.

Da questa prima osservazione, quasi ne fossero la diretta conseguenza, nascono altri tre interrogativi spontanei, in una strettissima sequenza logica:

Una nuova cultura per far uscire il Meridione dalle “secche” di vecchie logiche clientelistiche

Alle prime due domande potremmo tranquillamente rispondere affermativamente;formulare una risposta immediata alla terza, invece, diventa una cosa molto più impegnativa, soprattutto se non si vuol rischiare di fare solo del falso moralismo o della ipocrita demagogia, di cui sinceramente non si sente alcun bisogno.

Siamo infatti più che nauseati da roboanti proclami di esponenti istituzionali ed aziendali a tutti i livelli, puntualmente da loro stessi smentiti con i fatti; biechi atteggiamenti di chi, ledendo diritti personali, favorisce indebitamente qualcuno, fino a giungere ad una vera e propria idolatria della raccomandazione.

Ma il clientelismo non è un problema che va giudicato in modo più o meno severo a seconda che riguardi altri o noi stessi; è un problema che non va nascosto, una pratica da mettere in discussione e da combattere ogni giorno in modo concreto e facendone quasi una sfidapersonale se si vuole finalmente rompere un vero e proprio circolo vizioso.

Nessun ostacolo arbitrario deve impedire agli individui ed ai veri talenti di raggiungere la posizione che spetta loro ed a cui hanno diritto di aspirare in base al loro valore.

Nessun altro fattore, che non siano le capacità personali, dovrebbe determinare le opportunità ed il futuro che si schiudono ad una persona.

La raccomandazione sacrifica la libertà e le giuste aspirazioni di molti, i più dotati ed in genere anche i meno “sponsorizzati”, a vantaggio di pochi, i privilegiati, gli amici dei “padrini”, implicando sottili e nel contempo complessi problemi etici.

Per alcuni la raccomandazione, così come la ruffianeria di cui è una parente stretta, è unacapacità di cui vantarsi; per altri è una deviazione, una prevaricazione, un’ingiustizia da denunciare e da combattere, una soluzione che viene fuori con molta insistenza quando si tocca la condizione di disoccupato.

Il vero sforzo da compiere è allora quello di aborrirla quando non è solo quella a beneficio degli altri ma anche di noi stessi.

A parziale conforto possiamo solo dire che la raccomandazione non è un’astuzia ed una scorciatoia tipica del popolo italiano, ma è ovvio che, laddove le opportunità d’impiego sono minori, la raccomandazione assume una diffusione ed un peso specifico maggiore.

In profondo contrasto con altre realtà quali quella statunitense e nordeuropea, più pervase da una cultura meritocratica, in Italia è un fenomeno che esce dal mondo del lavoro per diventare una sorta di prassi culturale, radicata in tante altre sfere della quotidianità.

In Italia è una malcostume tanto diffuso, radicato e generalizzato da rappresentare quasi un comportamento ovvio e normale.

Ci si raccomanda per le finalità più disparate: per essere assunti, per essere promossi, per essere avvicinati, per non essere allontanati, per non essere destinati a compiti più complessi e rischiosi.

Più sono forti le raccomandazioni più si è tentati di recidivare il proprio comportamento; tutti noi conosciamo persone che con le raccomandazioni hanno costruito delle carriere invidiabili.

Come diceva il filosofo Immanuel Kant: “Il possesso della forza corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione”; se, prescindendo da ogni considerazione etica, il favoritismo ha una sua “giustificazione” nella imprese private, dove chi detiene il pacchetto azionario di maggioranza, chi rischia il proprio denaro, comanda e, quindi, decide autonomamente cosa fare e chi assumere, non la troverebbe nel mondo cooperativistico, dove esiste il voto capitario, e, men che meno, nel settore pubblico dove le risorse sono patrimonio di tutti, possedute da tutti in egual misura.

 

Nel Mezzogiorno, ovviamente, i problemi sono gli stessi dell’intero paese, ma amplificati.

 

Il Mezzogiorno si conferma, come messo in risalto dal Rapporto Svimez 2006, l’area più critica dal punto di vista economico del sistema-Italia, registrando per il 2005 un calo del Pil (Prodotto interno Lordo) dello 0,3% rispetto ad una crescita nazionale pari allo zero.

 

Altro indicatore del Sud, fresco di elaborazione Svimez, che desta più di una preoccupazione è quello che si riferisce all’occupazione.

 

Lo scorso anno nel Mezzogiorno è calata dello 0,8%, mentre la variazione negativa a livello nazionale è stata dello 0,4%.

