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Pubblicato in data: 21/12/2009

IL 'PROGETTO' ALLA LUCE DELLA FILOSOFIA DELLA SCIENZA (1)

di Gianluca Bocchi

Guardando dal punto di vista filosofico, dobbiamo dire che la cosa interessante del progetto è la costruzione di un «ponte» fra due dimensioni che un filosofo direbbe ontologicamente diverse, e cioè: il progetto è «uno strumento per rendere reale il possibile», o «uno strumento per esemplificare il futuro». Quindi, da questo punto vista, l’arte del progettista è somma, nel senso che, come sappiamo, i costruttori di ponti nell’antichità erano detti pontifex. C’è quindi in questa figura un aspetto notevolmente «sacrale».
Noi sappiamo benissimo che gli spazi di possibilità in cui la mente umana è immersa sono infiniti, e quindi è chiaro che bisogna dare concretizzazione a questo infinito. Allora c’è da dire che il progetto ha sempre
una componente di «riduzione della complessità», dove ovviamente la «riduzione» non è espressa in senso negativo, ma è usata nel senso della scelta e anche della responsabilità del rischio di fare una cosa piuttosto che un’altra.
In generale, la condizione umana è molto basata sulla riduzione della complessità, basti pensare al linguaggio, il modo fondamentale in cui noi riduciamo la complessità del mondo a delle categorie. Quindi in fin dei conti il progettista continua nel suo ambito ciò che l’uomo ha fatto nel corso della storia: creare categorie da riferire al mondo. Non è detto che siano le categorie migliori, ma sono categorie che «funzionano».
Così, nel progetto c’è una componente «elevata», ma c’è anche una componente molto pragmatica, in quanto il progetto non è qualcosa che viene giudicato sul vero o sul falso, quindi sul metro dell’ottimo, bensì è
qualcosa che viene giudicato sul funzionamento, sul fatto che per coloro che usufruiscono del progetto si aprono nuovi spazi di possibilità.
Detto questo, qual è dunque il grande problema che emerge in questo libro e da tutte le nostre attività: il problema è che in passato si riteneva che, in qualche misura, il futuro fosse contenuto nel presente o addirittura nel passato, con le visioni più estreme all’inizio dell’universo. Si riteneva cioè che il futuro potesse essere solo oggetto, come diceva Galileo, di una conoscenza estensiva di una divinità o di un demiurgo. Però, da Galileo a Laplace, questo era un’ideale regolatore: il sommo creatore era
colui che controllava il decorso dei tempi.
Allora, siccome il creatore era concepito in età moderna come il sommo progettista della natura, è ovvio che qualunque creatore o qualunque progettista, come diceva Galileo, non poteva essere del tutto comparabile con quello del sommo creatore, però nel piccolo sì. Quindi se anche il progettista era un creatore che aveva in realtà un ambito di creazione molto limitato, tendeva a comportarsi come un demiurgo, un creatore, che
dominava non solo lo spazio del progetto, ma anche il tempo in cui il progetto aveva luogo. Ecco, questo è un atteggiamento profondamente radicato nella cultura occidentale.
C’è stata, a parole, una completa laicizzazione e pragmatizzazione del progetto. Di fatto però, questa idea che il futuro sia contenuto nel presente e che laddove emerga in maniera incontrollabile allora è colpa
nostra, rappresenta secondo me un problema serio di fronte a ogni progettista.
Proprio per questo, è interessante capire che oggi la scienza, la filosofia, ma direi anche la teologia e tante altre discipline che si occupano di creazione a qualunque livello (dalla creazione dell’universo alla creazione
di un’idea o di un testo poetico), sono molto centrate sull’idea di «emergenza». C’è tantissima letteratura su questo, ma l’idea fondamentale è che ci sono dei sistemi, che sono poi i sistemi che noi chiamiamo complessi (i più interessanti sono la vita e l’intelligenza umana), che presentano delle proprietà globali che non sono deducibili dalla somma delle parti. Ad esempio, se consideriamo la vita, possiamo constatare che non esiste nulla, nelle sostanze chimiche che creano i cicli vitali, che non sia fisico/chimico. Eppure la vita nel suo complesso trascende l’universo fisico/chimico. Allo stesso modo, la mente umana viene da una rete di neuroni, non c’è nulla di intelligente nel singolo neurone, ma l’intelligenza è una proprietà sistemica. Tutto questo ci dice l’esatto opposto di quella che era la visione classica, e cioè che il tempo ha un valore strumentale nell’emergenza.
