BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 20/06/2005
NOI, CLAUSIUS E LA CINA

di Carlo Befani

Le colline umbre alla levata di un sabato mattina di aprile, tra gli aceri opali che hanno sganciato il fiore giallo e le magnolie solengeane che rilasciano le belle coppe bianco-rosa, rappresentano un patrimonio dell’umanità, e l’Unesco farebbe bene a prenderne atto: nel frattempo, appunto sveglie antelucane per godermi il sole che incendia le spalle all’Appennino e per regalare la corretta razione d’acqua ai gerani rossi.
Questo penso, mentre sta arrivando Pietro. È un vecchio amico di mio padre, settantacinque anni e non sentirli, operaio metalmezzadro come tanti ce ne sono in Umbria: turni in fabbrica per quarant’anni e un orto governato ogni primavera da prima della guerra. Quinta elementare e singolare sincretismo tipico delle mie parti: falce e martello, memoria di sé bambino e della battaglia del grano, occhio lucido al ricordo di quando porse il casco al papa polacco in visita nella sua fabbrica.
Ora è un pensionato attivo e scattante, e arrotonda qualche soldo curando i giardini di chi, come me, non ha ahimè la costanza di tempo da spendervi. Mi sta simpatico.
Non lo vedo dal sabato precedente, lo saluto e gli chiedo come va. Mi notifica che per colazione ha mangiato la frittata con gli asparagi avanzata dalla sera precedente, annaffiata da un paio di bicchieri di vino – quindi gli va bene. Poi mi fa con aria da carbonaro: “Giovanni, tu lo conosci il secondo principio?”
Lo guardo sorpreso, e ribatto: “Il secondo principio della termodinamica?”
E lui, solare: “Sì, quello lì.”
Mi verrebbe da dirgli “è tu che ne sai”, ma temo di offenderlo. Allora continua: “Sai che Marco va all’università, vero? Sarà un dottore come te. Allora, qualche sera fa stavamo parlando e gli ho chiesto di spiegarmi qualche cosa che potessi capire anch’io che sono un villano.”
Piccolo inciso: Marco è il nipote, studia chimica alla Sapienza; e villano nel mio dialetto non significa maleducato ma contadino.
“E allora” faccio io incuriosito “ti ha spiegato il secondo principio della termodinamica? E che ti ha detto?”
“Bè, ti dico quello che ho capito io. Che il mondo e le stelle all’inizio erano tutti uniti e compatti come un pugno, non c’era differenza tra le pietre, gli animali, gli uomini: era solo un unico ammasso. Poi è scoppiato tutto in mille pezzi, come una bomba: ogni pezzo si è allontanato dall’altro in tutte le direzioni ed è cominciato il cammino, creando una gran confusione di materiali e di energia, che non possono tornare
indietro: più si va avanti e più aumenta il caos…
“Bè, in qualche modo è così…” gli feci sorridendo.
“Ma dice Marco che non finisce qui: la vita“ continuò Pietro sottovoce, come se stesse svelando un grande mistero “la vita, quella delle persone, delle piante e degli animali, esiste solo in un attimo e in uno spigolo del cammino…”
“Eh sì” assento.
“Allora senti cos’ho pensato: dato che il Padreterno non fa le cose a caso, la vita pare proprio una parentesi di bellezza e di ordine, una cosa che frena la confusione e la sciatteria… e poi svolto il compito lascia il corpo alla terra e alle leggi del creato. Quindi Giovanni, ho pensato che il contadino che si occupa di animali e piante, più di ogni altro sta dalla parte della vita.”
Rimango di stucco. Certo, conosco l’incolta intelligenza di molti dei vecchi contadini umbri, ma lui ha proprio elaborato una sua visione del mondo, semplice ma non stupida.
“… comunque queste sono cose di Dio…” conclude Pietro quasi arrossendo “forza, andiamo a prendere la zappa che devo muovere la terra dei laurocerasi!”
Mentre cesella di zappa i tronchi giovani della siepe, io continuo ad annaffiare e mi infilo a pensare a quello che mi ha detto Pietro con una chiusa che ricorda Tolstoj, e vado oltre.
Il manager occidentale è plasmato dalla convinzione dell’universalità del secondo principio della termodinamica: tutto scorre, e per sempre. La nostra è una cultura dell’irreversibilità e del disordine crescente. Spendiamo grandi quantità di energie, di passioni, di cure per creare isole di ordine, di entropia negativa, per usare le parole di Schrodinger. Pensiamo al nostro sistema-azienda proprio come ad un
organismo di cellule da costruire per ripararci dal caos incombente.