 

Tradotta in termini assoluti la variazione corrisponde ad una perdita al Sud di circa 48.000 posti di lavori, in un contesto già di per sé difficile.

 

In un tale quadro, il più o meno accentuato e continuo ricorso al clientelismo è una della misure della debolezza e dell’inefficienza delle strutture organizzative ivi esistenti, oltre che dell’intero sistema economico.

 

Emerge, quindi, un crescente bisogno di legalità, che è in continua espansione grazie soprattutto alle nuove generazioni che più pagano lo scotto di una economia, in evidente stagnazione, alla ricerca di una maggiore flessibilità.

 

Ricerca che, a sua volta, nell’immediato, si traduce purtroppo per i più giovani in una maggiore precarietà del lavoro.

 

In un meridione dove il tasso di disoccupazione è tre volte più alto che al Nord, occorre, pertanto, gettare un seme di speranza almeno per questi ultimi.

 

Occorre immaginare e disegnare nuovi modelli di sviluppo e di organizzazione aziendale, in un conteso di riferimento fatto di legalità e di certezza delle regole.

 

Tra le nuove generazioni, il posto fisso non ha più l’antico “appel” e la fiducia nelle proprie potenzialità e nella possibilità di poterle esprimere liberamente, senza alcun ostacolo arbitrario, è la premessa su cui fondare ogni loro nuovo progetto.

 

Per fare questo bisogna necessariamente:

 

 

Occorre, soprattutto, che tutti insieme si lavori per rafforzare la consapevolezza che la illegalità, l’imbroglio, l’abuso non sono, come qualcuno intende far credere, la conseguenza del mancato sviluppo di un’area, ma ne sono la causa.

 

Per portare a compimento con successo un processo di cambiamento di tale portata, la cultura è l’elemento su cui, più di ogni altro, occorre insistere.

 

 

L’ambiente globale di riferimento

 

Gli straordinari progressi compiuti nel campo delle comunicazioni e della tecnologia hanno portato molti studiosi a parlare di una nuova rivoluzione industriale.

 

Il progresso ha portato allo sviluppo di un’economia globale competitiva, disegnando per le organizzazioni aziendali scenari assolutamente nuovi (i prodotti possono essere finiti in una parte del mondo e commercializzati nella restante parte, le comunicazioni sono immediate, la tecnologia sta sempre più rapidamente sostituendo il lavoro manuale, lo sfruttamento della conoscenza sta assumendo un’importanza pari o superiore a quella del possesso e del controllo dei capitali).

 

In altri termini, l’attuale sistema economico mondiale si caratterizza per una crescente complessità e soprattutto interdipendenza, spingendo le aziende di ogni settore a riconsiderare il loro approccio alla progettazione organizzativa, puntando molto su prospettive di lungo termine che passano:

 

 

 

Quali misure di politica economica per il Meridione?

 

Partiamo da due assiomi:

 

 

In considerazione di quanto precede, alla nostra classe politica non può che essere chiesto dispostare l’attenzione dall’incentivazione a pioggia (che al Sud rischierebbe di dare rinnovatovigore al clientelismo senza incidere su una sua effettiva crescita) al recupero di produttività.

 

La posizione della nostra economia in seno alla divisione internazionale del lavoro è segnata dalla specializzazione in settori relativamente tradizionali (abbigliamento, automobili, calzature, prodotti alimentari, tessile, ecc.) che la espongono alla pericolosa concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione, i quali possono contare sul vantaggio competitivo di un costo del lavoro molto più basso.

 

L’accennato recupero di produttività nel sud del Paese potrebbe essere ottenuto solo attraverso:

 

 

Per non rischiare di entrare in concorrenza con le imprese del Nord Italia e trasferire a queste i costi di eventuali recuperi di margini nel Mezzogiorno, dette condizioni dovrebbero essere create per puntare soprattutto alla intercettazione della domanda proveniente da mercati esteri.

 

Obiettivi del Mezzogiorno, pertanto, non possono che essere l’internazionalizzazione, la crescita dimensionale delle aziende, il perseguimento di una politica della qualità e dei marchi, sfruttando le risorse umane e naturali del posto nel modo più efficiente possibile, senza sprechi di alcun genere (ivi comprese le diseconomie create da pratiche poco rispettose dell’etica e, a volte, persino della legge).

 

Avviare servizi innovativi, formare solo figure professionali richieste dal mercato del lavoro, premiare chi si avvia verso la qualità e la suacertificazione, investire gran parte delle risorse pubbliche che annualmente si destinano all’economia meridionale in ricerca oltre che in innovazione.

