BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 29/09/2003

L'IMPRENDITORE ED IL 'BENE POSSIBILE'

Riflessioni su un incontro con Padre Carlo Casalone [1]

di Bruno Bonsignore

Stiamo passando dall’era del possesso a quella dell’uso dice Rifkin nel suo famoso libro, e questo andrebbe letto come un poderoso segnale di saggezza globale. Tutto il mondo che produce e consuma  si starebbe rendendo conto che il possesso non è automaticamente portatore di benessere, così come il benessere non garantisce la felicità.

Quando ho finito di leggere il suo “l’era dell’accesso” ho pensato di rinunciare al mio progetto .

A cosa serve creare un professionista come il responsabile dell’etica aziendale, oltretutto senza disporre di riferimenti  poiché si tratta di una figura inesistente nel nostro contesto di lavoro, se ormai stiamo rinunciando alla proprietà?  Ormai le aziende hanno capito che esistono i gruppi di pressione non solo a Porto Alegre e Seattle,  e che devono (pre)occuparsi degli stakeholder, che occorre portare a bilancio i beni relazionali e inaugurare un nuovo concetto di capitale sociale… eppure… eppure l’etica negli affari è ancora un fatto di etichetta per creare consenso, di lifting a base di bilancio sociale (che essendo rendi-conto è compilato a cose fatte, non da farsi!), di codice etico e impegno per uno sviluppo sostenibile (perché ci deve essere uno sviluppo, e sostenibile come?)

Per accertarmene sono andato a leggere la prima ricerca sugli atteggiamenti del consumatore europeo verso la Corporate Social Responsability, a cura del MORI – Market and Opinion Research International . Un bel campione di 12000 europei di 12 Paesi, che affermano nella stragrande maggioranza che l’impegno sociale delle imprese è un fattore importante per la scelta d’acquisto. Uno su 5 è disposto a pagare di più per prodotti “responsabili” verso la società e l’ambiente, e in generale le aziende non fanno abbastanza e dovrebbero impegnarsi di più.

Emerge non solo un conflitto di interessi ma un conflitto di valori, nel quale domina un rapporto funzionale tra impresa e “l’altro”  come se quest’ultimo fosse un oggetto e non un soggetto capace di avere a sua volta un rapporto. L’azienda si sente autorizzata ad agire verso il prossimo in funzione dei propri obiettivi e delle proprie necessità pensando che questo non provochi problemi al destinatario. Ma quando questi si trasforma, in virtù di una crescente presa di coscienza universale,  da oggetto passivo a “persona” cioè un essere vivente,  allora succede che il progetto aziendale, incrociandosi con tanti altri progetti individuali con i quali entra in relazione, non può più essere assoluto ma (anche) in funzione degli altri, di tutti gli altri.

I no-global non sono più un episodio casuale ma una presenza costante e organizzata che, “incrociando” l’azienda tramite i prodotti, i servizi, la comunicazione, le iniziative finanziarie, irrompe quotidianamente nell’orizzonte dell’imprenditore obbligandolo ad assumere nuove responsabilità non solo dal punto di vista etico ma comportamentale, sociale e legale. Insomma, una responsabilità assoluta perché trascende la sua possibilità di controllo, in uno scenario di crescente complessità nel quale il vecchio rapporto causa-effetto non è più applicabile: a qualsiasi decisione, anche apparentemente marginale, possono corrispondere conseguenze non lineari e dunque imprevedibili.

Assistiamo così a un vero esproprio dell’autonomia decisionale dell’imprenditore che ha sempre meno opzioni di comportamento. E non solo eticamente, perché ormai è chiamato a rispondere da tutti, in modo globale, proprio come il mercato che ha voluto conquistare.

Naturalmente anche per l’imprenditore, come per qualsiasi soggetto, si pone il problema del limite. Potrà concorrere a realizzare solo il bene  “possibile” per cui dove termina il “possibile” finisce il problema etico.

Occorre quindi impegnarsi  per stabilire il confine tra possibile e impossibile, e rivedere e attualizzare questo limite continuamente, dal momento che ogni impresa è chiamata ad ampliare, nell’impegno etico, la propria responsabilità.

Scegliendo d promuovere dei valori in base a una gerarchia di priorità, poiché non è possibile fare tutto e subito: è opportuno un buon compromesso, nel quale impegnarsi senza risparmio ma sorvegliando che sia provvisorio e non diventi invece una scelta definitiva.

Sulla base di un rapporto di verità che deve essere contestualizzata, in funzione della relazione che viene instaurata con le persone con cui è in rapporto: non più soltanto il CdA, la proprietà e gli azionisti di controllo ma tutti gli azionisti, i dipendenti, i fornitori … gli stakeholder, i portatori di interesse. L’intera comunità e anche il territorio e l’ambiente.

C’è ancora tutto da fare. Il master in Business Ethics Management [2] è un piccolo grande passo, reso possibile dall’impegno personale e dagli interventi di personaggi come Serge Latouche, Salvatore Veca, Tonino Perna, Riccardo Petrella, Paolo Fabbri e tanti altri.



[1] Padre Carlo Casalone, SJ, membro del Comitato di Direzione di Aggiornamenti sociali, http://www.gesuiti.it/ag_sociali/home.html

 

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