La teoria dei sistemi – uno strumento molto potente e sottovalutato, forse uno degli ultimi esempi di pensiero forte ed unificante, troppo spesso affogato dalla parcellizzazione dei saperi – aggiunge: un sistema ha tante più chance di vita quanto più alto è il rapporto tra le variabili controllate all’interno e quelle incontrollabili all’esterno. Queste ultime sono però infinite, per definizione. Quindi ogni sistema è destinato al
collasso: possiamo solo provare a rinviarne la fine, ponendo sotto controllo più variabili possibili e soprattutto flessibilizzando al massimo i comportamenti delle variabili controllate.
Così, Clausius ha forgiato la cultura occidentale: una trama che ci racconta dello sforzo umano a modificare la realtà, come fuga da qui-e-ora, per costruire il differente. L’Occidente è attività, essenza maschile, uscire da sé, penetrazione della realtà, tensione al cambiamento. Cristo che sconfigge la croce, il marxismo,
Prometeo, l’Illuminismo: potevano nascere solo in Occidente. Le fedi occidentali sono conflittuali. Poi c’è la cultura orientale del Tao. È cultura del ritorno. La cultura di un ordine ciclico preesistente che l’uomo può solo rovinare. Un manager orientale agisce a spizzico. Qui il secondo principio si declina in altro modo: non è universale, vale solo per la fase espansiva del ciclo. Un giorno le galassie perderanno la spinta propulsiva ad allontanarsi e la legge di Hubble non varrà più. Allora torneranno indietro, verso una nuova ricompattazione. Forse dalla cenere rinasceranno le potature di olivo che sto bruciando in giardino. L’Oriente offre un ciclo di reincarnazioni purificatrici – se è così, per noi manager delle risorse umane, non sempre e propriamente anime candide, non mi pare assicurata una chance di migliore stato, la prossima volta. Narra la capacità di vivere e di lasciarsi invadere da tutti i qui-e-ora e digerirli: tanto tutto torna. L’Oriente è passività,
essenza femminile, accoglienza del reale, tensione all’integrazione. Le fedi orientali sono integrative.
Oggi il manager è chiamato a gestire la complessità della globalizzazione. Il suo compito principale è di stabilire relazioni virtuose con l’Altro-da-sé. Si parla tanto di Cina e dei rischi connessi: forse in questo senso, e non solo in questo, dovremo trovare elementi di dialogo e zone di intersezione gravide di significato tra il fare dell’Ovest e l’accogliere dell’Est.
Dovremo confrontare le rispettive visioni globali del futuro: i prodotti e i servizi che discendono da tele ben dipinte e ben comunicate sono soluzioni vincenti. Forse per questo, e mi si perdoni il prescindere dagli aspetti trascendenti, papa Wojtila ha avuto grande successo: la sua è stata, negli ultimi vent’anni, l’unica visione del mondo veramente forte ed universale.
Dovremo avere tanto di quel fegato da reggere vagoni di incertezza, che invaderanno anche i nostri spazi ritenuti più al sicuro.
Poi la partita sarà sui contenuti: uno sul quale credo si possa misurare la civiltà e il progresso è l’approccio alla vita, alla rispetto della vita dell’uomo e del creato.
Qui noi manager delle risorse umane abbiamo un’opportunità e un rischio: se sapremo tener presente ogni mattina – nel disegnare il business, nel progettare il cambiamento, nel ristrutturare e dimensionare sistemi che creino valore – che quelle che chiamiamo “unità” sono nient’altro che persone, allora daremo un contributo a rendere belli gli ambienti di lavoro. E anche noi, come dice Pietro, staremo dalla parte della vita– di quella meravigliosa mistura di massa ed energia che contrasta il degrado del cosmo.
Se no, non serviremo più.

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