 

Pur tenendo conto dell’opposizione dell’U.E. ad interventi fiscali differenziati a vantaggio di determinati territori, considerati lesivi della concorrenza, si potrebbe pensare all’introduzione sperimentale di un credito d’imposta per nuovi insediamenti al Sud che puntino sull’innovazione tecnologica di prodotto.

 

Qualora l’esperimento dovesse avere esito positivo, detta fiscalità di vantaggio potrebbe essere estesa successivamente al resto del Paese,con una gradualità compatibile conl’auspicato miglioramento della situazione della finanza pubblica.

 

Così configurati gli incentivi fiscali potrebbero anche sperare di superare il severo vaglio dell’U.E.; ma è fin troppo evidente che essi perderebbero molta della loro efficacia qualorafrattanto non si dovessero abbandonare le vecchie, abusate e qui tanto criticate pratiche, care ad una buona fetta della nostra classe politica ed a gruppi nutriti di persone che occupano posti di potere.

 

Obiettivi di non secondaria importanza sarebbero, pertanto, anche la legalità e la sicurezza; ed a ben vedere, la vera novità delle recenti “considerazioni finali” del neogovernatore della Banca d’Italia Mario Draghi sta più nel tentativo di restituire al Paese un punto di riferimento culturale che nella indicazione di già ascoltate e, quindi, scontate ricette economiche.

 

 

Con quali modelli organizzativi?

 

L’inversione di rotta può venire dall’evoluzione del quadro normativo, dal progresso tecnologico o da mutamenti significati nella coscienza di fasce più o meno vastedi cittadini che acquistano maggiore consapevolezza dei loro diritti o diventano sempre più critiche edesigenti.

 

Le norme di legge sono importanti ma da sole insufficienti ad invertire la tendenza; affinché si possa suscitare un cambiamento sostanziale negli atteggiamenti generalizzati occorre elaborare nuovi modelli aziendali che, puntando sull’impiego spinto delle tecnologie, riescano a coniugare il business con valori sani in cui i lavoratori si identifichino.

 

E il momento è dei più propizi, considerato che, tra i valori che formano la parte più “soft” della nuova nascente cultura aziendale, cominciano ad assumere sempre più rilievo i valori etici.

 

Basti pensare al numero sempre crescente di aziende che elaborano un loro “codice etico”, distribuito ai dipendenti sotto forma di opuscolo ed in cui i vertici precisano le aspettative relativamente alla condotta dei loro collaboratori, articolando in modo chiaro:

 

 

Si chiude così il cerchio abbozzato in apertura di ragionamento con l’accenno agli aspetti intangibili della cultura aziendale.

Per ottenere irisultati sperati, però, come è fin troppo evidente, il vertice deve vivere veramente i valori dichiarati; deve comunicare i valori a tutta l’organizzazione e li deve istituzionalizzare, più che con la sterile elaborazione di opuscoletti, attraverso il comportamento di ogni giorno.

 

Il vertice ha, infatti, una grossa responsabilità poiché ogni sua azione impatta sulla cultura e sui valori aziendali.

 

Tenendo conto di tutte le accennate forze che dovrebbero portare al cambiamento (tecnologia sempre più spinta, maggiore turbolenza e incertezza, globalizzazione e interdipendenza dei mercati, nuovi sistemi di valori), qui di seguito possiamo provare a tracciare una mappa sintetica delle caratteristiche principali che dovrebbero avere le tre areeorganizzative più importanti di un’azienda meridionale che dovesse/volesse beneficiare di un intervento pubblico, di politica industriale, del tipo sopra descritto:

 

Struttura

Sistemi/procedure/processi

Cultura

Strutture piatte con personeaventi elevata flessibilità funzionale e, di contro, ampia autonomia operativa

Sistemi retributivi flessibili

Competenza e capacità più importanti ed apprezzate della posizione gerarchica

Gerarchia sostituita da unarete attraverso la quale si condividono idee e soluzioni

Impiego spinto della tecnologia per semplificare i processi operativi ed abbattere i costi

Sviluppo di una forte cultura di base, orientata alla qualità, al servizio, alla competitività sui costi

Istituzionalizzazione dei gruppi di studio, di ricercae di lavoro interfunzionali

Processi operativi standardizzati, formalizzati e certificati

La meritocrazia al posto diparentigrammi o di prassi culturali quali il favoritismo o il clientelismo

 

 

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