BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 12/05/2003

TRADURRE IL MANAGEMENT

di Mario Bitonti

Il sapere viene sempre più massicciamente trasmesso e appreso in inglese. A parte il greco antico, dal quale le scienze traggono moltissimi vocaboli, l’inglese non ha rivali. L’inglese è la lingua in cui vengono pubblicati la maggior parte dei libri e degli articoli scientifici. Niente di male. Anzi, è una lingua eccezionale per brevità ed efficacia di comunicazione e questo non può che essere un vantaggio.

Il management non fa eccezione, la produzione di sapere manageriale avviene quasi esclusivamente in inglese. E’ la cultura anglosassone ad aver dato il contributo maggiore alla creazione del management come pratica e scienza sociale. Come scienza sociale il management ha bisogno di precisione nell’uso dei termini, ma al tempo stesso dà voce inevitabilmente alla cultura della lingua in cui si esprime. Il vocabolario usato dal management, o meglio i termini chiave da cui è plasmato rispecchiano questi due aspetti: da un lato, parole dal significato circoscritto, preciso e ben distinguibile quali strategy o task; dall’altro, parole di uso comune, quotidiano, dai contorni sfumati quali business o trust. I problemi affrontati da chi traduce sono dovuti essenzialmente a questa natura duale di scienza sociale e pratica quotidiana, aspetti che si alimentano ogni giorno vicendevolmente. A ciò vanno aggiunti i problemi specifici derivanti dai rapporti tra inglese e italiano, complicati dal fatto che l’inglese è molto diffuso nel nostro paese e questo come vedremo, non sempre costituisce un vantaggio per il traduttore.

Si può elaborare pertanto uno schema identificando quattro categorie di problemi o questioni da tenere presenti nella traduzione del management.

Primo, pur traducendo bisogna continuare a parlare e scrivere in italiano in modo corretto. E non è un’affermazione così scontata come sembra. In genere si tende a preferire i vocaboli in lingua originale, probabilmente per la consuetudine che chi traduce ha con i termini originari. Ma la maggior parte delle volte che importiamo tout court una parola inglese non ci preoccupiamo di farne il plurale, se del caso. Perciò hobby resta hobby anche quando se ne coltivano molti, snack resta snack anche se ne faccio più d’uno e il plurale del team rimane “i team”, e così via. Quando le parole inglesi non tradotte diventano tante, e si presentano con una certa frequenza nell’ambito di un testo, si ha la sensazione di stare parlando o leggendo una lingua ibrida. A volte, bisogna sforzarsi di tradurre solo per potere continuare a parlare e scrivere in italiano. 

Secondo, accade spesso, ancora per un eccesso di confidenza con la lingua, che il traduttore si limiti a rendere il significato inglese in italiano, errore che più difficilmente avviene con altre lingue. Questo dà luogo a risultati scadenti. E’ il caso per esempio di un adesivo che pubblicizza dei gelati americani da qualche anno in commercio in Italia. L’adesivo recita “ora disponibile” e sotto riporta la nota marca o brand. Evidentemente “ora disponibile” è la traduzione fedele di now available ma in italiano la locuzione non è delle più attraenti specie se riferita a un gelato, un bene di consumo di cui dovremmo avvertire quel bisogno inconscio che è compito della pubblicità suscitare, e non solo con i colori e la grafica. La traduzione è corretta ma assolutamente poco appropriata al contesto. Un caso di traduzione molto ben riuscita invece è quella che Armani ha fatto del vocabolo inglese store. Lo store inglese nel nostro immaginario è il negozio dei grandi spazi dell’ovest dove il cow-boy entra e può comprare di tutto dal pedalino all’insetticida il verbo corrispondente, storage, vuol dire infatti immagazzinare, store è stato felicemente tradotto con emporio, che rende perfettamente l’idea originaria, da cui Emporio Armani. L’italiano è molto ricco di vocaboli con sfumature diverse e ha grandi potenzialità che attendono solo di essere sfruttate, usando la fantasia.

Terzo, è palese che l’inglese rispetto all’italiano è una lingua molto più snella e diretta. L’inglese ha il grande vantaggio di creare molto facilmente parole composte, ad esempio database, problem solving, core business, sub-contracting, out-sourcing, per citarne qualcuna. In questi casi la traduzione in italiano è molto più difficile, soprattutto perché non si possono utilizzare parafrasi troppo lunghe in quanto appesantirebbero il discorso. In situazioni simili si rende necessario uno sforzo supplementare, bisogna modellare l’italiano all’agilità inglese. Per esempio si può tradurre database con un italiano “base dati” che rende perfettamente l’idea ed è anche diretto. Forse sarebbe più corretto dire “base di dati”, ma quello che serve è rendere l’italiano una lingua con la quale sia agevole comunicare. Omettere una preposizione in alcuni casi può essere un modo di fluidificare il discorso, rendere bene l’idea da trasmettere ed esprimersi in un buon italiano. Sono convinto che la lingua italiana può imparare molto dall’inglese in questo senso. Ossia rispettandola e perché no, arricchendola può essere resa più snella, adatta alle comunicazioni odierne, in una parola più moderna.  

L’ultimo problema con cui il traduttore deve misurarsi è anche il più difficile, perché non può risolverlo da solo. E’ il problema di poter disporre di un significato condiviso per i termini utilizzati. Naturalmente, il problema sorge quando si è alle prese con discipline che necessitano di una certa precisione. In questo caso la traduzione di un termine inglese dovrebbe avere una sola traduzione italiana o comunque la comunità dovrebbe condividere, per quanto possibile, il significato della parola inglese in questione. Questo per evitare equivoci e incomprensioni. Prendiamo il termine sub-contracting, letteralmente in italiano significa sub-appalto ma non è questo il contesto in cui l’inglese lo usa. Il sub-contracting è la pratica di servirsi di produttori esterni all’azienda per avere dei componenti che entreranno a far parte del prodotto finito. L’italiano si è inventato “sub-fornitura” che rende ottimamente il significato di ciò di cui si sta parlando.

Ma non sono molti i termini cui è possibile attribuire così facilmente un significato condiviso. E’ necessario quindi un certo lavoro di comunicazione tra le comunità di addetti ai lavori. Forum virtuali ad esempio, in cui si discute di un termine inglese, ma anche francese, tedesco o di qualsiasi altra lingua e si è concordi sul significato, consentirebbero a tutti di comunicare sicuri di parlare della stessa cosa, più o meno.

A volte però questo lavoro potrebbe risultare paradossalmente inutile. Per quelle parole attraverso cui un popolo sprigiona un aspetto della propria cultura, della propria essenza, il management direbbe della propria vision. Prendiamo la parola business. Con business l’inglese esprime talmente tanti significati che traducendo se ne lascia sempre qualcuno per strada. Il business è una piccola transazione, oppure un insieme di transazioni, o un’unità organizzativa, insomma il business è il nucleo stesso del management, sta all’economia come l’atomo alla materia, è la parte ma anche il tutto, l’ossimoro manageriale per eccellenza. Rientra in quella categoria di parole per cui non esiste speranza di traduzione, è il modo in cui l’inglese crea il management.

 

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