Abbiamo l’emergenza di sistemi complessi perché c’è un «tempo critico» nel quale si creano interazioni tra le componenti di un sistema. Oltre al tempo poi, ci dicono gli studiosi di sistemi complessi, che è strategica
anche la «diversità». Se tutte le componenti non sono sufficientemente diverse, è molto difficile che emergano delle proprietà globali. Tutto questo per dire che oggi si è creata una letteratura molto interessante sul tempo come dimensione creatrice. Se prendiamo Bergson, al di là delle sue categorie ottocentesche, la sua teoria sul tempo come luogo creatore è stato ripresa qualche decennio fa da un grande scienziato come Ilya Prigogine. Quindi il problema è che la dimensione temporale, lungi dal confermare o dal degradare l’attività del progettista, è una dimensione che deve entrare nella comprensione e negli strumenti «fini» del progetto. In sostanza, possiamo dire che il bravo progettista è colui che viene confermato dal tempo. Il bravo progettista, al limite, è colui che non vuole sor- prese nel tempo. Man mano che il progetto si attualizza, il bravo progettista vorrebbe avere conferme della sua visione. Viceversa, il cattivo progettista è colui che, di fronte al tempo che interagisce per smentirlo, non lo considera un’acquisizione importante bensì un segnale della sua inadeguatezza.
Tutta questa cosmologia in cui il tempo è fonte di imbarazzo e di degrado è una cosmologia ormai datata che risale a secoli orsono. La scienza è andata molto oltre, ma di fatto questa è l’epistemologia implicita di molti progettisti in tutti gli ambiti. L’idea è che l’atto creatore non è «processuale», ma è un atto che antecede la realizzazione del progetto.
Quindi il grave problema è che si crea una dualità fra progetto e tempo, oppure tra concezione e attuazione. Anche a livello di vocabolario, si creano dei confini, delle epistemologie dualiste per cui la mia testa dovrebbe essere in anticipo rispetto al mondo. Per quanto un progettista o un team possano avere delle teste complesse, l’ordine di infinità di una mente umana è estremamente inferiore allo stato di cose del mondo. Quindi è una contraddizione in termini pensare, come viene fatto seriamente in moltissimi ambiti, di anticipare tutte le possibili eventualità nel decorso temporale di un progetto.
Un altro di questi miti è il mito della completezza. Date queste premesse, possiamo dire di trovarci di fronte a una sfida molto interessante perché si tratta di ricostruire tutte le parole chiave e le procedure chiave del progetto classico in un orizzonte epistemologico diverso.
Ciò non significa non prendere sul serio i bisogni e le necessità. Per esempio, se noi rinunciamo all’idea di ottimalità e pensiamo invece all’idea di sub-ottimale o sub-ottimizzazione, possiamo citare Francisco Va-
rela, un neurofisiologo che ha riflettuto a lungo su queste cose e ha coniato il termine secondo me molto bello di «vivibilità». I progetti devono essere vivibili, devono cioè continuare a generare un seme di possibilità, se un progetto è «vivibile» il fatto che sia ottimo o non sia ottimo scompare.
In questo contesto, entra in gioco la mia specificità di filosofo della biologia. Però, ciascuno dovrebbe capire, rispetto all’ottimalità, quello che ci ha raccontato Stuart Kaufmann sul numero delle proteine possibili.
Anche in biologia c’è la teoria che il vivente è il risultato di un progetto ottimale. È divertente notare che l’evoluzionismo contemporaneo è nato con la negazione di qualunque effrazione dall’esterno ma poi la natura ha assunto molti tratti del demiurgo-creatore. La natura sarebbe dunque ottimale e noi avremmo la composizione biochimica ottimale per selezione naturale ecc. Allora Kaufmann fa vedere con un piccolo calcolo che una proteina fatta da 300 aminoacidi (quindi molto semplice), poiché possono esserci 20 aminoacidi in ogni posizione, le possibilità sono astronomiche, nel senso di molto di più degli atomi dell’universo. In sostanza, se la natura in ogni istante provasse una di queste proteine non basterebbe la storia
dell’universo a provarle tutte. Tutto ciò per dire che la vita funziona, ma non è certo l’insieme ottimale rispetto alle possibilità date, perché non basterebbero cicli cosmici per provarle tutte.


1 - Questo testo è un estratto dall’intervista a Gianluca Bocchi compresa in Francesco Varanini e Walter Ginevri (a cura di), Il Project Management emergente. Il progetto come sistema complesso, Guerini e Associati, 2009

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